TERRITORI

Dopo il terremoto: voci solidali dalla montagna

Il terremoto del 24 agosto pone molte domande sull’abbandono a cui stiamo condannando le aree interne e i comuni montani. Il consumo di suolo, l’incuria degli interventi, i fondi per la sicurezza spariti sono solo alcune delle ombre gettate da questo disastro
Terremoto: parte la solidarietà dal basso

Tra le tende dopo il terremoto

i bambini giocano a palla avvelenata,

al mondo, ai quattro cantoni,

a guardie e ladri, la vita rimbalza

elastica, non vuole

altro che vivere.

(G.Rodari)

La strada che da Roma porta nel cuore del cratere si inerpica in mezzo ai monti della Laga. Poco prima di arrivare ad Amatrice si costeggia la riva del lago di Campotosto, il più ampio invaso artificiale dell’Appennino. Anche qui, come in tante valli alpine, a partire dagli anni Trenta venne infilato un tassello di quel progetto nazionale che voleva rendere le montagne italiane il cuore della produzione industriale, attraverso lo sfruttamento delle acque e la capillare infrastrutturazione delle terre alte.

Le tre dighe di Campotosto, come anche quella vicina di Scandarello, sono una chiara metafora del rapporto che nell’ultimo secolo si è instaurato tra il Paese e le sue aree montane, di quel rapporto ai limiti dello sfruttamento coloniale, che ha determinato la subalternità delle comunità e delle economie valligiane ai bisogni della pianura e delle città. Un rapporto asimmetrico, che ha portato tanti “sud” anche nel cuore del nord laborioso e che con il miraggio dello “sviluppo” ha portato questo incrocio tra Lazio, Marche e Abruzzo ancora più a meridione obbligandolo ad un continuo inseguimento delle esigenze economiche e di riproduzione del capitalismo di fondovalle.

Con le scosse della notte del 24 agosto, non solo sono morte centinaia di persone (ormai è quasi certo che le vittime, in un raggio ben più limitato, supereranno quelle del 2009), ma si è reso ancora più veloce un processo di abbandono delle aree montane che comunque procedeva inesorabile da anni. Sembra strano, ma la conca di Amatrice, ben poco distante da Roma in termini sia geografici che culturali, è uno dei luoghi più impervi e di difficile accesso del centro Italia. Con la Salaria bloccata per esigenze di soccorso e sicurezza, la sola via di accesso passa attraverso il passo delle Capannelle, a 1.300 metri di altitudine. Più di un’ora di macchina dal casello autostradale più vicino.

Intorno ad Amatrice, sia nel suo territorio che in quello dei comuni limitrofi, le frazioni contano ormai tutte un pugno di residenti fissi: dove 10, dove meno, dove una ventina. Spesso tutti quanti anziani, a volte migranti, che rappresentano oggi l’unico motore demografico delle terre alte e l’unica garanzia di continuità per questa economia rurale. Per obbligo, ricattabilità, ma anche per scelta consapevole e competenze acquisite nei paesi di origine. Anche loro, i migranti, residenti fissi o stagionali del cratere, che secondo Salvini e il partito della ruspa sarebbero solo un costo da ridurre, hanno pagato un altissimo tributo di vittime.

Il terremoto del 24 agosto impone molte domande sull’abbandono a cui il nostro modello di sviluppo sta condannando le aree interne e i comuni montani. Non solo anche qui si stanno poco a poco rendendo evidenti quegli scempi a cui ormai siamo tristemente abituati (ma non assuefatti): il consumo di suolo, l’incuria degli interventi, i fondi per la sicurezza spariti, e quanto altro di marcio sta emergendo già dalle primissime ore. Mai, nemmeno in occasione del sisma del 2009 nell’aquilano, ci siamo trovati di fronte al rischio concreto di vedere un territorio morire insieme alla sua comunità. L’Appennino è punteggiato di località abbandonate in seguito ad eventi catastrofici: le vicine Calascio vecchia e Albe vecchia, deserte dopo eventi sismici, o Craco, in Basilicata, abbandonata in seguito a uno smottamento nel 1963. Ma ci sembra senz’altro difficile immaginare che simile destino riguardi un comune italiano nel XXI secolo. Eppure il rischio è concreto: nel terremoto sono infatti morti molti commercianti, tante delle poche persone che avevano voluto investire economicamente in questa zona, aggrappata al turismo estivo (spesso di rientro) per passare l’anno. Sono morti giovani e bambini, rompendo quindi quella continuità di legame affettivo che anche se per poche settimane l’anno ripopolava Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto. Sono stati bloccati o danneggiati esperimenti innovativi di produzione agricola e casearia, che in potenza avrebbero permesso di interrompere l’emorragia di persone o anche innescare un ciclo inverso.

Il premier Renzi, notoriamente incline alle sparate, ha già promesso la ricostruzione dei borghi. Una ricostruzione materiale, che però non tiene conto che una comunità non è solo pietre e strade, infrastrutture e alberghi. E’ anche legami, progettualità, stili di vita, affetti. L’Aquila in questo insegna, tre volte: criminale la gestione dell’emergenza, mafiosa la ricostruzione materiale, monca quella del tessuto sociale. Ad oggi, per rilanciare il territorio colpito nel 2009, si sente solo parlare di turismo mordi e fuggi, di impianti sciistici e infrastrutture per la mobilità privata. Le montagne, ancora oggi, sono solo luogo di estrazione oppure ostacoli da superare: ieri dighe e trafori, oggi alta velocità, impianti da sci e grandi alberghi, anche a dispetto delle bizze del clima.

Tuttavia, già dalle prime ore, dal cuore del cratere iniziano ad arrivare segnali importanti, di voglia di resistere alla minaccia dell’abbandono e alle probabili forzature della ricostruzione. Arrivano dai primi progetti concreti di solidarietà, che stanno dando vita a un’area per ridare corpo alla socialità di Amatrice, nella vicina frazione di San Cipriano, attraverso la nascita di uno spaccio popolare promosso dai centri sociali romani e dalle Brigate di Solidarietà Attiva. Arrivano dalla frazione di Capricchia, che in queste ore non rinuncia ai propri tradizionali momenti di socialità e convivialità, riportando vicino alle case distrutte anche chi se ne era inizialmente allontanato. L’obiettivo è fare sì che quella trascorsa non sia l’ultima estate della comunità di Amatrice e degli altri comuni colpiti dal sisma. E’ tenere saldi i legami perché la ricostruzione, che al di là della retorica, si annuncia un processo complesso, controverso, che necessiterà di uno stretto monitoraggio, diventi anche un momento per rimettere in discussione un modello economico e di sviluppo che troppo spesso rende eventi naturali vere e proprie catastrofi.

*tratto dal sito indipendenti.eu