EUROPA

La “città invisibile” di Idomeni

Un racconto da dentro il campo. Della solidarietà che si organizza. Della città che si allontana.

Uno stato d’animo, una suggestione visiva. In alcuni momenti Idomeni era una dimensione onirica e questa sensazione la può provare solo chi, come me, picchetta una tenda solo quando va in campeggio. Dopo qualche giorno al campo profughi di Idomeni mi è venuta in mente la frase di Calvino che diceva che al giorno d’oggi non possiamo più fare a meno di vivere nelle città per quanto difficile possa essere, ed è così che una mattina ho iniziato a vedere quel luogo di frontiera, sperduto, caldissimo, affollato il giorno e freddissimo e buio la notte, vasto e malsano, come la città che mi stava ospitando. E vi dirò che non ho dovuto lavorare troppo d’immaginazione. Accanto alla città “ufficiale” di Idomeni, abitata da 158 cittadini greci, è sorta da pochi mesi la città “informale” di Idomeni, abitata da circa 10.000 persone di origine siriana, iraquena, afgana, iraniana e pakistana, fuggiti da un luogo che non era da preferire ad un sacco a pelo sulle rotaie. Con l’arrivo della bella stagione gli uomini e le donne della “nuova Idomeni” hanno fatto il possibile per riprodurre le loro vecchie abitudini in quel pezzo di terra blindato, portando i loro mestieri “in piazza” o al servizio dei “concittadini”.

Nelle diverse “zone” del campo si può trovare il barbiere, il fabbro, chi cucina il pane o i falafel (la carne non circola molto), chi vende prodotti alimentari o sigarette.

Importante è il lavoro delle varie ONG presenti sul luogo, da quelle greche a quelle internazionali, che forniscono assistenza medica o distribuiscono cibo nelle varie zone del campo, oltre ai tanti volontari internazionali che autonomamente si sono mossi dai loro paesi fino al confine greco-macedone. È grazie all’iniziativa di questi ragazzi che riunendosi in assemblea in uno dei punti di ritrovo più vicini al campo, il ParkHotel, un gruppo di ragazzi ha montato una grande tenda verde con uno spazio all’aperto riparato dal sole a cui è stato dato il nome di “Idomeni cultural center”: una scuola dove i bambini possono imparare l’inglese, la matematica, la musica, ma cosa più importante possono passare il tempo in maniera sana e produttiva, cosa apparentemente impossibile in uno dei campi profughi più grandi d’Europa. Durante la settimana i volontari del Cultural Center organizzano dei concerti insieme ai residenti del campo, dove chi vuole può esibirsi e cantare accompagnato dal suono di un Tar, dei tamburi o di altri strumenti portati dagli artisti.

Tra i tanti volontari internazionali ci sono quelli che vivono nel campo insieme ai migranti, che ogni giorno distribuiscono tenda per tenda scarpe, vestiti, cibo e giocattoli. Questi ragazzi vivono nel campo da diversi giorni, hanno calibrato le loro abitudini quotidiane sui ritmi irregolari e precari del campo e, cosa ancora più importante, hanno stretto rapporti di amicizia e di “buon vicinato” con alcune famiglie, stipulando un rapporto di confidenza che permette di comprendere più a fondo le necessità nascoste.

Il male più grande per chi vive in quel mare di fango e ferro che è il campo di Idomeni non sono solo le montagne di rifiuti che si accumulano ai bordi delle strade o la mancanza delle più basilari condizioni igieniche e la scarsità di cibo, ma è lo scorrere lentissimo delle ore. L’attesa. L’immobilità. Il silenzio. Così ci sono giorni in cui la città di Idomeni si riempie di musica; d’altronde le comunità che la animano, da quella araba a quella farsi, amano accompagnare le loro giornate con canti e balli. Mai una nota triste ho ascoltato nel campo: canti di lotta, danze folkloriche come la Dabka palestinese, o balli popolari dai testi malinconici. Quando esplode la musica la “città infelice” riesce a contenere per un istante una “città felice”.

Ho camminato per ore, a volte a vuoto, nella “città” di Idomeni, e c’erano dei momenti in cui dimenticavo dove fossi.

Idomeni rimane un complesso disomogeneo, una comunità forzata fragile e incompleta, una scatola soffocante. Interrogarci su cosa rappresenta questo grande campo che mi sono permessa di chiamare “città”, significa interrogarci su cosa dovrebbe significare per noi, oggi, il concetto di civiltà: così, leggendo i giornali, saremmo in grado di interpretare il senso inumano e del tutto illogico del patto che l’UE ha siglato con Erdogan e più ancora potremmo immaginare quale sia lo strazio di vivere in un “non luogo”, al di fuori del quale non esiste altro che una proiezione della realtà.

Ora il campo è alle mie spalle e c’è una macchina pronta a riportarmi ad Atene, ed è allora che la riflessione sul campo si fa più stringente, forse più reale, magari un po’ fatalista. A breve tornerò in una città vera, di quelle che vivono di luce artificiale, un tempo la polis greca dell’età classica, simbolo delle libere istituzioni democratiche. Se questa, come tante altre città, è stata il segno dell’idea di giustizia e di progresso, un fenomeno politico ed emotivo, oltre che culturale, allora la tendopoli significa proprio la fine della città, il suo esatto contrario.

Immagini dal campo

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