POTERI

Riforma III: Il premierato

Torniamo ancora con la rubrica de Il Potere Ricostituente sulla riforma costituzionale e il referendum di ottobre. Un cambiamento della Costituzione è necessario, ma non secondo le linee proposte in modo opaco e prepotente da un governo neoliberale. La campagna del No continua…
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A chi giova lo sbilanciamento verso una sola Camera dominata da una minoranza relativa uscita dal confronto fra tre schieramenti equipollenti, ridotti poi ai primi due di essi, in pratica dal 51% di un elettorato sceso a sotto il 50%, come si deduce dagli ultimi ballottaggi comunali?

Evidentemente al leader della lista o coalizione vincente, che ha scelto gran parte dei candidati deputati ed è in grado di nominare, a maggioranza quasi semplice senza troppe trattative, il Presidente della Repubblica che formalmente continuerebbe a designarlo. Gli articoli 88 e 94 che riservano alla sola Camera la fiducia e sfiducia ed escludono il Presidente dal Senato dalla consultazione per lo scioglimento anticipato favoriscono il capo della lista che ha ottenuto il premio del 54% nel ballottaggio per la Camera. Renzi pensava di essere lui il fortunato, ma forse ha fatto male i calcoli. Il discorso critico resta però eguale. Il sasso pesa lo stesso se ti cade sui piedi.

Visto che un premierato formalmente elettivo è poco praticabile (l’esperimento di Israele è durato solo 7 anni, fra il 1996 e il 2003), con questo termine ci si riferisce a un premierato di fatto, soprattutto al modello inglese e al cancellierato tedesco. Quei modelli però, oltre a non essere direttamente elettivi, affidano di fatto alla maggioranza parlamentare (in generale al partito di maggioranza) la scelta e la decadenza del premier, che ha solo maggiori poteri di indirizzo, designazione dei ministri e indizione di nuove elezioni. Ora i meccanismi elettorali di entrambi i paesi, in modo diverso (collegio uninominale o sistema misto proporzionale) tutelano, a differenza dall’Italicum, l’indipendenza degli eletti dal leader che si presenta alle elezioni e quindi non garantiscono affatto la sua stabilità. In Inghilterra ci sono stati parecchi cambi di leader senza passare da nuove elezioni, come la sostituzione di Chamberlain con Churchill nel 1940, della Thatcher con Major nel 1990, la staffetta nel 2007 fra Blair e Brown e, proprio in questi giorni, le dimissioni di Cameron e l’ingresso a Downing Street di Theresa May.

Anche i poteri del Bundeskanzler tedesco, nel Grundgesetz post-weimariano sono limitati non solo dalla negoziazione con il Bundestag e un potente Bundesrat espressione dei Länder, ma anche dalla circostanza che egli non può imporre la propria volontà ai ministri e, in caso di contrasto, arbitra il collegio dei ministri. Solo l’istituto della sfiducia costruttiva (che cioè la richiesta di sfiducia debba già contenere il nome del nuovo premier) rende stabile il detentore del potere.

In Italia la tentazione del premierato compare nella cosiddetta “bozza Salvi” della fallita e illacrimata Bicamerale, che prevedeva l’elezione diretta del primo ministro, il suo rapporto di fiducia con la sola Camera dei deputati e lo scioglimento della Camera stessa in caso di approvazione di una mozione di sfiducia. Durante la XIV legislatura e il secondo e terzo governo Berlusconi venne adottato un progetto di riforma della Costituzione che in parte ricalca le velleità di premierato, aggiungendo il nome del candidato sulle liste di coalizione e rendendo più pasticciata la vicenda della sfiducia e dello scioglimento delle Camere, comunque disincentivate, sotto ricatto, a respingere le leggi governative. Con la bocciatura del referendum costituzionale del 25-26 giugno 2006 cadde il tutto. Restava però, grazie al Porcellum del 2005, l’obbligo per liste e coalizioni di depositare programma e nome del premier – una forte spinta alla personalizzazione, anche se priva di qualsiasi efficacia pratica e costituzionale.

Secondo tutti gli interpreti, l’Italicum del 2015 crea un premierato di fatto, riprendendo i precedenti tentativi abortiti e schivando le trappole di una formalizzazione costituzionale, che tanto male avevano portato in passato allo sciagurato progetto. I momenti essenziali dell’operazione sono la coincidenza fra Premier e Segretario del partito di maggioranza (che consente il controllo delle liste), il premio abnorme di maggioranza in una Camera che diventa preminente nel sistema legislativo e designativo delle cariche. L’indicazione del nome sulla scheda diventa ora un optional, visto il livello di personalizzazione conseguito altrimenti e il cui segno più clamoroso è stata la promessa (poi rimangiata) di andarsene a casa in caso di sconfitta al referendum – non alle elezioni, come sarebbe normale. La retorica di “un uomo solo al comando” (succeduta al più modesto “sindaco d’Italia”) va di pari passo con l’esaurimento della retorica delle “primarie” che pure era stata decisiva (al contrario di Berlusconi) per costruire la mitologia di una designazione destinale populistica. Una volta asceso al potere, il leader non è più unto dal popolo, ma costruisce dall’alto il suo popolo, lo mette in forma tramite meccanismi plebiscitari.

Dove sta l’errore di molti bravi partigiani del NO referendario? Se è corretto, come fa Zagrebelsky, affermare che le “riforme” sono in realtà adeguamenti della Costituzione del 1948 a una realtà oligarchica e che si tratta ormai di portare a compimento questo disegno, eliminando o abbassando gli ostacoli (pluralismo istituzionale, organi di controllo e di garanzia) che frenano il libero dispiegarsi del potere esecutivo, se è vero che questa normalizzazione e standardizzazione è l’opposto del far opera costituente, mirando piuttosto a umiliare Parlamento elettivo davanti all’esecutivo, per l’effetto congiunto della legge elettorale e della riforma costituzionale, non è ben chiaro chi sia l’utilizzatore finale del processo. A volte si addita nel Presidente della Repubblica colui che, dall’alto, potrà manovrare per ottenere la fiducia della Camera e gestire l’accentramento a favore dello Stato a danno delle Regioni e, nello Stato, a favore dell’esecutivo e a danno dei cittadini e della loro rappresentanza parlamentare. Ma non si può condurre una battaglia contro un pur confuso progetto di premierato con gli stessi argomenti con cui si contrastavano il semi-presidenzialismo alla francese di Fini e Berlusconi e il presidenzialismo informale del deprecato Napolitano.

Neppure si può porre per obbiettivo l’«opporsi alla perdita della nostra sovranità, difendere la nostra libertà», così sans phrase. Quale sovranità? Quella del popolo ambiguamente fondata sul lavoro? Certo, è il minimo, malgrado ogni riserva sul datato lavorismo. Sovranità della nazione, che peraltro incorpora all’art. 7 una pesante deroga a favore del cattolicesimo e del Vaticano? Sovranità della finanza europea, introdotta esplicitamente con l’art. 81 sull’equilibrio di bilancio e recenti estensioni? Un NO difensivo-conservativo confermerebbe oggi non solo il lavorismo originario, ma la sua metamorfosi neo-liberale. Chiaro che c’è un problema e altrettanto insoddisfacente è la bipartizione pubblico/privato definita tutta dentro l’orizzonte keynesiano, come era inevitabile e progressivo all’epoca della redazione.

In conclusione, un cambiamento della Costituzione è necessario, ma non secondo le linee proposte in modo opaco e prepotente da un governo neoliberale mediante un Parlamento porcellesco delegittimato. Diversamente necessario, dunque, il che non vuol dire che sia possibile nelle presenti condizioni di collasso dei partiti e dei movimenti. Per questo la campagna del NO tiene aperta una situazione evitando il peggio in attesa del meglio, senza idealizzare il testo del 1948 già sconciato nel terzo millennio.

Al partito del SÌ, che copre una svolta autoritaria ed estrattiva con la retorica del cambiamento per il cambiamento, occorre opporre un NO che salvaguardi le possibilità di un cambiamento reale, che devono maturare attraverso un ciclo di lotte e una ridefinizione degli stessi concetti di sovranità e cittadinanza che abbracci Europa e migrazioni ben oltre un sovranismo nazionale bianco. Non stiamo difendendo il Cnel o le province o le regioni a statuto speciale (incongruamente non toccate) e neppure per principio il bicameralismo, ma l’esistenza del futuro, la nostra esistenza nel futuro.

L’orizzonte del futuro – ma su questo ci sarà tempo di ritornare – implica la ricostruzione di una tradizione, una sua diversa invenzione (come sempre), che non sia quella centralistico-unitaria finora prevalsa nella logica rappresentativa ed esasperata dalla “riforma” MEB, bensì federale e comunale. Non è un caso se i due paesi dove maggiormente è vivace un filone neomunicipalista, l’Italia e la Spagna, sono quelli dove lo stato assoluto si è imposto soffocando un’altra modernità possibile, quelle delle libere repubbliche cittadine e della rivolta dei Comuneros. Oggi nella crisi della sovranità e nel contesto europeo e delle global cities è forse tempo di ripercorrere e aggiornare anche percorsi forzosamente abbandonati.