DIRITTI

Articolo 419 del Codice Penale, “Devastazione e saccheggio”

Un reato usato ormai come un’arma contro i conflitti: condanna certa, pena spropositata.

Ancora una condanna pesantissima, 6 anni di detenzione per 6 persone, ancora una volta l’applicazione del reato di “devastazione e saccheggio”, questa volta per gli scontri di piazza a Roma il 15 ottobre 2011 in piazza San Giovanni. Le prove generali quest’estate, quando la Cassazione ha portato a termine la vendetta dello Stato a oltre dieci anni di distanza dal g8 genovese, condannando a una media di dieci anni di galera dei manifestanti rei anche solo di aver rotto una vetrina. Due di questi, Alberto e Marina, si trovano in carcere, due sono in fuga e speriamo che riusciranno a scappare ancora a lungo. Ancora una volta una vetrina infranta o, come in questo caso, un blindato dei carabinieri in fiamme valgono più di una vita umana: come non ricordare infatti che i poliziotti riconosciuti responsabili della morte di Federico Aldrovandi sono stati condannati a poco più di tre anni?

Il rischio più che concreto che abbiamo di fronte è che il reato di “devastazione e saccheggio” diventi la scure in mano alla magistratura per recidere il conflitto sociale, per punire in misura abnorme ogni manifestazione di conflitto che non rientri nel recinto della compatibilità e della concertazione. Un reato figlio del Codice Rocco (quell’eminente giurista che la ministra Severino ha elogiato lo scorso ottobre in Senato, definendolo «un grande tecnico»), un detrito giuridico di epoca fascista che non accenna a scomparire dal nostro ordinamento e che serve a punire atti contro la proprietà e l’ordine costituito con un’intensità e una modalità dal sapore ottocentesco, nonché tipiche degli scenari di guerra.

Il paradosso di un paese in cui i comportamenti delle forze dell’ordine e la cultura fascistoide egemone negli apparati di sicurezza sono diventati un vulnus per la democrazia. Ed è allora triste ma necessario ricordare, ogni volta, l’elenco dei morti ammazzati durante un controllo di polizia o un fermo in carcere: da Federico Aldrovandi ad Aldo Bianzino, da Stefano Cucchi a Giuseppe Uva, per non parlare di quello che accade nelle caserme, nelle carceri e nei Cie e che troppo spesso passa sotto totale silenzio. Mentre lo Stato continua a garantire l’impunità a sé stesso. Perché mai allora molti giornali e mezzi d’informazione, in cerca di un servizio di “costume” facile, si continuano a stupire delle scritte acab che si moltiplicano sui muri della nostre città? O dell’insofferenza e della diffidenza di larghi strati della società verso le forze dell’ordine?

In occasione della Cassazione per il g8 dello scorso luglio, la campagna “10×100” (complice anche il successo del film Diaz) è riuscita a sollecitare e a mobilitare molti settori della cosiddetta “società civile”: attori, registi, associazioni, giuristi, docenti, intellettuali si sono espressi in maniera chiara e netta. Ma il problema che abbiamo di fronte, ed oramai non più rinviabile, è come ribaltare l’ordine del discorso, la cultura dominante sulla “legalità” e la “sicurezza” prima di tutto tra quei settori di società che si vogliono democratici e progressisti ma che inseguono il populismo giustizialista e la nuova religione del legalitarismo a ogni costo. In altre parole, come far diventare senso comune che ribellarsi e resistere non è solo necessario ma anche giusto e a volte indispensabile. Che il rispetto della legalità a tutti i costi a volte non è altro che passiva accettazione delle ingiustizie. Eppure il dibattito nella sinistra politica, o di quella che si autonomina tale, si concentra sull’incandidabilità di chi ha avuto condanne (“neanche una multa”, ha sentenziato Ingroia!), come se la corruzione e il malaffare diffuso nella classe politica c’entri qualcosa con un picchetto fuori una fabbrica, con la resistenza allo sgombero di una scuola occupata, con un blocco del traffico o con la resistenza legittima e diffusa alle cariche indiscriminate delle forze dell’ordine, come avvenne il 15 ottobre del 2011 in piazza San Giovanni.

Se, com’è possibile, i tempi futuri ci vedranno agire tumulti e momenti di resistenza sempre più intensi, sarà bene continuare ad attrezzarci per difenderci anche nelle aule di tribunale. Perché nessuno sia lasciato solo.

“Analisi di un reato politico”, video a cura della campagna 10×100 che esamina, a partire dai fatti di Genova nel luglio 2001 per arrivare ai giorni nostri, l’articolo 419 del codice penale “Devastazione e saccheggio”.