DIRITTI

Dimenticare e punire

Brevi riflessioni a caldo sulle sentenze per i fatti del 24 novembre 2010.

La condanna di un movimento segna sempre un passaggio storico all’interno di questo paese. Uno Stato, il nostro, che della storia non ha mai fatto una narrazione comune, uno strumento per costruire memorie condivise e riappacificanti, ma piuttosto un dispositivo giudiziario per auto-assolversi

dalle contestazioni, e parallelamente per schiacciare le opposizioni sociali e cancellarle dalla memoria – fin troppo flebile – dei propri cittadini.

Ci sono alcune riflessioni da fare, in merito alle condanne per il processo sui fatti del 24 Novembre – la grande manifestazione studentesca che, nel 2010, portò la protesta contro la riforma Gelmini fin sotto l’Aula del Senato.

Seppur ancora trenta giorni bisognerà aspettare per conoscere le ragioni della sentenza, già ora il dispositivo giudiziario può essere letto alla luce delle ragioni dello Stato. Grazie anche all’onore delle cronache, questo processo è divenuto “famoso” per via dell’accusa di attentato agli organi costituzionali, un’enormità teorizzata dall’accusa, che sin da subito non trovava riscontro negli atti giudiziari, ma che, soprattutto, faceva sghignazzare anche coloro che, per il movimento studentesco, non hanno mai trovato troppa simpatia. La sua caduta dalle accuse, però, non dovrebbe stupire: davvero poteva sembrare immaginabile che un giudice condannasse degli studenti per un reato che quasi prefigura uno scenario da eversione nei confronti della Repubblica? Per cosa poi, un paio di spintoni sotto le porte del Senato? Oppure, poteva condannare degli studenti per questo reato, e comminargli piccole pene? Chiaramente no, per quanto i tribunali ci abbiano abituati a tutto, esiste comunque una logica nelle sentenze e nell’operato della magistratura. L’attentato agli organi costituzionali era uno specchietto per le allodole, una mossa dell’accusa volta a chiarire che questo processo non è uno qualunque, e al contempo, un’ipotesi abbastanza grande – e contemporaneamente elefantiaca – da permettere di avere un terreno di “mediazione” per le condanne degli imputati. Forse gli stessi pm non avevano granché fiducia che un giudice lo prendesse sul serio. Ma l’accusa aveva bisogno di un volano che rendesse gli altri reati credibili, necessari, e sui quali picchiare duro in cambio della caduta del reato mediaticamente più risonante.

Il reato che necessariamente va tenuto a mente, in tutte le storie processuali che accompagnano i movimenti negli ultimi sei anni, è resistenza, con le sue aggravanti. Tra i condannati per questo processo, le pene più gravi – 1 anno e 9 mesi, a scendere – sono arrivate proprio intorno a questo capo di imputazione. Pena sospesa, certo. Ma la gestione del foro di Roma degli ultimi anni, che ha posto la priorità ai processi politici (prima molto più lenti nel progredire), e al contempo la creazione di pool dedicati a questo genere di reati, sembra sottendere una particolare attenzione rivolta alla gestione del dissenso nella Capitale. Di processo in processo, grazie a richieste di condanna e alla configurazione di reati sproporzionati ai fatti – e dalla prescrizione lunghissima – decine di persone si ritrovano alla lunga in situazioni giudiziarie estremamente pesanti, a magari 15 o 20 anni di distanza dai fatti.

Abbiamo visto cadere, uno dopo uno, i teoremi che hanno caratterizzato la stagione repressiva di quasi un decennio fa. Le ipotesi associative, così come le “battaglie campali” (come anche il reato di attentato agli organi costituzionali potrebbe sembrare), si sono rivelati soddisfacenti nel breve periodo, ma inefficaci e completamente abbattuti sul lungo, dove non è stato mai possibile arrivare a dimostrare i teoremi delle accuse. Meglio puntare su un singolo reato, di più basso profilo, e più facile da dimostrare. Poi, per andare sul sicuro, usarlo decine e decine di volte, anche sulla stessa persona. Tutto sommato, tutti abbiamo da imparare qualcosa dalla Legge dei grandi numeri.

Un impianto che appare avere un unico scopo: schiacciare quelle persone che hanno osato immaginare la democrazia in chiave partecipativa, che hanno pensato che insieme potessero fare la storia ma soprattutto decidere che indirizzo dare al paese, democraticamente e al di fuori del Palazzo.

Il reato di resistenza in particolare si presta perfettamente allo scopo, visti non solo i lunghi tempi di prescrizione, ma soprattutto perché qualora ci fosse anche solo il sospetto che il reato possa essere stato realmente commesso, anche se in maniera diversa da quella prevista per ipotizzare il reato, si può arrivare ad una condanna. Non a caso, proprio in questo specifico processo, alcuni condannati lo sono stati soltanto per il legittimo sospetto di aver commesso l’atto, ignorando le decine di prove a discapito che dimostravano l’infondatezza dell’impianto accusatorio.

Più che maxi-processi, meglio un nugolo di piccoli processi, dettagliati e specifici, che rendano impossibile concentrare l’attenzione mediatica in difesa di un supposto sopruso, e che al contempo, ipotizzando tutti lo stesso capo di imputazione, puntino a fare più condanne – anche piccole – possibile, di modo da vanificare la condizionale, e finalmente riuscire ad incastrare i “socialmente pericolosi”. Il rischio di recidiva riguarda un grossa fetta di società, che in quegli anni, ha preso parte a uno dei più grandi movimenti di opposizione in questo paese, e che, per la sua partecipazione alla protesta – praticamente pacifica – si è vista piombare addosso un numero spropositato di denunce e multe.

Normalizzazione, in questo frangente, non è tanto impedire che i reati si ripropongano, ma piuttosto impedire che, singolarmente, certi individui possano andare avanti, e fargli avere la certezza che pagheranno, a caro prezzo, nel silenzio totale e nella dimenticanza collettiva. Punire, delegittimare, dimenticare. Quanto hanno imparato le procure, dagli ultimi grandi processi ai movimenti!

Proprio sul terreno della dimenticanza – o dell’oblio – dovremmo agire noi tutti oggi. Difendere le persone processate, o condannate, non significa tanto cercare strumenti o strade che puntino a ridurre le pene (abbiamo visto, anche sui processi di Genova, che le direttive governative rivolte ai tribunali, su come debba essere scritta la storia giudiziaria, sono impermeabili ai media e all’opinione pubblica, non rappresentando, quindi, di per sé, un obiettivo politico praticabile o efficace), quanto sabotare interamente il dispositivo della dimenticanza, del silenzio. Non per buttare i remi in barca, ma perché la storia serva da lezione degli errori e delle forze, necessarie per rigenerare un movimento in grado di rilanciare la sfida al cielo. Poco importano le sentenze, se quei fatti avranno il loro significato diffuso, se rappresenteranno un ricordo solido e caldo in grado di animare le lotte e il desiderio di non tacere, mai. Non lasciare soli i condannati significa ricostruire quel filo che legittima le loro azioni, che restituisce loro la dignità del Politico, sottraendoli alla narrazione del teppista o dello sbandato che scaturisce dall’assenza di memoria. Fare in modo tale che le vicende di cui sono stati protagonisti non venga scritta soltanto dai tribunali. Scrivere una storia di quegli eventi che sia diversa da quella che si vuole scrivere a suon di sentenze. Una Storia fatta per prendere posizione, e prendere posizione, e quindi agire, è l’anima più innocente e dirompente che dà significato al concetto stesso di democrazia.