POTERI

Il ‘No’ e la sfida costituente

“La sfida che abbiamo di fronte col referendum è quella di ripensare il potere costituente in termini . Le lotte necessitano di consolidare istituzioni e contropoteri.” Un articolo in anteprima da “Alternative per il Socialismo”, numero 42: “Sabbia nell’ingranaggio”

L’opposizione alla riforma costituzionale Renzi-Boschi è, fino in fondo, opposizione alla catastrofe neoliberale che sta dilaniando l’Europa. Non occorre essere raffinati costituzionalisti, infatti, per cogliere tra le righe della riforma l’obiettivo, inequivocabile, di cancellare la democrazia parlamentare. In combinazione con l’Italicum, il «monocameralismo imperfetto» accentra i poteri nelle mani dell’esecutivo e favorisce la (piena) sostituzione dell’amministrazione per conto del mercato alla politica in rappresentanza del popolo.

Che il meccanismo della rappresentanza, decisivo per la democrazia liberale (moderna), sia da tempo andato in pezzi è cosa nota. Di più: l’abbiamo voluto! L’hanno voluto in questi ultimi decenni i movimenti sociali che, nel segno e nel senso dei contro-poteri, dell’autogoverno e della proliferazione istituzionale, hanno radicalmente criticato il principio (sovrano) di rappresentanza. Il recente fenomeno grillino, poi, se letto a partire dal rilievo della democrazia digitale, è indubbia esemplificazione – carica di difetti, intendiamoci – del rifiuto diffuso per la delega, sia essa (ancora) tradizionalmente partitocratica o, piuttosto, tecnocratica. Ma sappiamo bene che si tratta di processi assai distinti: quello di Renzi è un “golpe del mercato”, secondo il dogma della stabilità/governabilità, contro quel che resta dei contrappesi parlamentari. Flebili quanto si vuole, largamente neutralizzati, nell’ultimo ventennio, dalla legislazione fatta di decreti e voti di fiducia, ma pur sempre presenti.

Sappiamo anche, però, che una semplice difesa di ciò che è stato non basta. Insufficiente per battere Renzi, inadeguata per fare i conti con la trasformazione della costituzione materiale del Paese. E non è solo quest’ultima a essere radicalmente cambiata a partire dalla seconda metà degli anni ’70 (parliamo ormai di ben quattro decadi!): con la fine della Seconda Repubblica, nella transizione a mezzo di commissariamento neoliberale verso la Terza, è la costituzione formale a essere stata già pesantemente manomessa. Partiremo dunque dagli smottamenti – solo alcuni – che hanno investito sia la costituzione materiale che quella formale (§ 1), per poi concentrare la nostra attenzione sulla torsione autoritaria imposta dalla riforma Renzi-Boschi (§ 2) e, infine, insistere sulla sfida costituente che una effettiva opposizione alla riforma pretende (§ 3).

1. Lacerazioni neoliberali

Gli “scalpi” neoliberali che hanno radicalmente modificato la costituzione materiale del nostro Paese vengono da lontano, vale la pena ripeterlo. Così come è sempre necessario insistere sulle lotte che hanno anticipato e, nella sconfitta, loro malgrado favorito la contro-rivoluzione monetarista. Le tappe italiche qualificano l’itinerario di un fallimento: sconfiggendo i movimenti autonomi del lungo ’68, il padronato, i sindacati e la partitocrazia del Bel Paese hanno preparato nel dettaglio la catastrofe. Certo, il fallimento nel quale siamo immersi è figlio del 2008 e della crisi globale. Ma c’è una drammatica peculiarità italica, fino in fondo determinata dalle élite più arraffone, rapaci, mediocri d’Europa.

Gli anni ’80 si distinguono per due passaggi chiave: l’indipendenza della Banca di Italia dalle politiche economiche, nel 1981; il “decreto di San Valentino”, nel 1984, che avvia la soppressione della scala mobile (completata poi nel 1992). Ma gli anni ’90 sono indubbiamente i più “prolifici”: gli accordi di luglio del ’93, che sanciscono una violenta “moderazione” salariale e statizzano compiutamente i sindacati confederali; la riforma in senso contributivo delle pensioni, del 1996; la massiccia legalizzazione dell’occupazione precaria, il cosiddetto “pacchetto Treu”, nel 1997. Quindi, dopo lo sfondamento portato avanti dai «tecnici» (Amato, Ciampi, Dini) e dal centro-sinistra di Prodi e D’Alema, il fuoco di fila berlusconiano: la Legge Biagi, con l’inasprimento dei processi di precarizzazione del mercato del lavoro; la Legge 133/2008 e le prime tappe dell’assassinio della formazione pubblica, sia scolastica che universitaria.

Una ricostruzione stenografica la nostra, indubbiamente, ma utile per indicare le mutazioni sostanziali del Bel Paese: compressione salariale, cancellazione dei diritti del lavoro e impoverimento; continuo e inarrestabile de-finanziamento del welfare; neutralizzazione del conflitto e della contrattazione sociale. Quando ancora oggi, nonostante tutto, ci si riferisce alla prima parte della Costituzione, più nel dettaglio all’articolo 1, si omette di ricordare cosa è diventato il lavoro. In un Paese dove 1 giovane su 2 è disoccupato, dove si lavora gratis (vedi Expo) o per 500 euro al mese (vedi i voucher), dove gran parte dei servizi pubblici essenziali sono garantiti dal prevalere, a mezzo del Terzo settore, della sotto-occupazione, difendere semplicemente la Repubblica del lavoro significa essere complici della catastrofe neoliberale.

Ma è con Monti e Renzi – entrambi sostenuti da Napolitano e Draghi, oltre che da Berlino – che gli “scalpi” hanno concluso l’opera.

Partiamo da Monti, primavera del 2012. E ciò significa partire dal Patto Europlus, accordo adottato dai capi di governo dell’Eurozona nel marzo del 2011 e attraverso il quale gli Stati assumono l’obbligo di recepire nelle Costituzioni o nella legislazione nazionale le regole del Patto di stabilità e crescita, così come via via si vanno definendo con il cosiddetto six pack: l’obbligo per gli Stati membri di convergere verso l’obiettivo del pareggio di bilancio; l’obbligo, per i paesi il cui debito supera il 60% del PIL, di adottare misure per ridurlo rapidamente, nella misura di almeno 1/20 della eccedenza rispetto alla soglia del 60%; automatismo delle sanzioni per i paesi che violano le regole del Patto. Si passa poi per la «gabbia d’acciaio» del Fiscal Compact (marzo 2012) che impegna i paesi ad applicare e introdurre, preferibilmente attraverso interventi di tipo costituzionale, il pareggio di bilancio e durissime procedure di «aggiustamento» in caso di «deviazioni» o ritardi nel raggiungimento dell’obiettivo.

Torniamo a Monti. Il Disegno di Legge costituzionale che traduce in Italia i diktat di Bruxelles viene definitivamente approvato, nel completo silenzio stampa (e politico), il 18 aprile 2012 ed entra in vigore il 1° gennaio 2014. Rinnovando gli articoli 81, 97, 117 e 119, la Legge costituzionale impone il «pareggio di bilancio» e lo combina con un vincolo di «sostenibilità del debito» di tutte le pubbliche amministrazioni e gli enti territoriali (vedi le modifiche sostanziali all’articolo 119). Piena trasformazione in senso ordoliberale, dunque, della costituzione formale del Bel Paese. Con essa l’archiviazione definitiva, a mezzo di norma fondamentale, delle politiche espansive e anti-cicliche nel segno del deficit spending.

Prima di insistere sui colpi da Renzi inferti alla Costituzione, vale la pena ricordare, seppur molto rapidamente, le politiche del lavoro e fiscali con le quali il “ganzo” fiorentino sta proseguendo la radicale modificazione della costituzione materiale del Paese.

Con il Jobs Act, Legge dal 7 marzo del 2015, lo scalpo dell’articolo 18. Ma si tratta solo di una piccola parte del disastro. Con il 18 viene eliminato quasi del tutto lo Statuto dei lavoratori, attraverso la liberalizzazione dei trasferimenti coatti, del de-mansionamento, del controllo a distanza. Liberalizzato oltre misura, poi, il lavoro accessorio (voucher); che perde ogni requisito di occasionalità e qualifica l’espansione a dismisura dei working poor. Intanto un anno prima, primavera del 2014, la Legge Poletti aveva liberalizzato i contratti a termine senza causale, togliendo la possibilità ai precari di impugnarli e difendersi dall’abuso in sede giudiziaria. Infine, è con la Legge di stabilità in discussione/approvazione mentre scriviamo che Renzi manda in fumo l’articolo 53 della Costituzione: si abbassa del 3% l’IRES (ben 5 miliardi l’anno), l’imposta sul reddito delle società, dopo che già sono state eliminate le tasse sui patrimoni immobiliari. La formula è chiara: paga meno chi ha di più; e viceversa.

2. Il golpe

Da più parti si riconosce che il nocciolo duro del progetto di riforma costituzionale Renzi-Boschi consiste nell’accentramento dei poteri a favore dell’esecutivo. Se proviamo però a collocare tale progetto nel contesto che abbiamo appena descritto, non possiamo non cogliere come istanze di accentramento e di “esecutivizzazione” del potere siano già in atto nel nostro Paese da lungo tempo.

Da questo punto di vista, il progetto Renzi-Boschi si pone in netta continuità con la fase del presidenzialismo di fatto di Napolitano, e dei cosiddetti «governi del Presidente», dandogli ora compiuta forma costituzionale. L’introduzione di un premierato forte, nel combinato disposto con la legge elettorale, produce uno spostamento del baricentro istituzionale, e della determinazione dell’indirizzo politico, a favore dell’esecutivo. Ne deriva così, in termini di checks and balances, un grave squilibrio tra i poteri di indirizzo e di controllo previsti dalla Carta del ’48. Si aggiunga – fatto non irrilevante per chi è attento alla tensione tra il piano della legittimità e quello della legalità – che questo disegno di riforma è stato approvato da una maggioranza parlamentare priva di legittimazione sostanziale, perché eletta con un sistema elettorale – il Porcellum – poi dichiarato illegittimo dalla Consulta. Per chi come noi ha preso parte al movimento studentesco dell’Onda, tra il 2008 e il 2010, la sentenza n.1 del 2014 non ha costituito fattore di scandalo o di stupore: quel movimento aveva ampiamente anticipato, in piazza, la dichiarazione d’illegittimità della Consulta.

Ma proviamo a fare un passo indietro, in tema di accentramento del potere. Abbiamo assistito, in questi anni, all’uso di strumenti che hanno forzato la regolare prassi parlamentare, i rapporti tra parlamento e governo, e più in generale l’equilibrio tra i poteri. Per fare solo degli esempi: l’uso smisurato della decretazione d’urgenza e della questione di fiducia da parte del governo (com’è accaduto rispetto alla stessa legge elettorale Italicum di cui oggi si discute), le continue forzature della prassi e dei regolamenti parlamentari nella dialettica tra maggioranza e opposizioni, il ruolo crescente delle autorità amministrative indipendenti, il ruolo sostitutivo della magistratura nei confronti della politica. Tutto ciò è avvenuto – è bene ribadirlo – a costituzione invariata.

Per ricercare le radici profonde di questo disegno, bisogna varcare gli angusti confini nazionali, e osservare come sia stata la stessa governance europea ad aver subito, in particolare dal 2011, una torsione autoritaria che ha impresso una modifica profonda alle costituzioni dei singoli ordinamenti nazionali (i «governi del Presidente» in Italia, letti in questa luce, sono governi commissariali).

Il Fiscal Compact e il MES, che alcuni giuristi hanno definito come un «diritto europeo dell’emergenza», vista la dubbia conformità agli stessi trattati istitutivi della UE, hanno sicuramente contribuito a far saltare gli assetti di checks and balances, nonché il quadro dei diritti sociali, sanciti dalle Costituzioni dei singoli Stati membri. Così, si sono prodotti ibridi di governance e governo, che alcuni studiosi hanno provato ad afferrare ricorrendo alle figure analitiche della dottrina dello Stato e della scienza politica: «dittatura commissaria», «federalismo esecutivo», «authoritarian managerialism». Ma al di là di queste definizioni analitiche, a essere stato costituzionalizzato, sul piano europeo, è il regime puro di concorrenza e l’impossibilità per i singoli Stati, come dicevamo, di effettuare politiche di deficit spending. Sono state invece «decostituzionalizzate» le principali sfere deputate alla riproduzione sociale, alla «produzione dell’uomo per mezzo dell’uomo».

È nel quadro di questa offensiva neoliberale che va letta, nel caso italiano, la modifica degli articoli 81, 97, 117 e 119 e l’introduzione della regola del pareggio di bilancio in Costituzione, vera Grundnorm neoliberale, ed esempio lampante di “rapidità” del procedimento legislativo (per di più, di un procedimento aggravato) e di unanimità (hanno votato a suo favore tutti i partiti allora rappresentati in parlamento).

Ma c’è un altro elemento, rispetto a questo disegno di accentramento, che deve essere evidenziato: la riorganizzazione del rapporto e delle competenze tra “centro” e “periferia”. A noi pare che tale “riorganizzazione” costituisca uno degli elementi cruciali della riforma Renzi-Boschi, nei termini di un pesante attacco a quella proliferazione di istanze di autogoverno così presenti nel nostro paese. La «clausola di supremazia» e il potere d’intervento diretto del governo sulle autonomie, per ragioni di «interesse nazionale», puntano infatti ad azzerare i margini di decentramento costituzionalmente sanciti. In molti hanno descritto questa parte della riforma del Titolo V della Costituzione come un disegno di “neo-centralismo statale”. E’ forse più appropriato, nel quadro della governance neoliberale che abbiamo descritto, ricondurre questo disegno a un federalismo esecutivo. Nella storia degli ordinamenti federali la clausola di supremazia è stata l’esito di una lotta per la sovranità, il tentativo cioè di chiudere il dualismo costitutivo degli Stati federali a favore del governo centrale (talvolta, dopo fasi di guerra civile). Nell’odierna configurazione dei poteri a livello europeo, la riscrittura del Titolo V si presenta non certo come dispositivo di garanzia di un astratto quanto ingannevole interesse nazionale a discapito delle autonomie locali, ma come un ulteriore grimaldello per favorire la penetrazione delle dinamiche estrattive e predatorie del capitalismo finanziario all’interno delle città e dei territori.

3. Nuova immaginazione istituzionale

Nel descrivere le trasformazioni costituzionali che hanno agito su scala europea e nazionale, bisogna sempre partire dal fatto che esse non sono solo l’esito di trasformazioni “dall’alto”. Come abbiamo sottolineato all’inizio di questo contributo, il superamento del tradizionale quadro della mediazione politica e costituzionale, e dei suoi dispositivi di rappresentanza, è stato fortemente voluto “dal basso”, dall’avvento di nuove soggettività, irriducibili al compromesso capitale-lavoro, e dall’emersione di un nuovo modo di produzione fondato sul comune.

Dal nostro punto di vista, ogni problematica costituzionale, come ogni problematica lato sensu giuridica, impone al pensiero e alla prassi un capovolgimento: dalla critica del cielo occorre ridiscendere alla critica della terra. L’indicazione, com’è noto, ci viene data dal giovane Marx della Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico del 1843-44. Se «la costituzione politica è la costituzione della proprietà privata», se cioè il contenuto materiale della forma di governo (e di Stato) va sempre ricercato nella trasformazione dei modi di produzione, e nella fissazione su di essi di determinati rapporti di comando e sfruttamento, allora la stessa questione della revisione costituzionale cambia di segno. Una prospettiva materialista ci impone perciò di guardare sempre alle trasformazioni della Verfassung (costituzione materiale) nel suo intreccio con la Konstitution (costituzione formale). La nostra battaglia per il ‘No’ va perciò condotta con la consapevolezza non solo di ciò che questo disegno vuole “cambiare”, ma di cosa è già cambiato, sul piano dei rapporti materiali, rispetto al compromesso costituzionale del ’48 (usiamo qui la parola compromesso in un senso analitico, essendo la Costituzione del ’48 un compromesso tra forze politiche, sociali e produttive nel segno della «costituzionalizzazione del lavoro»).

Da qui occorre partire, per definire la sfida costituente che la campagna per il ‘No’ porta con sé. Ogni battaglia difensiva per la Costituzione è destinata a perdere perché non coglie la sfida che sul piano europeo è necessario porre: la sfida della riapertura della sperimentazione democratica e dell’immaginazione istituzionale. Una lotta difensiva è una lotta perdente non solo perché incapace di stimolare nuove sperimentazioni democratiche, ma anche perché rischia di rimanere confinata, dunque isolata, all’interno dei perimetri di una costituzione nazionale. Se l’Europa, con i suoi muri, le guerre ai suoi margini, e le sue continue lacerazioni, attraversa già una pesante scomposizione, un ‘No’ costituente deve porsi la sfida di attivare processi ricompositivi della lotta di classe sul piano europeo. Deve cioè porsi il problema della creazione di un nuovo spazio politico e di nuovi territori esistenziali, oltre la falsa dicotomia tra lo spazio “liscio” del capitale finanziario e lo spazio “striato” delle sovranità nazionali.

Del resto, se guardiamo al “ciclo Occupy” del 2011 o alle più recenti lotte francesi contro la Loi travail, il problema che si è posto è stato anche quello del superamento dei regimi costituzionali esistenti, a favore dell’invenzione di nuovi istituti democratici e del welfare. Se nel caso spagnolo l’irruzione del 15M ha rotto la continuità politica del bipartitismo, in Francia, nei grandi scioperi e nelle occupazioni delle piazze, è stato posto all’ordine del giorno il tema del blocco democratico costituito dal regime presidenziale della V Repubblica, per di più complicato dal prolungato État d’urgence. Al di là dei pesanti limiti che queste lotte hanno incontrato – limiti per lo più riconducibili alla loro base spaziale, i singoli Stati nazionali –, ciò che ci interessa è la tensione costituente che le ha accompagnate.

Noi crediamo che la campagna referendaria debba sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda. La sfida che abbiamo di fronte è quella di ripensare il potere costituente al plurale e in termini pienamente federativi. Di ripensarlo cioè come potentia. Ciò di cui oggi le singole lotte necessitano è il consolidamento di istituzioni e di contro-poteri che consentano l’estensione delle istanze di libertà, di autonomia e di cambiamento. Anche se in forma del tutto parziale e frammentata, le esperienze di municipalismo e di sindacalismo sociale su base metropolitana, ci stanno consegnando una nuova cassetta degli attrezzi e un inedito modo di fare politica. Che il 4 dicembre sia un tassello importante, non per riesumare vecchie sovranità, ma per rilanciare in forza una democrazia – per dirla ancora con Marx – propriamente «espansiva».