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Scienza può essere democrazia

Sull’essenza del metodo scientifico e sul suo ruolo ai tempi di un nuovo Medioevo.

“La scienza procede lentamente ma con la sicurezza di risultati tangibili e spettacolari”

(Paolo Bianco, staminologo, 1955-2015)

“La Scienza non è democratica”. Quantomeno lapidaria come affermazione. Il prof. Roberto Burioni liquida così la sua scelta di cancellare alcuni post dalla sua pagina Facebook, ritenuti “ignoranti” e contenenti messaggi di un qualunquismo pericoloso. Non è di certo Facebook il luogo dove sviscerare un concetto, e per questo chi scrive non si sente di condannare per una frase il dottor Burioni, impegnato in prima fila come divulgatore scientifico, combattendo corpo a corpo con pregiudizi e bufale che portano diretti nel cuore dell’attuale Medioevo Scientifico che alcuni autori stanno iniziando a denunciare. Ciò non toglie che la scelta delle parole è quantomeno infelice. Ci dà l’occasione, però, per discutere, seppur brevemente, di come il rapporto tra scienza e società stia tornando indietro di decenni.

Non conosco niente di più democratico della scienza, o meglio del suo metodo. Un metodo fatto di incertezze, di dubbi, di veridicità stabili sino a prova contraria, di dibattiti, di opinioni, di scontri, di replicabilità, di diffusione delle conoscenze, di sfiducia verso le banalizzazioni ma soprattutto verso le affermazioni perentorie, che devono essere non solo enunciate, ma dimostrate e poi messe a disposizione di chiunque altro le voglia riverificare. Ogni fatto rimane vero fino a che qualcuno non dimostra il contrario, le certezze sono caduche, le lenti tramite cui conosciamo il mondo cambiano (pensiamo a come sono crollate le certezze della fisica classica). L’ignoranza non è democratica invece, così come il relativismo non è democratico: potere esprimere liberamente le proprie opinioni non significa disconoscere il merito, l’esperienza, le conoscenze acquisite. Insomma, in democrazia non tutto è uguale a tutto, un oggetto rosso non è viola secondo te. Il metodo scientifico, d’altronde, non è altro che uno strumento linguistico, che ci mette nelle condizioni di chiamare uno stesso fenomeno nello stesso modo, che stabilisce delle regole, riproducibili da chiunque, per comunicare alla pari tra di noi senza doversi affidare soltanto all’autorevolezza o alla forza. Democrazia – almeno una sua idea radicale ­ significa questo: partecipazione, stesse opportunità, dibattito, costruzione di un mondo comune attraverso la sintesi. Ma la democrazia può esistere soltanto laddove esistano dei pari, a cominciare dall’accesso alla conoscenza. La famosa cuoca di Lenin non è l’emblema dell’ignoranza al potere, ma il trionfo dell’istruzione, che mette nelle condizioni chiunque di potere fare tutto, cooperando con altri.

Ma la scienza e il metodo scientifico, come ogni strumento, non sono ovviamente neutri, hanno il colore di chi li finanzia, ma soprattutto di chi la indirizza. E non è possibile negare che essa ha le mani sporche di sangue e dollari. Quale rapporto debba esistere tra scienza e società è al centro di un dibattito lungo, terreno di contesa e conflitto soprattutto a partire dal secondo dopo guerra nel secolo scorso. A Vannevar Bush, consulente scientifico di Roosevelt, fu chiesto come trasformare la macchina scientifica bellica che permise la vittoria nella guerra in uno strumento per far risorgere l’industria civile, mantenendo così la supremazia americana nel mondo. Il risultato fu un pamphlet, “Science the endless frontier”, stampato nel 1945, in cui Bush afferma che gli scienziati vanno lasciati da soli ad autoregolamentarsi, in cima a quella oggi famigerata “torre d’avorio”, decidendo autonomamente l’indirizzo da dare alla ricerca di base. Lo Stato avrebbe avuto come ruolo quello di finanziare ognuna di queste ricerche indipendenti, che però avrebbero dovuto essere liberamente accessibili a chiunque. Il Capitale, a quel punto, non avrebbe dovuto far altro che investire personalmente un capitale di rischio, applicare una ricerca, e, se riusciva, fruire liberamente degli introiti derivati, oppure fallire con essa. Il sogno di Bush non si realizzò mai: la scienza appunto non è un terreno neutrale, ma il suo sviluppo è determinato da scelte politiche e interessi economici. Truman impose un’agenzia nazionale a guida federale, nominata dal governo, che rispondeva al governo. In teoria, un modo per dire “l’obiettivo della scienza è il miglioramento della nostra vita, perciò sono i cittadini a dire cosa si deve ricercare”. Intento intrigante (ragionarono nello stesso modo i colleghi sovietici), ma nei fatti si tradusse nello strapotere delle lobby e delle grandi industrie, poiché furono loro, in maniera però lenta e pervasiva, a diventare i principali finanziatori della ricerca, e perciò in ultima analisi le uniche autorizzate a rispondere alla domanda “qual è l’obiettivo della scienza?”. E la risposta credo non serva neanche graffiarla su carta.

Oggi le catene della scienza cominciano dal profitto. Fatto di copyright, brevetti, finanziamenti privati, impact factor, diktat produttivistici come “publish or perish”. Lo stesso merito diventa non più lo scarto dal ristagno, bensì una misurazione di produttività. Dalla crisi di legittimità della rappresentanza politica e istituzionale non si salva neanche la comunità scientifica, tanto è palese l’assoggettamento a interessi privati, gli stessi interessi che lasciando morire centinaia di migliaia di persone con i brevetti farmaceutici. Aver accettato, in cambio di fondi, di piegare al solo profitto la ricerca, è la ragione del disprezzo comune verso chi la produce, della diffidenza verso le affermazioni granitiche di esperti, professori, medici. Un disprezzo che si trasforma in pericolosità sociale, laddove il rifiuto e la diffidenza verso l’esperienza diventano il relativismo assoluto, dove cure incerte, segrete, non riproducibili e dai risultati occultati riescono a sgominare la forza delle terapie conosciute e sperimentate, evocando la pancia delle persone, e soprattutto sguazzando nel legittimo terrore verso la malattia e la morte. Il metodo scientifico vacilla di fronte alla scarsa fiducia che il mondo ha verso esso, e si ritorna nel buio dell’età di mezzo, dove stregoni, santoni e massaggiatrici ayurvetiche indossano fonendoscopi e offrono incubi a caro prezzo. Basti pensare a Stamina, piuttosto che alle bufale sui vaccini.

Mai quanto oggi rinchiudersi dentro l’Università, o nella Torre d’Avorio, è pericoloso per la salute e la felicità di tutti. In un mondo dove qualunque informazione è reperibile, ma di contro l’istruzione diventa un lusso per pochi e l’analfabetismo funzionale si diffonde, divulgare un metodo, un approccio alla realtà, che trasforma la verità assoluta in un esercizio di sintesi tra pari sempre ridiscutibile e sempre modificabile, dovrebbe essere tra i compiti principali degli scienziati, quanto delle istituzioni scientifiche. Non spaventarsi di fronte al paziente che ha studiato su wikipedia, ma guidarlo nell’interpretazione di quelle conoscenze, per scegliere consapevolmente a cosa sottoporre il proprio corpo. Ma insegnare questo metodo non basta, serve riconquistare credibilità, ridiscutere nuovamente l’obiettivo della ricerca, e quindi l’oggetto a cui è rivolta: la felicità, e non di certo il profitto. Serve riappropriarsi dal basso della scienza, smantellare l’arroganza baronale di chi crede di sapere tutto (“ed è tutto quello che sa”, disse uno scrittore-poeta), diffondere la conoscenza che permette la democrazia, farla finita con i legacci del copyright e del sistema della proprietà intellettuale, che recintano le conoscenze impedendone la diffusione, e quindi il loro uso sociale. Rompere le recinzioni delle enclosures che generano profitto sul sapere, sulla natura, sulla vita. Dobbiamo ridiscutere i meccanismi di finanziamento, di arruolamento e di avanzamento: è una questione di democrazia e riguarda il futuro di tutti. Non serve andare lontano, si inizia nei nostri reparti, nei laboratori, nelle aule universitarie come nelle strade delle città. Riappropriarsi della Scienza, come stanno provando a fare in questi giorni gli zapatisti durante il festival ConCiencias. Sino ad arrivare a ricodificare e rinnovare il patto tra Scienza e Società. Sino a creare una Scienza del Comune.