MONDO

Election Day, one week later

Vorremmo partire, nel nostro ragionamento, dai dati degli exit polls, che per quanto incerti e insicuri, sono gli unici a disposizione per analizzare chi ha votato come, evidenziando quelli che ci sembrano due dati sottovalutati nei discorsi che sono stati alla base di alcune analisi che abbiamo letto.
Voci da New York #TrumpProtest
White Mirror
Usa in piazza: Donald Trump is not my president

Non c’è stata alcuna avanzata, in termini di voto, del partito repubblicano, nessun afflusso di voti eclatante, anzi i risultati sono stati in linea, se non peggiori, rispetto alle ultime elezioni. Le fasce più povere (quindi parliamo di neri e latinos) si sono o astenute o hanno votato per Clinton. La flessione percentuale che ha portato in molti a dire che Trump ha recuperato voti in quelle fasce non tiene conto del fatto l’astensione non è trasversale a tutte le fasce della popolazione, le “minoranze” non sono andate a votare, facendo quindi aumentare la percentuale relativa del GOP nelle fasce a basso reddito. Questo è ben diverso dal dire che ci sia stato un reale spostamento dell’elettorato a destra.

A partire da questo ci sembra quindi quantomeno avventato leggere una rivolta di massa contro le élites (che siano politiche o finanziarie), quello che emerge da queste elezioni è uno stato diviso e disilluso.

È questa disillusione (e gli effetti che provocherà) che va analizzata fino in fondo. Certamente la peggior campagna elettorale con i peggiori candidati da molto tempo a questa parte non ha aiutato. Però, come abbiamo evidenziato, questo sentimento ha colpito in maniera prevalente l’elettorato democratico (o perlomeno chi nelle ultime due elezioni aveva riposto in Obama le proprie speranze), spingendolo a rimanere a casa piuttosto che votare per Clinton. È stata proprio l’assenza delle minoranze, neri e latinos principalmente, che ha determinato la sconfitta dei democratici. Come avrebbe potuto essere altrimenti dal momento in cui le istanze dei movimenti (pensiamo al Black Lives Matter o al movimento che si è creato intorno alla candidatura di Sanders) sono rimaste del tutto inascoltate dal partito e dalla candidata alla presidenza? Lo stesso Obama è uscito sconfitto, gli interventi e gli appelli fatti durante la campagna elettorale sono caduti nel vuoto.

È evidente che la politica economica di Obama, che ha garantito dal 2010 un ritorno alla crescita del PIL (seppure in misura minore rispetto ai livelli pre-crisi), sia stata insufficiente. Da sempre le crisi economiche sono vettori di un aumento delle diseguaglianze sociali, quello che si è visto negli USA con movimenti come quello del minimum wage, agitato dai working poors e le cui istanze sono rimaste essenzialmente inascoltate, è che anche una crescita economica senza che esistano delle istituzioni che redistribuiscano la ricchezza porta inevitabilmente a nuove disuguaglianze a cui i due mandati di Obama hanno fatto fronte in maniera insufficiente.

Per concludere il nostro ragionamento, conviene forse fare un passo indietro e rianalizzare le primarie. I due partiti hanno reagito in maniera molto simile, seppur con risultati differenti, alla presenza di una candidatura esterna e indipendente. Ed è durante le campagne interne ai partiti che forse ha più senso applicare la teoria populista, Trump è riuscito a canalizzare la necessità di rivalsa dell’Uomo Bianco all’interno del GOP e sfruttando la sua indipendenza non ha esitato a mostrare il suo volto di razzista, sessista e fascista.

È vero che l’ex classe operaia delle fabbriche, della produzione industriale, vota contro il capitalismo globale, quello che ha esternalizzato le industrie in Asia e permesso la libera circolazione delle merci, e questo dato ha reso diverse analisi felici se non addirittura euforiche. In realtà questo è un fenomeno che già da anni stiamo vedendo, per esempio, nel nord-est italiano dove gli operai e piccoli imprenditori votano Lega, o in Francia dove il voto per il FN è in larga parte operaio e proprio per questo difficilmente possiamo condividere quest’entusiasmo.

Questo non vuol dire che la vittoria di The Donald non sia un momento di rottura nel “cuore della bestia”, ma quali effetti produrrà questo momento, sia all’interno che all’esterno degli USA?

Il ruolo di potenza egemone degli Stati Uniti si sta ridimensionando negli ultimi anni e le parole chiave del programma di Trump in politica estera, ovvero protezionismo e isolazionismo non faranno altro che accelerare questo processo, riducendo i soldi spesi per la Nato, smantellando i trattati di libero scambio NAFTA e TPP, riavvicinando i rapporti con la Russia ma anche abrogando l’accordo sul nucleare con l’Iran. È evidente che, soprattutto per quanto riguarda gli ultimi due punti, non è possibile prevederne, ad ora, gli effetti. Di certo un aumento delle tensioni con l’Iran all’interno di uno scacchiere come quello mediorientale non è auspicabile e contraddice al flirt con Putin e i suoi alleati (sciiti e Assad). A livello di politica interna? Il nuovo governo avrà a disposizione la maggioranza sia alla Camera che al Senato e potrebbe virtualmente far passare qualunque tipo di controriforma. Virtualmente perché non è scontato quale sarà il ruolo del GOP nella gestione delle istituzioni, lo strappo di Trump con il partito sarà ricucito oppure no?

Indubbiamente queste elezioni avranno, nei confronti di quella guerra civile strisciante che da anni vede i neri (poveri) morire per mano della polizia, un effetto che potrebbe essere devastante, alzando la tensione e, di fatto, legittimando l’operato della polizia o di organizzazioni come il KKK. Già i primi annunci di Trump, sebbene ancora privo di poteri presidenziali effettivi, sono allarmanti: espulsione di 3 milioni di “clandestini” supposti criminali, muro al confine messicano, smantellamento dell’Obamacare e degli accordi internazionali sull’ambiente, nomina di un fanatico suprematista come Steve Bannon a primo consigliere… Anche le mosse diplomatiche denotano un attivismo che sarà isolazionista ma sembra ben poco pacifista. I contraccolpi sul populismo continentale e sui fautori della Brexit, inaugurato con i messaggi a Theresa May e l’incontro con Nigel Farage, sono evidenti così come le reazioni al limite dell’isteria della UE. Anche i putiniani si fregano le mani e in Bulgaria e Moldovia sono stati eletti presidenti filo-russi.

Non siamo per il tanto peggio tanto meglio, né per il meno peggio, siamo dalla parte di chi, già dalle prime ore dopo l’annuncio della vittoria è sceso in strada annunciando con forza che Trump #isnotmypresident.