POTERI

Riforma II: casino istituzionalizzato

Altri tasselli si aggiungono per tirare le fila sulla riforma costituzionale e il referendum di ottobre. Un’analisi sul contenuto del testo, cosa prevede la costituzione materiale, i cambiamenti che investiranno gli organi costituzionali, le restrizioni alle leggi di iniziative popolari, ma non solo…

Riforma costituzionale: il taglio ai costi della politica è una farsa

Abbiamo visto nel precedente contributo come la riforma pretenda (a torto) di tagliare i costi della politica; sappiamo inoltre (MEB dixit) che serve a combattere il terrorismo islamico e, aggiungiamo, a guarire la rogna, come facevano i re taumaturghi. Vediamo ora il suo contenuto propriamente costituzionale e prescrittivo, per quel tanto che traspare da un testo arruffato e “commiforme”, in stile milleproroghe.

La concentrazione dei poteri imputata al progetto renziano deriva in parte dalla riforma costituzionale, in parte dal suo intreccio perverso (ma inestricabile) con l’Italicum. Il testo potrebbe apparire nella sua disorganicità una specie di trucco per lasciare le mani libere al costituente – una versione prolissa del celebre detto di Napoleone, che amava a tal fine “leggi brevi e oscure” –, in realtà esso configura un modello informale di premierato e ciò proprio in connessione con la legge elettorale.

Come intravedere tale costituzione materiale sotto i 47 articoli riformati, con la stessa chiarezza con cui Weber e Schmitt rintracciavano nella barocca Costituzione guglielmina l’egemonia degli Junker della Prussia orientale sugli industriali renani e su tutti i lavoratori in blocco?

Andiamo con ordine: in prima battuta la struttura barocca e ripetitiva della nuova stesura degli articoli 55 e 57 della Costituzione del 1948 (per un cui commento rimandiamo alla sarcastica esposizione di Travaglio, dovrebbe semplificare i meccanismi legislativi svuotando il ruolo del Senato, senza sopprimerlo, con tutti i noti inconvenienti della sostituzione del bicameralismo perfetto con un ventaglio farraginoso di ben 12 combinazioni procedurali (ora sono solo due, leggi ordinarie e costituzionali) per l’approvazione di 22 categorie di leggi, fonte di inesauribili problemi interpretativi e ricorsi alla Consulta per le contraddizioni intrinseche e la carenza di soluzioni ai contrasti. In pratica, solo la fiducia al governo resta chiara prerogativa della Camera, per tutto il resto continuerà la “navetta” delle leggi, forse addirittura con tempi superiori a quelli attuali così deplorati e che, in realtà, dipendono dalle divergenze politiche più che da tecnicalità procedurali.

La vera differenza sta nel fatto che il Senato, ridotto in numero con ben scarso sollievo del bilancio (come da precedente articolo), non è più direttamente elettivo ma risulta da un’elezione di secondo grado dalle modalità incerte. Infatti il nuovo art. 57 dispone che «il Senato della Repubblica è composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica. I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori». Per inciso, Lombardia o Sicilia avranno diritto a un sindaco a testa, mentre il Trentino-Alto Adige, come somma di due provincie regionali, ne avrà due…

A parte l’incongruità di sommare ai rappresentanti locali, il cui mandato «coincide con quello degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti» (5 anni), i 5 senatori di eventuale nomina presidenziale (il Presidente “può” nominarli o meno) dalla durata di 7 anni (nuovo art. 59) il cui titolo è invece di «avere illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico artistico e letterario» (che cazzo c’entra?), a parte questo dettaglio, sorge un bel problema. Infatti l’art. 57 aggiunge che l’elezione di cui sopra (da parte dei Consigli, con metodo proporzionale, ecc.) deve avvenire «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma», cioè a una legge costituzionale da farsi in seguito. Ovviamente la cosa riguarda soltanto i consiglieri regionali, perché il sindaco è designato dall’assemblea regionale o provinciale, che sceglie fra eletti in votazioni dirette che non prevedono preferenze.

Ma qual è l’intenzione del costituente? Che la scelta venga fatta dai consiglieri regionali o dagli elettori? Può una legge derivata e posteriore, sia pure di rango costituzionale, selezionare fra due ipotesi lasciate indecise dal costituente? Al massimo stabilirà come indicare le preferenze sulla scheda. Vero che la minoranza Pd strilla che vuole la legge prima del referendum, ma è assurdo votare nelle vecchie Camere una legge applicativa di una Costituzione ancora da sottoporre a referendum. Basterebbe dire nella riforma chi è il soggetto che elegge, si tratta di un potere sovrano, mica di vaga “conformità”. Il Senato americano all’inizio dipendeva dalla designazione delle assemblee statali, poi si passò all’elezione diretta negli Stati; il Bundesrat tedesco o il Senato francese sono formati in secondo grado, con diversa intensità di vincolo di mandato. Basta saperlo.

Sul piano teorico soluzioni di bicameralismo perfetto (gli Usa) o monocameralismo (Grecia e di fatto UK) o misto (Francia, Spagna) possono equivalersi, purché ben definite. La formula italiana è peggiore di una soppressione secca del Senato, istituendo un organo depotenziato e confuso per origine e partecipazione al processo legislativo, cui vengono tuttavia riconosciuti l’immunità parlamentare e poteri paritari di modifica della Carta, nonché la nomina di 2 giudici costituzionali. Il doppio ruolo di consigliere regionale (magari di assessore, dipenderà dal regolamento interno del Senato, art. 63) e di senatore part-time o a voucher fa infine il Senato una specie di dopolavoro, dotato perfino di troppi poteri per il tipo rabberciato di elezione e il carattere cumulativo dell’impegno.

Veniamo alla costituzione materiale, cioè a come effettivamente funzionerà sotto il coacervo di competenze duplicate e di simulacri di organi. Il leader del partito o della coalizione (in caso di ritocchi all’Italicum) vincente potrà considerarsi, con quel premio di maggioranza, il vero dominus del sistema, di fatto un eletto del popolo, in grado di scegliere Presidente della Repubblica, parte del Csm e della Consulta, capi delle Autorità indipendenti, amministratore unico della Rai, ecc. Un vero premierato, senza contrappesi autonomi dalla maggioranza gonfiata a dismisura nel ballottaggio.

Il Senato è agevolmente scavalcabile, perdendo un po’ di tempo, e nessuna garanzia è offerta alle minoranze nero su bianco, se non una vaga promessa affidata ai regolamenti delle Camere (art. 64).

Il Presidente della Repubblica (art. 83, terzo comma) sarà di regola eletto dalla settima votazione in poi, quando il quorum iniziale si abbassa ai 3/5 dei partecipanti al voto, per esempio a 220 elettori su 366 (quorum minimo), molto meno della maggioranza assoluta del Parlamento integrato, come previsto oggi!

Le stesse autonomie regionali (a statuto ordinario) sono depotenziate, nel momento stesso cui viene loro attribuita l’elezione del Senato, poiché si ripristina (art. 117) la competenza esclusiva dello Stato centrale in una serie di materie prima soggette a competenza partecipata e concorrente e soprattutto ritorna in tutti i campi, anche quelli riservati in via di principio alle regioni, la clausola di supremazia, quindi il diritto di intervenire «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale». Una specie di esecuzione federale, che presuppone un conflitto di poteri fra centro e periferia in un sistema che di federale ha ben poco!

L’autonomia finanziaria, del resto, è garantita solo «nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci», che devono concorrere «ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea» (art. 119), secondo il principio sancito già a livello nazionale con l’art. 81: il pareggio di bilancio imposto dal fiscal compact e votato all’unanimità, futura Sinistra italiana compresa, nel 2012. Le ulteriori competenze delegabili dallo Stato sono sempre soggette al vincolo che «la Regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio» (art. 116). La neo-centralizzazione è funzionale all’austerity o meglio all’uso retorico e strumentale che ne farà di volta in volta il governo della crisi. Fra l’altro, proprio il Senato delle Regioni è escluso da gran parte delle deliberazioni in materia regionale…

Le forme di intervento popolare nel processo legislativo vengono ulteriormente ristrette, richiedendo una sottoscrizione che va in direzione inversa al trend calante della partecipazione al voto. Oggi per presentare una legge di iniziativa popolare bastano 50.000 firme; in futuro ne occorreranno 150.000, con la vaga promessa di una loro discussione garantita da futuri regolamenti parlamentari (art. 71, secondo comma). Idem per i referendum abrogativi: in cambio di un modesto abbassamento del quorum (il calcolo del 50% +1 si fa non sugli aventi diritto ma sul 50% dei votanti effettivi della precedente elezione, quindi di fatto su una cifra minore), le firme salgono da 500.000 a 800.000 (aggiunta all’art. 75). Al terzo comma del precedente art. 71 si aggiunge uno zuccherino per il futuro: «Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione».

Campa cavallo.