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Neuroscienze e stereotipi di genere

Dalla craniologia nel ‘700 fino alle attuali neuroscienze, il cervello è l’oggetto di studio privilegiato per dare una base scientifica alle discriminazioni di genere. In questa intervista, apparsa originariamente su pagina12, Lucia Ciccia, epistemologa e femminista, ripercorre tre secoli di ricerche in cui metodi statistici poco ortodossi, stereotipi sociali e pressioni politiche si supportano vicendevolmente per giustificare binarismo sessuale e patriarcato.

Qual è la relazione tra il patriarcato e la scienza?

Storicamente, le pratiche politiche che implicavano la violazione sistematica dei diritti delle donne e l’imposizione di una norma di condotta dipendente dal sesso hanno richiesto un sostegno scientifico capace di legittimarle. Di conseguenza, le ricerche orientate allo studio delle differenze biologiche tra i sessi hanno sempre cercato di “corroborare” l’inferiorità della donna come un fatto universale e questa veniva esclusa dalla stessa produzione di sapere scientifico proprio sulla base di tale pregiudizio.

 

È importante sottolineare che nell’antichità la scienza era quasi esclusivamente patrimonio maschile…

Nel medioevo la Chiesa cattolica garantì questa continuità. Infine, a partire dal XVII secolo, con la istituzionalizzazione della scienza, le donne rimasero ufficialmente escluse dalla produzione del sapere scientifico fino alla fine del XIX secolo, quando si regolamentò l’ingresso delle donne nell’università. Come sostiene Evelin Fox Keller, oggi non è l’assenza relativa di donne a rendere la scienza essenzialmente maschile, ma l’attività scientifica stessa. Ovvero, la natura della sua metodologia.

 

La scienza ha sempre sostenuto l’esistenza di una incapacità innata nella donna?

Sì, però gli argomenti per sostenerla sono cambiati nel tempo, in accordo con il contesto scientifico in cui si svilupparono. Ciononostante, come sostiene Diana Maffía, è possibile identificare un metodo comune usato dalle scienze per legittimare la superiorità maschile. Questo metodo implica: A) segnalare differenze biologiche e psicologiche naturali e inevitabili tra uomini e donne. B) Gerarchizzare queste differenze in modo che le caratteristiche femminili siano sempre irrimediabilmente inferiori a quelle maschili. C) Giustificare in virtù di tale inferiorità lo stato sociale delle donne.

 

Cosa hai voluto dimostrare nella tua tesi?

Seguendo la linea di analisi della Maffía, ho esplorato come furono costruite storicamente le differenze biologiche tra “uomini” e “donne” per legittimare il punto B. In particolare mi sono concentrata nella nuova cosmovisione dei sessi che iniziò a costituirsi a partire dalla nascita della scienza moderna nel XVII secolo. Sostengo che questo punto di svolta, che significò abbandonare la teoria ippocratico-aristotelico-galenica dei corpi, implicò la riduzione delle differenze all’organo che era “comune” a entrambi i sessi: il cervello. Diventando un oggetto di studio, misurabile e pesabile, il cervello fu la pietra angolare per garantire non solo la subordinazione della donna, ma anche un’organizzazione gerarchica regolata in termini di razza e classe. In questo modo, sul cervello si basò la polarizzazione dei ruoli sociali, che era necessaria per la società precapitalistica in via di industrializzazione.

 

Quindi sostieni che le scienze del cervello furono centrali per giustificare il ruolo che la donna doveva occupare nell’ordine sociale emergente?

Esatto. Nel mio studio descrivo come, per mezzo dei postulati provenienti dalla scienza del cervello, si è cercato di neutralizzare i discorsi protofemministi dei secoli XVII e XVIII e successivamente quelli delle tre ondate femministe. Così, la frenologia nata nel XVIII secolo – secondo la quale ogni istinto o facoltà mentale risiede in una zona precisa del cervello, a cui corrisponde un particolare rilievo cranico –, contribuì alle giustificazioni biologiche che legittimavano la classificazione gerarchica e binaria dei corpi, assegnando ruoli dipendenti dal sesso: la donna apparteneva per natura all’ambito privato, mentre l’uomo era fatto per conquistare lo spazio pubblico. Credo che l’affermazione di questa dicotomia, avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento, coincise col trionfo definitivo della teoria della “localizzazione cerebrale”.

 

Cosa dice questa teoria?

Assegna funzioni specifiche a determinate aree cerebrali. Il cervello, che fino ad allora era stato un organo inclassificabile, iniziò a essere studiato al di là delle misurazioni antropometriche, definite dalla frenologia e successivamente dalla craniologia, rendendo possibile la modernizzazione delle tesi basate sul cervello che giustificano l’incapacità mentale della donna. In aggiunta a questi fatti, verso la fine del secolo, la scoperta dei “neuroni” come unità funzionali, rivoluzionò il modo di concepire il cervello e gettò le fondamenta per l’attuale neuroscienza. In definitiva, sostengo che, con metodi di comparazione e forme argomentative differenti che dipendono dai livelli tecnologici e scientifici di quell’epoca, a partire dalla scienza moderna il cervello è stato il fondamento biologico prediletto per legittimare l’oppressione della donna. Di conseguenza, sostengo che le neuroscienze oggi rappresentano l’autorità scientifica capace di appoggiare la storica categorizzazione binaria e gerarchizzata dei sessi.

 

Come ti sei avvicinata a questo tema?

Mi sono laureata in biotecnologie. Iniziai una ricerca nella facoltà di medicina. L’idea era scoprire il compito di un recettore associato a deficit cognitivi in pazienti con disturbi psichiatrici, schizofrenici e schizofreniche in particolare, relazionato alla capacità di adattarsi a cambiamenti dell’ambiente. Non si sapeva che facesse esattamente questo recettore. C’erano alcune idee, ma niente di concreto. Però attirò la mia attenzione il fatto che mi dissero di usare solo cavie da laboratorio maschili, per evitare le fluttuazioni ormonali di quelle femminili.

 

I topi femmine hanno fluttuazioni ormonali?

Sì, dovute al ciclo di ovulazione, e si ritiene che questa fluttuazione introduca variazioni nei test comportamentali. Tanto è vero che ci sono studi nelle neuroscienze focalizzati a studiare, negli umani, la capacità di svolgere test cognitivi nella fase follicolare iniziale e avanzata, due periodi diversi del ciclo mestruale in cui i livelli di estrogeni variano.

 

Perché?

Perché i livelli di estrogeni si associano a performance diverse in certi test, come avviene con il testosterone. I test che mostrano una delle differenze più consistenti tra i sessi sono quelli associati a una capacità cognitiva chiamata abilità visuo-spaziale. In linea generale riguarda il modo in cui il cervello processa le informazioni dell’ambiente circostante per muoversi nello spazio. È vincolata alla capacità di astrazione. Questi test mostrano le differenze più consistenti tra i sessi, con performance maschili che superano quelle femminili, e si relaziona questo fenomeno ai livelli di testosterone: più testosterone, migliori risultati.

 

Quindi è vera l’affermazione che sostiene che noi donne facciamo più fatica che gli uomini a leggere una mappa, per esempio?

La lettura di una mappa ha a che fare proprio con questo compito. Si dice che c’è una correlazione positiva con i livelli di testosterone.

 

E cosa c’è di vero?

Il tema è controverso, i risultati sono contraddittori, perché gli esperimenti in neuroscienza si caratterizzano per un numero basso di partecipanti: 10, 12, 15, 20 persone.

 

Così pochi?

Ci sono eccezioni che possono arrivare a gruppi grandi, fino a 500 persone. Però in generale i numeri sono bassi, vista la complessità degli studi, perché a volte mancano i soggetti sperimentali: a seconda di cosa si vuole valutare, può essere difficile trovare partecipanti, altre volte per ragioni di infrastruttura. Però sono caraterizzati da questi numeri, bassissimi.

 

Torneremo su questo punto, però eravamo rimasti ai topi…

Per evitare le fluttuazioni ormonali si usavano solo maschi. Se si usano solo maschi per scoprire la funzione di un recettore, allora si può pensare che non ci siano differenze tra il cervello di maschi e femmine e quindi tra uomini e donne. Perché l’idea è quella di applicare questi risultati agli umani. Quando iniziai a fare ricerche sulle differenze cerebrali tra uomini e donne, nel database di dati PuBMed – una delle più grandi banche dati di letteratura biomedica prodotta dalla National Library of Medicine (NLM) degli Stati Uniti –, digitando nel motore di ricerca “human brain + sex difference” (cervello umano + differenze sessuali) appaiono più di 8000 articoli. Ossia centinaia di articoli che in teoria dimostrano punto per punto le differenze cerebrali tra uomini e donne. Per esempio: la comparazione delle immagini erotiche con differenti pattern di attività neuronale, dell’umore, della paura, emozioni, capacità cognitive e comportamentali.

 

Che livello di attendibilità hanno quegli studi, se si fanno con 15 o 20 persone?

C’è un problema: quando il campione statistico ha un numero basso di componenti, si può replicare lo studio ma ciò non significa aumentare il numero, perché sono due esperimenti diversi. È scorretto statisticamente. Anche se è abitudine farlo, non va comunque bene. Uno deve riportare il numero di volte che si è fatto l’esperimento e con che numero di partecipanti è stato fatto. Però dato che i numeri sono piccoli, quello che solitamente si fa è realizzare due volte o più l’esperimento per aumentare il numero del campione e riportarlo come un unico studio. Non è corretto. Ma in generale si fa solo una volta e non si replica. Questo perché la replica porta via tempo e “non darà” un risultato nuovo perché si è già fatto una volta, si starà solamente verificando un risultato. Per pubblicare non si verifica la replica degli esperimenti. Per questo i gruppi di ricerca tendono a non farlo. Ciò che si esige nelle riviste scientifiche è mostrare differenze significative in uno studio nuovo. Per questo l’affidabilità statistica non è in generale buona.

 

Ciò che affermi potrebbe squalificare molti dei libri che si stanno vendendo oggi nelle librerie e che si basano su esperimenti di neuroscienze per affermare differenze cerebrali tra uomini e donne…

Non so cosa dicano esattamente quei libri, però affermare in termini definitivi che il cervello delle donne è più emotivo di quello degli uomini è falso. In primo luogo perché non possiamo parlare del cervello come un tutto. Cosa significa che è più emotivo? Ci sono strutture multiple, circuiti, zone e tipi diversi di emozioni, non una sola, omogenea, correlata a un unico pattern di attivazione neuronale. Il cervello è molto più complesso di una semplice relazione lineare “stimolo-risposta”.

 

Torniamo ai topi…

Inizialmente indagai l’affidabilità delle ricerche che, basandosi sul dimorfismo sessuale genetico-ormonale-genitale, proiettavano questo dimorfismo al cervello. Cioè due tipi di cervello diversi, corrispondenti “al sesso cromosomico”. Chiarisco che polemizzo con questa classificazione binaria per il nostro corpo in generale, essendo un parametro normativo per marginalizzare quei corpi che non si adattano alla norma. La cosa interessante di questi studi era che, sebbene affermassero un dimorfismo sessuale cerebrale, questo fatto non si rifletteva negli studi con i roditori: rimaneva il “bias” di non considerare le femmine. Mi accorsi che non si trattava di un errore metodologico – che non si accorgevano di non usare femmine – ma che c’era il pregiudizio di usare i maschi come riferimento.

 

L’universale?

In quanto l’uomo è l’universale, il maschio è l’indice di riferimento. Oggi nei test preclinici in generale si usano maschi. Nel 2014, negli Stati Uniti, il National Institutes of Health (NIH) ha pubblicato un annuncio in cui si obbliga a introdurre il sesso come variabile biologica, nei test preclinici, a meno che statisticamente non si dimostri il contrario.

 

Aspetta… affermi che sia necessario usare femmine e maschi negli esperimenti di scienza di base, però allo stesso tempo che dagli studi non risultano differenze tra i cervelli di maschi e femmine. Non è contraddittorio?

È una buona domanda. Il primo punto era: se c’è un dimorfismo cerebrale negli umani, non lo stiamo registrando ed è un problema. In altri termini, se c’è tanta ricerca esaustiva a fini clinici sulle differenze cerebrali tra uomini e donne, perché quelle differenze non si registrano nei test preclinici? Il secondo punto era che le ipotesi dalle quali partivano le ricerche che affermavano tali differenze riproducevano i pregiudizi classici sessisti e androcentrici che servivano a legittimare la lettura gerarchica e binaria dei sessi. Se non era possibile affermare l’esistenza di un dimorfismo cerebrale, come poteva ripercuotersi questo fatto nella pratica clinica? Quello che sto studiando ora sono le conseguenze cliniche di questa divisione.

 

Alla fine lasciasti la scienza di base e i roditori….

Sì. La mia tesi si basa sulla revisione critica del discorso neuroscientifico della differenza sessuale e l’impatto che ha nella ricerca biomedica e nella pratica clinica, a causa di quella disparità tra test preclinici e test clinici di cui abbiamo parlato e che a sua volta ci porta alla domanda: se non c’è dimorfismo sessuale nel cervello, perché usare individui di sesso femminile nei test preclinici rappresenta un problema?

 

Quali sarebbero le conseguenze?

Il problema è che i test preclinici non sono solamente cerebrali: ci sono test preclinici che hanno a che fare con questioni farmacologiche, con la metabolizzazione dei farmaci, dove è lecito – io credo – come approssimazione, usare come risorsa metodologica la classificazione binaria tra uomini e donne. Perché possiamo dire a grandi linee che ci sono due tipi di fegato, per esempio, in relazione all’assorbimento dei farmaci.

Ora, è possibile affermare lo stesso per il cervello? Il cervello non è un organo isolato. Si può pensare che se è possibile classificare i restanti sistemi fisiologici in modo binario come risorse metodologiche per la pratica clinica, allora perché non fare lo stesso con il cervello, che è parte dello stesso corpo? Il problema è che la nostra specie si caratterizza per l’alta plasticità cerebrale.

 

Cosa significa?

È la capacità di accumulare esperienza. Questo si riflette nel nostro cervello. Tanto è vero che il sesso non predice il tipo di cervello: a oggi non si può dire se un cervello appartiene a un uomo o una donna semplicemente guardandolo.

 

Non si possono distinguere?

No, perché ci sono tantissime strutture, sovrapposizioni in ciò che classifichiamo come uomini e donne e inoltre in un cervello non c’è una “consistenza logica”. In altre parole, non ci sono strutture o aree che siano caratteristiche solo dell'”uomo” o della “donna”, i cervelli sono mosaici: combinazioni di queste strutture che oggi si etichettano come “maschili” e “femminili”.

 

Ci sono medici specializzati in neuroscienze, con grande risonanza mediatica, i quali affermano che le donne sono multifunzionali (multitasking) per le caratteristiche del cervello femminile. Possiamo anche pensare che ci adattammo alla multifunzionalità perché storicamente fummo assegnate all’ambito domestico, il che è diverso dal considerarla come una predisposizione naturale per le nostre caratteristiche cerebrali?

Esatto! Poco fa ho detto che un’alta plasticità cerebrale ci caratterizza come specie e che abbiamo la capacità di assimilare informazioni ed esperienza individuale, questo ha effetti sul nostro tessuto neuronale e ci restituisce un cervello unico: non c’è un cervello uguale a un altro. Quindi sì…ci sono stereotipi normativi di genere.

 

Che impatto ha lo stereotipo di genere nella nostra struttura cerebrale?

Credo che le condotte normative che riproduciamo e produciamo, tanto come donne che come uomini, che sono gli unici sessi definibili secondo il discorso scientifico – chiarisco che con i termini uomo e donna intendo le categorie biologiche – possono ripercuotersi nella nostra architettura cerebrale. Cioè, l’apprendimento delle pratiche di genere può riflettersi nei nostri cervelli e possiamo commettere l’errore di pensare che esistono diversi “sessi”, mentre in realtà si tratta di differenze di genere, che sono apprese, sono programmazioni/strutture culturali. Per questo possiamo parlare di condotte che hanno capacità di determinazione e variazione su base individuale. In definitiva, se guardassimo cervelli di donne e uomini e incontrassimo differenze in risposte associate ad attività multitasking, potrebbe darsi che tali differenze siano conseguenza delle nostre pratiche culturali e non di cause biologiche.

 

Esistono cervelli che non hanno influenze sociali di nessun tipo, per poter studiare e determinare se sia causa biologica o conseguenza culturale?

Questa è la domanda chiave e la risposta è no. La mia ipotesi è comunque vera in qualsiasi ricerca che dica che la causa è genetica e ormonale. Perché non abbiamo a disposizione nessun cervello che sia esente dalla cultura. Le differenze più grandi, le più consistenti, sono quelle associate ai compiti di riproduzione, alla chimica e alla meccanica, all’erezione, all’eiaculazione e al ciclo di ovulazione. Sono le due strutture cerebrali che presentano le differenze più consistenti negli umani e comunque anche in queste esistono sovrapposizioni.

 

Che vuol dire?

Che nemmeno in quelle aree siamo esenti dalle pratiche socio-culturali. Possiamo avere soltanto un’approssimazione degli influssi della nostra costituzione genetica ormonale sulla nostra rete neuronale, essendo tale influsso indissociabile dalla pratica socio-culturale. Non possiamo vedere il cervello e dire «fin qua è biologico» e «fin qua è culturale».

 

Perché dalla neuroscienza si riaffermano gli stereotipi di genere? Che interessi ci sono dietro, dato che queste ricerche hanno così poca affidabilità statistica, come tu stessa affermi?

Le persone che fanno scienza spesso non sono coscienti degli stereotipi che si riproducono. Molti e molte pensano che quella sia la verità, che esistano due cervelli e che la nostra biologia determina capacità e condotte dipendenti dal sesso. Ciononostante, classificare i cervelli in accordo a una categorizzazione binaria può dare falsi positivi. Cioè, raggruppare i cervelli secondo il criterio uomo-donna può, o no, riflettersi in differenze, a seconda dal caso, dovute a “quali cervelli” hanno partecipato allo studio. Salvo alcune eccezioni, non è possibile considerare il sesso come variabile biologica negli studi cerebrali in essere umani, mentre nei roditori solo in condizioni molto specifiche, dovendo controllare una molteplicità di variabili. Nella mia tesi affermo l’urgenza di riconcettualizzare il regime sessuale binario, al fine di abilitare la produzione di nuove metodologie che rendano possibile un migliore accesso alla comprensione di come la nostra biologia ha effetto sulla vulnerabilità e sulla prevalenza di disordini e infermità neuronali. In tal senso, propongo di iniziare da una prospettiva cerebrale, però suggerisco anche la necessità di estenderla a tutto l’organismo. La classificazione binaria risponde a un regime patriarcale che ha “prodotto” due sessi ideali, in termini di salute, in approssimazioni biologiche come risorsa metodologica al servizio dei nostri sessi reali. Inoltre sostengo che oggi il genere deve immancabilmente assumersi come variabile nella ricerca biomedica e nella pratica clinica.

 

Articolo pubblicato su pagina12. Traduzione in italiano di Angelo Piga per DINAMOpress