MONDO

Scenari inattesi e prospettive future in Palestina Israele

Vale la pena ripercorrere quanto accaduto durante il 2018 in Palestina/Israele per comprendere l’evolversi della situazione politica e per tracciare prospettive future, dopo un anno significativo per avvenimenti e a resistenze

Appena superato il giro di boa tra 2018 e 2019 fare un bilancio rispetto al conflitto in Israele/Palestina può risultare interessante, perché alcuni elementi nuovi sono emersi nell’anno appena trascorso. Pare incredibile pensare a un conflitto che, anche se si perpetua da così tanto tempo, permette a nuove resistenze di rigenerarsi sulle ceneri delle tante sconfitte e dei soprusi storici, eppure è questo quello che avviene in Medioriente. Nel 2018 infatti abbiamo assistito a scenari non previsti e insoliti, a molti dei quali abbiamo dato ampio spazio in queste pagine.

A inizio anno si è aperta una campagna internazionale per la liberazione di Ahed Tamimi, la ragazza di Nabi Saleh detenuta per aver schiaffeggiato un soldato che era entrato nel giardino di casa sua a seguito di una manifestazione popolare nel villaggio repressa con violenza dall’esercito.

La detenzione e il processo di Ahed ha permesso di dare enorme visibilità internazionale alla lotta popolare nonviolenta e di ricordare al mondo intero il dramma dell’occupazione israeliana in Palestina. Ben presto inoltre il caso di Ahed ha assunto valore simbolico e iconico per tante lotte piccole o grandi che costruiscono la resistenza diffusa all’occupazione. Ahed ha trascorso in carcere 8 mesi, per essere poi liberata a luglio 2018.

Altre due importanti lotte popolari e nonviolente hanno caratterizzato lo scenario tanto in Palestina quanto in Israele fin dall’inizio dell’anno. Il governo Netanyahu ha emesso a gennaio un provvedimento che prevedeva la deportazione forzata in paesi centroafricani (Uganda e Rwanda) di circa 40.000 rifugiati sudanesi ed eritrei, arrivati in Israele dal 2004 al 2012 camminando attraverso il deserto del Sinai.  Il provvedimento ha però incontrato una resistenza diffusa e meticcia composta da israeliani e dagli stessi rifugiati. Tale resistenza si è tradotta in azioni, marce e forme di disobbedienza civile fino a mettere il governo in difficoltà e a costringerlo a ritirare il decreto. A oggi la situazione dei rifugiati in Israele è sempre fragile e precaria, ma non ci sono state deportazioni.

Da fine marzo poi, è esploso il movimento della Great Return March a Gaza, un fenomeno estremamente interessante e innovativo.  I palestinesi abitanti della Striscia si sono riversati nelle strade verso il muro che li divide da Israele ogni venerdì a partire dal 30 marzo chiedendo la fine dell’assedio, formando cortei anche di 30 o 40mila persone, ricevendo costantemente una severa repressione fatta di gas lacrimogeni e proiettili. Da allora sono stati uccisi nei cortei più di 200 attivisti. Il fenomeno è stato potente e innovativo perché la resistenza ha assunto forme popolari, creative non militari e allargate e questo non accadeva da molti anni a Gaza. Inoltre è stato l’unico movimento significativo in questi anni a non essere egemonizzato dai partiti islamisti, che hanno cercato di parteciparvi ma la leadership è rimasta saldamente in mano a un gruppo di giovani indipendente dai partiti.

La potenza dei cortei nella Striscia è stata elevata fino a maggio, in occasione delle proteste per il trasferimento della ambasciata USA a Gerusalemme e con l’anniversario della Nakba del 1948. Tuttavia anche se attualmente il movimento vive una fase di calo, è comunque indubbiamente stato il “fatto” palestinese più significativo degli ultimi anni.

A partire da questo movimento si sono irradiati una serie di altri fattori positivi sia tra la popolazione palestinese che tra quella israeliana. Infatti abbiamo ripreso su Dinamo l’eccezionale scambio epistolare  tra uno dei leader delle proteste a Gaza e un refusnik israeliano in carcere , che ha dichiarato di aver fatto la sua scelta ispirato dal movimento dei giovani gazawi. Nello scambio l’attivista palestinese arriva a scrivere: «Lottiamo assieme per i diritti umani, per un paese che sia democratico per tutti i suoi cittadini e perché israeliani e palestinesi possano vivere assieme in base a cittadinanza e uguaglianza, non in base a razzismo e segregazione» – e non sono certo parole leggere.   A partire da questa esperienza si sono addirittura formati gruppi di obiettori di coscienza israeliani che si uniscono e che, oltre a confrontarsi sulla propria scelta (che spesso determina periodi di carcere alternati a periodi in libertà), si mettono in collegamento con gli attivisti palestinesi della Great Return March.

Non da ultima, va menzionata tra le resistenze del 2018 la lotta contro la demolizione del villaggio beduino palestinese di Khan al-Ahmar, che per ora ha scongiurato il rischio di venire distrutto, grazie a  una importante mobilitazione di attivisti palestinesi e internazionali durata settimane.

Posso dire pertanto, per aver seguito l’evolversi del conflitto da vicino per molti anni, che il 2018 è stato eccezionale non solo per i tanti momenti significativi di resistenza popolare ma anche per il superamento della separazione forzata tra popolazione ebraica e non ebraica in Palestina/Israele. L’occupazione si basa, fondamentalmente, a livello internazionale sulla complicità e l’interesse di USA ed Europa, a livello interno sul principio della separazione forzata tra chi è ebreo e chi non lo è. Per questo motivo ogni joint struggle è sabbia nell’ingranaggio di violenza, ingiustizia e morte che è l’occupazione.

L’anno appena iniziato sarà caratterizzato dalle elezioni anticipate in Israele in aprile. La destra israeliana, colpita da scandali di corruzione, farà il possibile per garantirsi il mantenimento del potere. Lo scenario più probabile è che questo avvenga, ma non sono poche le debolezze interne tanto di Netanyahu quanto dei suoi alleati, Lieberman e Bennett, e in questo articolo di 972mag.com emergono tutte le contraddizioni interne tra il Likud e gli altri partiti. Nel frattempo sullo sfondo si prospetta la linea politica di Trump caratterizzata dal generico disimpegno in Medioriente, che potrebbe avere ripercussioni anche in Palestina/Israele, mentre Netanyahu si è già dichiarato il migliore alleato dell’estrema destra di Bolsonaro.

Infine, il 2019 da parte palestinese è iniziato con due notizie. Nuove faide tra Hamas e Fatah hanno portato a un’altra chiusura del valico di Rafah e pertanto a un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi nella Striscia.  Nel frattempo, in West Bank, i 5 partiti che compongono la Sinistra Palestinese (People Party, DFLP, PFLP, Fida e Al Mubadara) hanno deciso di costruire una coalizione comune per rinnovare da sinistra l’OLP. Questo è un passo molto importante visto quanto la frammentazione e la conflittualità interna della sinistra abbia portato a un suo allontanamento dalle condizioni di vita reali della popolazione palestinese e a una forte disaffezione dei palestinesi nei loro confronti. Lo scenario è tutto da definire visto che anche sulle prospettive politiche non sono tutti d’accordo (c’è tra di loro chi ancora punta alla soluzione “due popoli due stati”), ma il passaggio dell’unificazione era fondamentale premessa di qualunque fase successiva.

Foto tratta da qui