POTERI

Programmazione economica postcapitalista: ipotesi oltre il futuro

Inizia oggi a Roma, presso l’Atelier Autogestito ESC (via dei Volsci, 159), il Festival Interregno: tre giorni di futuri possibili, suoni radicali e visioni per il postcapitalismo. Un approfondimento sul tema economico.

Il programma del festival Interregno

Quando abbiamo deciso di dedicare, nell’ambito del festival Interregno, un panel al tema della programmazione economica del comune, non pensavamo di occuparci di qualcosa che potesse avere una presa immediata sulla realtà, un’ipotesi pronta ad essere concretamente sperimentata. Neppure un tema che pretendeva di diventare, qui ed ora, una rivendicazione delle lotte sociali. Ciò che andiamo definendo, con una espressione ancora troppo inafferrabile, programmazione economica del comune, è al momento prima di tutto un’immaginazione, forse un’utopia: una delle tante che si materializzeranno in questo festival. Jeremy Gilbert, riprendendo il titolo del lavoro a cui era impegnato Mark Fischer prima di lasciarci, ha usato espressioni come socialismo psichedelico o acid corbynism1, per indicare una cosa persino scontata, ossia che una lotta politica o un progetto organizzativo come quello corbyniano, è tanto più forte quanto è in grado di generare visioni e immaginari di cambiamento, come anticipazione di avanzamenti che seguiranno sul piano materiale. Gilbert sostiene che per contrastare l’individualismo alienante del neoliberismo, un progetto politico radicale dovrebbe ispirarsi ad espressioni culturali capaci di promuovere sentimenti di gioia collettiva (feste, discoteche, ecc..), esattamente come una certa psichedelia contro-culturale è stata in grado di fare negli anni Settanta. Ecco, sperando nella vostra grande indulgenza, proviamo a dire che a suo modo la programmazione economica del comune si presenta come un dibattito acido, perché facendo in parte leva sul discorso luminoso e gioioso della partecipazione democratica alla vita economica nelle piattaforme cooperative di rete, prova a piegare “piratescamente” la discussione riportandola su un terreno meno lineare, di certo non irenico, dunque più adatto ad una discussione politica radicale. È immaginabile una forma di programmazione economica, fondata sulle piattaforme cooperative digitali, che fa leva su esperimenti di auto-organizzazione della produzione e istituzioni mutualistiche autonome?

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una rapida diffusione del dibattito intorno alla “nuova età delle macchine”, al platform capitalism o semmai quello intorno al manifesto accelerazionista. Non può certo sfuggirci che una parte dei protagonisti di questo dibattito hanno fatto propria una tesi secondo cui il capitalismo in crisi, starebbe suo malgrado progressivamente generando i presupposti per la sua estinzione, alimentando le possibilità dell’affermazione di un modello di economia pienamente post-capitalista, grazie alla diffusione dei modi di produzione fondati su una generica collaborazione. Vale subito la pena di segnalare che l’ipotesi della programmazione economica del comune non certo può essere associata a questa visione irenica della società. Nel contempo, come ricorda correttamente Witherford in un suo recente lavoro su questi stessi temi «Nel discutere di calcolo economico e comunismo è quasi impossibile sfuggire all’accusa di abbandonare le lotte e i soggetti in favore di un determinismo macchinico»2. In ragione di ciò, il dibattito sulla programmazione economica del comune non può che essere inteso come un discorso aperto e incompiuto, delle semplici note di lavoro, continuando in qualche misura a fare tesoro del rifiuto marxiano di «fornire le ricette per la cucina dell’avvenire».

Qualcuno, inoltre, potrebbe anche obiettare che il tema della pianificazione dell’economia – perché poi fuori dai denti è di questo che si tratta – è tutt’altro che associabile ad una visione di futuro, ad un desiderio di liberazione: il tema sarebbe ampiamente catturato dall’immaginario del socialismo realizzato, con le sue sconfitte e con i suoi profondi limiti, direbbero i detrattori. Se così fosse conviene da subito provare a sgomberare il campo da alcuni facili equivoci, provando a fornire una prima e abbozzata definizione del problema.

Innanzitutto con programmazione economica del comune pensiamo ad una forma di pianificazione e calcolo economico radicalmente democratico, non centralizzata e neppure legata alla sovranità dello Stato. Un modello di pianificazione, che facendo ampiamente uso delle tecnologie delle piattaforme informatiche, risulterebbe fondato su uno spinto decentramento dei luoghi in cui si prendono le decisioni sulla produzione e la distribuzione di beni, ma allo stesso tempo in grado di assicurare una coerenza e sostenibilità al sistema economico nel suo complesso. Una “fabbrica della programmazione” dunque, impiantata sulla capacità auto-organizzativa dei lavoratori nella produzione, sull’autonomia delle istituzioni indipendenti nate dal basso grazie alle lotte, sui contro-poteri diffusi. Per questa ragione una fabbrica sempre aperta e sempre soggetta al cambiamento. Se l’“economia pianificata” novecentesca, compresa l’esperienza sovietica, hanno rappresentato in larga parte la forma di governo centralizzato dell’economia in cui tutte le decisioni fondamentali venivano prese dallo Stato e dall’alto dei luoghi del comando, la programmazione economica del comune vorrebbe intendere la possibilità che la pianificazione economica fuoriesca dai confini dello Stato per dispiegarsi per intero lungo i confini mobili della dualità del potere: che da un lato vedono il governo con le sue funzioni, dall’altro i contro-poteri diffusi.

Nel compiere questo scarto rispetto all’esperienza storica del socialismo realizzato, va subito anticipato che l’esperimento dell’economia pianificata è puntellato da occasioni “eterodosse”, momenti in cui il tema della pianificazione è stato associato al decentramento delle decisioni attuato proprio mediante l’uso della tecnologia informatica: si tratta evidentemente di un laboratorio di esperienze da cui non possiamo non attingere.

LA PIANIFICAZIONE E IL PROBLEMA DEL CALCOLO ECONOMICO

Questo discorso non può che prendere le mosse dal problema teorico fondamentale della pianificazione: quello della possibilità del calcolo economico.

Nella seconda metà degli anni Trenta ci fu una ripresa della riflessione teorica sulla pianificazione dell’economia. Ad iniziare questo dibattito non furono gli economisti marxisti, come qualcuno potrebbe giustamente pensare, bensì alcuni tra i più influenti pensatori all’origine del nascente laboratorio neoliberale. L’economista austriaco von Mises, in un famoso articolo del 1935, fu il primo a sostenere che l’economia pianificata non potesse mai funzionare in modo razionale3. Solo più tardi, come ha avuto modo di scrivere Claudio Napoleoni4, furono pubblicati alcuni interventi rilevanti da parte di economisti sovietici, che in parte ebbero la funzione di rispondere agli attacchi ricevuti.

Le ragioni dell’irrazionalità dell’economia pianificata, secondo le accuse di von Mises, discenderebbero da due presupposti tipici del pensiero economico dominante accettati tutt’ora dalla totalità degli economisti borghesi. Il primo presupposto vuole che lo scopo dell’economia, indipendentemente dal contesto istituzionale, è quello di assicurare il più efficiente utilizzo di risorse scarse, dato il perseguimento di fini alternativi. Da ciò ne deriva il secondo presupposto, ed ossia che ogni economia che voglia operare efficientemente ha bisogno che le risorse a disposizione siano dotate di buoni segnali di scarsità, capaci di guidare qualsiasi operatore economico (individui, imprese, lo Stato) nelle proprie scelte di allocazione delle risorse. L’economia di mercato, grazie ai prezzi relativi delle merci, sarebbe in grado di riprodurre continuamente questo sistema razionale dei segnali di scarsità. Di converso, secondo von Mises, l’economia pianificata, essendo per definizione un’economia senza mercato, non sarebbe in grado di generare al suo interno il medesimo presupposto razionale, conducendo i pianificatori necessariamente all’arbitrio e all’irrazionalità.

Più tardi altri due economisti neoliberali, Lionel Robbins (1934)5 e von Hayek (1935)6, in continuità con il loro predecessore si espressero a favore dell’irrazionalità dell’economia di piano. Diversamente da von Mises, le loro obiezioni si contraddistinsero per una critica maggiormente segnata da ragioni pratiche. Entrambi sostennero che se in ragion di principio non può essere negata la possibilità del calcolo economico in una economia non di mercato, dal punto di vista pratico ciò risulta impossibile. Il pianificatore, per calcolare il fantomatico equilibrio economico generale di una data economia di piano (che assicura lo stato di efficienza del mercato), dovrebbe essere in grado di computare in tempi estremamente rapidi un numero enorme di equazioni pari al numero di individui e di altri operatori economici che compongono la comunità. Evidentemente la tecnologia a disposizione in quel tempo, nel mondo occidentale quanto in Urss, non consentiva una tale impresa.

A questo punto occorre portare l’attenzione su altri aspetti utili a questa nostra discussione. Come opportunamente ha fatto notare ancora una volta Witheford7, nella concezione di Hayek del mercato e della sua interpretazione della “mano invisibile” smithiana non è mancata una certa immaginazione macchinica, tanto da consentire l’accostamento tra la sua ipotesi di funzionamento del mercato e quello di una macchina-informatica. Diceva Hayek: «Non è solo una metafora descrivere il sistema dei prezzi come un tipo di macchina per la registrazione del cambiamento, o come un sistema di telecomunicazioni che consente ai singoli produttori di osservare semplicemente il movimento di alcuni indicatori come un ingegnere potrebbe osservare le lancette di alcuni sensori, al fine di adeguare le loro attività a cambiamenti di cui non potranno mai sapere più di quanto si rifletta nel movimento dei prezzi»8.

D’altro canto è opinione piuttosto condivisa che la riflessione neoliberale hayekiana sia stata almeno in parte ispirata dalle ricerche sviluppate in un altro campo come quello della cibernetica, grazie ai lavori pioneristici del matematico statunitense del MIT, Norbert Wiener, che risalirebbero a quel periodo9.

Si potrebbe dedurre, soprattutto se si tiene conto dei suoi scritti successivi, che per Hayek non è affatto escluso che l’economia abbia bisogno di essere pianificata. Semmai una delle differenze rispetto all’economia di piano propriamente detta, risiederebbe nel fatto che nella versione neoliberale ciascun singolo operatore economico (individui o imprese), attraverso le proprie scelte di mercato, contribuisce indirettamente a perfezionare il piano generale dell’economia. Nella sua concezione le forze del mercato sarebbero dunque in grado di generare un piano non coercitivo fondato sulla libertà dell’individuo-impresa. Se non fosse sufficientemente chiaro, stiamo solo riproponendo con altri termini l’ipotesi della governamentalità foucoultiana.

Questa ipotesi, compresa la relazione hayekiana con la cibernetica, risulta assai esplicita quando qualche anno dopo egli introduce il concetto di ordine spontaneo10. Tale concetto serve ad Hayek per identificare in modo nuovo l’insieme dei risultati economici che risultano indipendenti dalla volontà umana, ma non per questo dalle azioni effettivamente compiute dai singoli individui.

Per il l’economista e filosofo austriaco l’ordine spontaneo del mercato non ha affatto bisogno di individui perfettamente razionali come nella concezione economica standard. Più a fondo ancora, per Hayek non esiste neppure un unico tipo di razionalità come nell’ipotesi paretiana dell’homo oeconomicus. Inoltre, la scelta razionale tra scopi alternativi non dipende neppure solo dalle preferenze individuali ma anche dagli aspetti istituzionali e sociali che condizionano il comportamento umano. L’ordine spontaneo del mercato, a differenza di una concezione ingenuamente naturalistica, come quella rappresentata dall’economia walrasiana dell’equilibrio economico generale, per poter funzionare, ha bisogno di norme generali e di uno Stato capace di produrre un’azione piuttosto forte servendosi anche del mix di politica economica.

Hayek utilizza una seconda espressione per sintetizzare in modo efficace la nozione di ordine spontaneo applicata al mercato. L’espressione usata è la catallassi: «Propongo di chiamare questo ordine spontaneo di mercato catallassi, in analogia con il termine catallattica, che è stato spesso proposto come sostituto del termine economia (entrambe le espressioni, catallassi e catallattica, derivano dall’antico verbo greco katallaiten che, significativamente, vuol dire non solo barattare e scambiare, ma anche ammettere nella comunità e diventare amici da nemici)».11

LE PRIME RISPOSTE DEI TEORICI DELLA PIANIFICAZIONE

Le risposte dei sostenitori della pianificazione statuale dell’economia non tardarono certo ad arrivare a seguito degli attacchi dei pensatori neoliberali. La prima risposta in ordine cronologico giunse da Oscar Lange attraverso un primo scritto del 193612. Economista polacco, socialista, ma nel contempo studioso formatosi sull’individualismo metodologico, tanto da fare di lui una figura atipica e non certo priva di problematicità. Lange rigetta la critica di von Mises affermando che una volta accettata l’ipotesi che il prezzo è un coefficiente di scarsità, piuttosto che un banale rapporto di scambio, si può dedurre che il calcolo economico in una economia pianificata può essere condotto in modo assolutamente razionale così come in una economia di mercato. Ma una volta respinta l’argomentazione logica di von Mises, Lange sembra inizialmente (quasi) concordare con la critica pratica di Hayek e Robbins richiamata nel paragrafo precedente. Dato che per il pianificatore socialista sarebbe impossibile calcolare le quasi infinite equazioni simultanee dei singoli individui, non resta altro da fare, che descrivere e fare operare l’economia socialista con la stessa struttura logica tipica dell’economia di mercato, dove le imprese pubbliche sono lasciate libere di prendere decisioni in un quadro di regole fissate d’imperio13. Se da un lato Lange ha il merito di aver accettato che anche in una economia non di mercato il problema della razionalità dei singoli operatori non può essere tralasciato, dall’altro egli accetta di ragionare partendo dalle premesse logiche del paradigma economico dominante. A dire il vero, Lange successivamente, una volta trasferitosi in Polonia, rivide le sue iniziali posizioni. In un contesto segnato da una maggiore capacità tecnica delle unità di calcolo informatico, anche per Lange il problema si spostò sulla possibilità da parte dello Stato centrale di calcolare il sistema di equazioni che sottende l’equilibrio economico generale: «Oggi il mio compito sarebbe molto più semplice. La mia risposta a Hayek potrebbe essere: quindi, qual è il problema? Mettiamo le equazioni simultanee in un computer elettronico e otterremo la soluzione in meno di un secondo»14.

Una risposta diversa invece si deve a Maurice Dobb (1955)15, il quale diversamente da Lange, sposta l’attenzione dal problema della scarsità a quello opposto del surplus e dell’accumulazione. Per Dobb in una economia pianificata il problema principale non è quello di allocare efficientemente risorse scarse ma semmai quello opposto di superare la scarsità concentrandosi sul problema della crescita delle risorse di partenza. Spostando l’attenzione sul surplus in luogo della scarsità, per Dobb l’approccio della pianificazione si presenta assai più adeguato a quello del mercato. Dobb ha avuto indubbiamente il merito di aver contribuito ad affermare, insieme a molti altri economisti di altra tradizione teorica, che il problema della scarsità non è affatto la premessa fondamentale su cui si fonda la teoria economica. Nel contempo, usando una buona argomentazione keynesiana sviluppata da Paolo Leon16, possiamo anche noi affermare che il limite dell’impostazione dell’approccio a la Dobb risiede nel fatto che dopo aver spostato l’attenzione correttamente sull’abbondanza in luogo della scarsità, non si è posto adeguatamente la stessa considerazione ai problemi dal lato della domanda di consumo. In sintesi l’economia di piano potevano anche crescere come è accaduto effettivamente sul piano reale, ma si teneva la popolazione ad un livello dei consumi troppo basso seppur uguale per tutti; nulla avrebbe impedito di fare diversamente assicurando dei standard living più elevati ed assumendo, ad esempio, che la garanzia universale della sussistenza e dell’uguaglianza non corrispondevano necessariamente, neppure in una società comunista, ad un paniere di beni fondamentali sostanzialmente uguali per tutti17. In altri termini ed oltre lo schema keynesiano, si può dire che la posizione di Dobb finiva per escludere che in una economia di piano potesse comunque esistere un conflitto distributivo seppur di tipo nuovo, certamente diverso da quello capitalistico, ma comunque pur sempre un conflitto sulla distribuzione del sovrappiù.

Pur ammettendo la diversità delle risposte fornite dai due economisti, occorre riconoscere che la loro analisi converge drammaticamente in un punto, per noi affatto secondario. Nello schema di Lange come in quello di Dobb la pianificazione centrale dello Stato viene rappresentata sul piano politico come un sistema in grado di assicurare una presunta armoniosità delle scelte economiche centralizzate. In altri termini, viene fatto scomparire da questo campo di indagine qualsiasi riferimento a forme di conflittualità, di contrasto, di relazione di potere, di dominio, tra i diversi agenti economici o istituzioni che compongono una società non capitalistica.

Bisogna volgere lo sguardo ad un altro dibattito, di certo più eterodosso – come quello sulla funzione dei consigli operai a cavallo tra gli anni Venti e Trenta – per ricavarne seppur indirettamente un’altra concezione del problema della pianificazione economica, molto più utile anche per la nostra indagine. Nella concezione gramsciana dei consigli operai, ad esempio, il consiglio, diversamente dal sindacato e dal partito, costituiva il luogo in cui i produttori potevano gettare le basi per affrontare il problema dell’autorganizzazione della produzione e dunque dello sviluppo autonomo delle forze produttive18. Nel contempo il consiglio costituiva anche l’unità sociale fondamentale a partire dalla quale sarebbe potuto ergersi il nuovo Stato comunista. Ne derivava che le decisioni della pianificazione avrebbero dovuto incardinarsi necessariamente lungo l’articolazione decentrata di queste istituzioni autonome dei produttori. In questa concezione è anche facile comprendere, che diversamente dalla visione centralista, non sono affatto escluse forme di conflitto interne alla definizione del piano economico.

LA CIBERNETICA SOVIETICA E IL PROGETTO CYBERSYN

Fin qui abbiamo presentato in maniera estremamente sintetica e lacunosa alcuni problemi di carattere teorico intorno al tema della pianificazione. Ora vale la pena far avanzare il discorso in un’altra direzione. C’è stata una storia di tentativi di “un’altra pianificazione possibile”, che è, assieme, storia economica e storia della tecnologia informatica. Potremmo dire che è la storia di un uso di parte della cibernetica applicata alla pianificazione economica. Si, ancora una volta l’uso della cibernetica, in opposizione a quello che il laboratorio neoliberale sviluppava pressappoco in quello stesso periodo.

Quando abbiamo iniziato a progettare il festival avevamo da poco finito di leggere L’ultima favola russa di Francis Spufford, un romanzo pubblicato nel 2010, dal titolo originale Red Plenty – di certo più evocativo. L’“abbondanza rossa” è la storia romanzata dell’applicazione della nascente cibernetica alla programmazione economica sovietica, con lo scopo di migliorare l’efficienza della crescita economica russa ed assicurare la completa soddisfazione dei bisogni materiali da parte della popolazione. Un romanzo fantascientifico che insieme alla Stella rossa di Bogdanov, parla di ciò che poteva essere e non è stato, qualcosa a metà tra l’utopia dell’uso di parte della tecnologia informatica e la descrizione del grigiore delle stanze del potere di Nikita Krusciov. Il merito di Red Plenty riguarda almeno tre elementi. Il primo è stato quello di aver ripreso, seppur in modo romanzato, il tentativo (per quanto fallito) di applicare la cibernetica di Sergei Alexeievich, designer dei primi super-computer sovietici, ai problemi dell’economia. Il secondo di aver fantasticato una società comunista fondata sull’abbondanza, sull’appagamento dei bisogni e dei desideri – perché no? – compresi quelli di consumo dei cittadini sovietici. Il terzo, quello di aver contribuito a sviluppare un nuovo dibattito sulla pianificazione economica ai tempi del platform capitalism e dei problemi posti dal capitalismo cognitivo.

I primi tentativi dei cibernetici sovietici si basavano su strumenti di calcolo molto semplici, antesignani di quella che poi diventerà invece il metodo diffuso delle tavole input-output sviluppato successivamente da Wassily Leontief ed applicato anche in buona parte del mondo occidentale, molto apprezzato dagli economisti keynesiani. La tecnica dei «bilanci materiali», questa era il nome di questo primo strumento di calcolo, aveva come unico scopo quello di garantire la reciproca compatibilità degli sviluppi nei vari settori dell’economia, in modo da assicurare in ogni momento un equilibrio relativo tra domanda e offerta dei beni (compresi gli input che servivano per altre produzioni)19. Il salto tecnico si ebbe quando a partire dagli anni Trenta il sovietico Kantorovich, migliorando l’applicazione delle tavole sviluppate da Leontief, si dedicò allo sviluppo del metodo matematico della programmazione lineare, con lo scopo di stimare la combinazione delle tecniche di produzione migliori per poter soddisfare un dato obiettivo di crescita. Successivamente una nuova stagione di cibernetici comunisti degli anni Sessanta iniziò a sostenere che sarebbe stato utile realizzare un’infrastruttura informatica moderna capace di calcolare rapidamente i dati economici e fornire tempestivamente le informazioni al Gosplan, il Consiglio di Stato per la Pianificazione. Dopo un decennio di sperimentazione il loro progetto fallì. L’infrastruttura informatica sovietica non era adeguata, mentre altrove, in occidente, grazie alla pressione delle lotte sociali, si stava assistendo alla trasformazione del modo di produzione e all’affermazione della computerizzazione della società. Inoltre, il progetto dei cibernetici fu avversato dalla nomenklatura che vedeva nella tecnica scientifica del calcolo economico, una minaccia per il potere discrezionale della burocrazia20.

Accanto a questo romanzo e alla vicenda della cibernetica sovietica in questo ultimo periodo, soprattutto tra coloro che si sono cimentati sul discorso del cooperativismo di piattaforma, è ritornato alla mente l’esperimento cileno di Salvator Allende, ossia quello di istituire un originale sistema cibernetico per lo sviluppo della pianificazione economica nel Cile. Anche in questo caso, come in quello sovietico, l’esperimento non fu completato, questa volta per i tragici e noti motivi che hanno riguardato l’uccisione del presidente socialista.

Il progetto Cybersyn nacque grazie alla combinazione di vari elementi. Il primo, ovviamente riguardava il piano di pubblicizzazione di alcune industrie chiave dell’economia cilena sostenuto da Allende e il suo desiderio di implementare un sistema economico-sociale in cui venissero valorizzate le autonomie decisionali dei lavoratori. Il secondo, invece riguarda il ruolo svolto da un giovane ingegnere cileno, Fernando Flores, che ricopriva un ruolo chiave nell’agenzia responsabile per la ripubblicizzazione dell’economia. Questo giovane ingegnere aveva avuto modo di formarsi fuori dal Cile, studiando cibernetica e venendo a conoscenza dei lavori pioneristici dell’inglese Stafford Beer, scritti a partire dal 1959. Flores con un mandato del governo, nel luglio del 1971, scrive una lettera a Beer e gli chiede una collaborazione, per applicare il suo metodo del management cibernetico sulla vasta scala dell’economia cilena. Beer, matematico ispirato dalla tradizione fabiana del socialismo inglese, accetta iniziando a lavorare con gli altri al progetto21. Cybersyn, diversamente dagli esperimenti sovietici, fu un progetto cibernetico che puntava ad un massimo di decentramento delle unità decisionali, coerentemente all’obiettivo del governo di favorire esperimenti di autogoverno della produzione. Per questo costituisce ancora aggi un esperimento di notevole interesse. Ciò che ci resta, oltre l’immaginazione avveniristica di una tale applicazione della tecnica informatica, sono le stupende immagini della sala di calcolo con il suo design tipico del cinema fantascientifico del tempo.

LA DISTOPIA CAPITALISTICA E IL DESIDERIO DEL COMUNE

Viviamo una fase di crisi del realismo capitalista, per usare l’espressine di Mark Fisher. Il sogno neoliberale e la sua potenza ideologica di persuasione ha incontrato un primo relativo limite. È indiscutibile che in questa attuale fase sia proprio l’establishment a promuove una nuova visione distopica della realtà. Basti pensare a due dibattiti nati dall’interno del mainstream. Uno, quello relativo alla stagnazione secolare, cominciato da Lawrence Summers nel 2013, non certo un bolscevico, secondo cui l’economia occidentale sarà destinata ad una lunga fase di crescita anemica, altri tassi di disoccupazione, povertà. L’altro è quello della nuova ondata dei robot, dove all’immagine di un futuro in cui risolveremo tutti i problemi dal nostro palmare fa da contraltare quella secondo cui l’economia andrebbe incontro ad una generalizzata disoccupazione tecnologica che riguarderà pressappoco tutti i settori. Dunque, non è un caso che anche questa visione apocalittica, pur fondata sul presupposto reale della nuova rivoluzione tecnologica del platform capitalism, venga sostenuta da alcune istituzioni e think thank capitalistici. Una nuova distopia malthusiana della scarsità, potremmo dire, prende il sopravvento sulla narrazione luminosa del neoliberismo anni Novanta, quando di giorno ascoltavamo i Nirvana e di notte andavamo ai primi rave illegali.

Parafrasando Marx, egli direbbe che il problema della scarsità, come stato di natura, come sotto-tendenza a-storica e legge di tutte le economie, rientra a pieno titolo nelle “robinsonate” del pensiero borghese. Al contrario abbiamo imparato, per buona pace di tutti gli economisti liberali, che la scarsità è semmai quasi sempre un risultato dell’economia di mercato, fondata sui diritti di proprietà: sia privati che pubblici.

Dunque, se c’è qualche possibilità di costruzione – in contrasto con questa nuova distopia malthusiana capitalistica – di una nuova utopia dell’“abbondanza rossa”, questa non può che nascere sulle gambe del discorso del Comune, inteso non come un insieme di beni dati (dunque, anch’essi scarsi per definizione), ma, congiuntamente, come “modo di produzione” e istanza politica di costruzione di istituzionalità autonome.

Il punto, però, richiamato altrove e su cui vale la pena insistere ancora, è che l’orizzonte del Comune, o comunque la costruzione di una società post-capitalistica, non può in nessun modo essere inteso come un passaggio graduale, senza conflitto, quasi come se fosse il nuovo destino naturale inscritto nel nuovo stadio del capitalismo delle piattaforme. Il Comune resta un’ipotesi che si basa sulla considerazione di caratteristiche sociali di una nuova soggettività e della loro possibilità e capacità di vincere la lotta di classe (dunque, non c’è nulla di scontato), in questo tempo storico segnato dal capitalismo neoliberale. Un’ipotesi, dunque, tanto diversa dall’approccio normativista e “senza soggetto” di Dardot e Laval22, quanto dal post-capitalismo “felice” di Paul Mason23, in cui i soggetti esistono, ma a sparire sembra piuttosto la capacità capitalistica di riordinare continuamente il suo comando politico, anche allo scopo di catturare e rifunzionalizzare le istanze soggettive di autonomia che promanano dal basso e dalla rete.

Ha ragione Nick Srnicek, quando in una recentissima intervista dice «Credo che molte delle manifestazioni di entusiasmo e glorificazione di Internet e progetti connessi, come l’open source o la peer production, indicassero qualcosa di reale, individuando alcune dinamiche nuove della nostra situazione», per poi aggiungere: «Allo stesso tempo, però, hanno sottovalutato il potere delle gerarchie di potere tradizionali e delle strutture di cooptazione che negano efficacemente quelle stesse dinamiche. C’è stata, in generale, troppo poca enfasi sul potere. Questo ha significato che se alcune previsioni fatte da questi teorici nella fase iniziale sono diventate realtà – ad esempio, tutti noi ci dedichiamo a lavoro creativo gratuito nel nostro tempo libero – è stato invece ignorato il meccanismo che ha rivolto quell’ideale contro se stesso, e per questa ragione Facebook ora usa i nostri sforzi creativi come modo per attrarre inserzionisti e per affinare i suoi algoritmi. Sta diventando sempre più ovvio che il vecchio modo di produzione non se ne andrà senza combattere e che se gli aspetti di liberazione delle nuove tecnologie si dovranno realizzare, abbiamo bisogno di costruire una lotta collettiva. [corsivo aggiunto]»24.

PUÓ ESISTERE UNA GOVERNAMENTALITÁ DEL COMUNE?

Sono stati dati diversi nomi per definire questo nuovo salto tecnologico o rivoluzione industriale, forse quello più efficace continua ad essere platform capitalism. Innanzitutto vale la pena di sottolineare l’ovvia constatazione che si tratta di una trasformazione dell’organizzazione della produzione che nasce schumpeterianamente dall’interno dell’attuale crisi capitalistica, a cominciare dall’instabilità finanziaria di Wall Street dell’estate 2007. Un elemento che segnala ancora una volta la plasticità del capitalismo e la funzione della crisi come occasioni di riordino, piuttosto che come annuncio dell’(auto)implosione. Qualcuno ha sostenuto che le stesse politiche monetarie espansive del quantitative easing adottate inizialmente dalle principali banche centrali (e oggi in via di dismissione ovunque), hanno contribuito non solo a stabilizzare le economie quanto anche a favorire un afflusso di risorse verso le “vecchie” e “nuove” imprese innovative (Srnicek, 2017), ad opera di investitori alla ricerca di rendimenti elevati (e rischiosi) in un contesto segnato da bassi tassi di interesse. A ciò si può aggiungere che la risposta europea-tedesca di Industria 4.0, nasce come un progetto istituzionale volto a favorire gli investimenti innovativi, tanto per segnalare il ruolo dello Stato all’interno del laboratorio dell’innovazione.

Senza avere la pretesa di fornire una descrizione raffinata, possiamo affermare che il ruolo delle nuove piattaforme del capitale, da un lato ha la funzione di ordinare il governo della produzione lungo le filiere globali, dall’altro, consente una continua interazione tra produttori, utenti, consumatori. Al centro di questo nuova organizzazione senza dubbio vanno posti i big data, intesi come il nuovo e fondamentale raw material, per riprendere ancora una volta Srnicek (2017) o anche Benedetto Vecchi (2017). I big data non crescono sugli alberi e al contrario devono essere prodotti da qualcuno, persino inconsapevolmente. Questa merce particolare è il frutto di una enorme quantità di lavoro gratuito25 svolto sulla rete da soggettività differenti. Si potrebbe aggiungere che i big data non sono immediatamente merce in senso marxiano. Vengono alla luce inizialmente come un semi-lavorato che ha bisogno del lavoro vivo di altri ancora (analisti, data miner, ecc…), che trasformano questa materiale grezzo in una merce finita, prima che questa venga portata al mercato finale (popolato da imprese, istituzioni, società di analisi ecc..). Di conseguenza non tutto il tempo speso nella produzione di questi dati grezzi, frutto delle infine interazioni quotidiane di tutti noi con la rete e le piattaforme, corrisponde a lavoro produttivo, mentre invece esso corrisponde sempre ad un tempo di lavoro che si estende interamente sull’arco della vita. Proprio come quando nel tempo di lavoro dell’operaio all’interno della fabbrica, capita ancora che ci sono momenti (sempre più brevi, tendenti a zero) in cui la sua attività non è produttiva di valore per il capitalista. Ma ciò su cui qui vale la pena insistere qui non è tanto questo, ma bensì il fatto che dall’interno del dibattito sul platform capitalism si è iniziato a discutere di un contro-utilizzo, una sorta di ribaltamento, delle piattaforme come nel cosiddetto dibattito sul platform cooperativism26: come uso di parte di questa tecnologia, per immaginare forme di autorganizzazione della produzione.

Nella fase della crisi in diversi paesi europei, ad esempio, al di fuori delle piattaforme del capitale, ma in connessione spesso con le infrastrutture della rete, abbiamo anche osservato la proliferazione di esperimenti di auto-organizzazione della produzione, di costruzione di istituzioni mutualistiche, nati all’interno di questa tendenza che abbiamo racchiuso nell’ipotesi del sindacalismo sociale.

Queste istanze ed esperienze di auto-organizzazione della produzione, di esperimenti di conquista dei beni comuni, di invenzione di istituzioni autonome, di modelli di mutualismo, rischiano talvolta di rimanere confinati all’interno di micro-esperienze diffuse che hanno qualche volta faticano a collegarsi tra loro, se non alludendo e praticando esperimenti di verticalizzazione politica. Riprendendo l’interrogativo di Foucault, sviluppato lungo il corso sulla biopolitica – se è possibile pesare ad una «governamentalità socialista» – potremmo provare a rigirarlo per chiederci se può essere pensata, invece, una «governamentalità del comune». Facendo risuonare questa domanda con il tema della pianificazione economica, potremmo chiederci ancora: in che modo queste esperienze di nuova istituzionalità del comune possono costruire un coerente sistema di programmazione economica, che fa leva necessariamente sul decentramento democratico?

Qui le risposte si fanno incerte, e potranno avanzare solo alla luce degli esperimenti concreti di organizzazione che saranno sviluppati a partire da questo interrogativo. Certo, al momento non mancano alcune sperimentazioni che si approssimano a questo problema, come quelle che si sviluppano intorno alla blochchain e le monete digitali.

Vale comunque la pena riprendere almeno certe illusioni utopiche che vengono fuori da alcuni contributi e che ci rimandano a quell’agire acido con il quale abbiamo aperto queste note.

È sorprendente, per esempio, che un vecchio saggio, davvero datato rispetto agli standard tecnologici attuali, come quello di Cornelius Castoriadis (1957) dal titolo Consigli operai ed economia di una società autogestita, contenga suggerimenti ancora utili per la discussione attuale. Interrogandosi sulla crisi dell’esperienza dei consigli in Ungheria, affermava che il problema andava riposto in termini nuovi «nell’era del computer, dell’esplosione della conoscenza, della radio e della televisione, delle matrici input-output»27. La sua idea era quella di adattare le matrici input-output alle unità consiliari, come luogo minimo della decisione. I consigli, quasi a replicare in termini democratici il problema della programmazione lineare affrontato in Urss in termini macchinici, dovevano decidere tra differenti piani mediante un meccanismo di voto, impiegando le tecnologie della comunicazione del tempo. Nuovi indizi sono giunti da una proposta più recente di “progettazione partecipata decentrata”, il Parecon, confermando la centralità della struttura neo-consiliare, ma questa volta allargata anche alla partecipazione dei consumatori, si è posta il problema tecnologico di come facilitare con le moderne tecnologie di rete il problema della decisione. Nick Whitheford, nel tentativo di completare questa proposta, ha aggiunto che per rendere più veloce il meccanismo decisionale di una tale piattaforma, nel tentativo di superare i colli di bottiglia di una pratica decisionale lunga e potenzialmente faticosa, potrebbe essere sperimentato un agente software comunista, una sorta di “algoritmo sovversivo” che incorporando processualmente le istruzioni fornite da ciascun individuo o ciascun consiglio, potrebbe costituire una macchina a cui delegare le decisioni meno significative e problematiche28.

Queste ovviamente sono solo una parte minima delle suggestioni creative che animano questo dibattito frequentato da filosofi, economisti, hacker, attivisti digitali di diversa estrazione. Questi in sostanza sono parte dei temi, tra il concreto e l’immaginazione, che affronteremo nelle giornate di Interregno ed in particolare nel panel dedicato al problema della programmazione.

1 Per approfondimenti si legga (http://effimera.org/socialismo-psichedelico-acid-communism-acid-corbynism-politiche-sensibilizzazione-jeremy-gilbert/)

2 Nick Witheford, Piattaforme per una abbondanza rossa, tratto da Gli Algoritmi del Capitale, Matteo Pasquinelli (a cura di), Ombre Corte, 2014, p. 53

3 L’articolo a cui si fa riferimento è: Hayek, Collectivist Economic Planning, Ludwing von Mises Insitute, 1967.

4 C. Napoleoni, Il Pensiero economico del 900, Einaudi, 1963

5 L. Robbins, The Great Depression, London

6 Hayek, Friedrich A. “The present state of the debate.” Collectivist economic planning (1935): 201-243.

7 Witheford, op.cit.

8 Von Hayek, F., The Use of Knowledge in Society, American Economic Review, 35(4), p.527

9 Il suo lavoro fu formalizzato nella prima edizione del libro di Norbert Wiener, Cybernetics or control and communication in the animal and machine, risale al 1948, per la MIT press.

10 von Hayek, F., 2005. I risultati dell’azione umana ma non dell’umano progettare. Epistemologia dell’economia nel Marginalismo austriaco, (a cura di) Antiseri D.

11 La citazione è tratta da Dardot, Pierre, and Christian Laval. La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoliberista. DeriveApprodi, 2013., p. 263

12 Lange O., On the economic theory of Socialism, Review of economic Studies

13 Per maggiori approfondimenti sull’argomento si veda Caludio Napoleoni, op. cit.

14 Lange O., The computer and the Market, tratto da Feinstein (a cura di), Socialism, Capitalism and Economic Growth : Essays presented to Maurice Dobb, Cambridge University Press, 1967

15 Dobb M., Teoria Economica e socialismo, 1960 (tr. It.)

16 Leon, Paolo. Stato, mercato e collettività. Giappichelli, 2003.

17 A questo scopo è fondamentale considerare la critica femminista sulla riproduzione sociale, come nel caso di Alisa Del Re (2008): <<Il volume dei bisogni necessari alla riproduzione della forza lavoro non è dato per sempre ma è storicamente determinato. Storicamente e geograficamente, per Marx: infatti vengono sottolineate le differenze tra paese e paese e viene evidenziata l’importanza del contesto culturale, oltre che quello storico. Ma per un determinato paese in un determinato periodo storico il volume medio e la qualità media dei mezzi di sussistenza necessari è data. Su questo si è costruito il più disastroso errore del socialismo reale, poiché se il volume medio dei mezzi di sussistenza necessari è dato, in questo caso nei paesi a socialismo reale il partito (e lo stato), determinando quale fossero questo volume e qualità medie una volta per tutte e riorganizzando la società su questa base, di fatto ha predeterminato e appiattito i bisogni individuali, costruendo una struttura sociale rigida priva di slanci di soggettività e di elementi di soddisfazione individuale. Non è stata presa in considerazione la complessità della riproduzione degli individui e delle dinamiche insite negli aspetti relazionali che identificano la qualità della riproduzione stessa>>.

18 Si faccia riferimento all’insieme degli scritti di Antonio Gramsci su “L’Ordine Nuovo” tra il 1919 e il 1923.

19 Claudio Napoleoni, p.160, op. cit.

20 Witheford, op. cit. p.56

21 Medina, Eden. Cybernetic revolutionaries: technology and politics in Allende’s Chile. MIT Press, 2011

22 Dardot, Pierre, et al. Del Comune, o della rivoluzione nel 21. secolo. DeriveApprodi, 2015

23 Mason, P., Postcapitalismo. Il saggiatore, 2016

24 Si veda l’intervista integrale: http://www.iltascabile.com/societa/internet-monopoli/

25 Bascetta, M., Economia politica della promessa, Manifestolibri, 2016

26 Si veda; http://www.rosalux-nyc.org/wp-content/files_mf/scholz_platformcoop_5.9.2016.pdf

27 La citazione è tratta da Witheford, p. 62, op. cit.

28 Witheford, p. 64, op. cit.