MONDO

Palestina: un massacro per distruggere la speranza

Mentre il mondo rimane a guardare e festeggia il “compleanno” di Israele, la possibilità per gli abitanti di Gaza di resistere in modo alternativo viene schiacciata nel sangue

Lunedì 14 maggio verrà ricordato come un’altra tragica giornata nella storia del conflitto israelo-palestinese. I numeri forniti dal ministero della Salute di Gaza sono impressionanti. Sono stati uccisi 58 palestinesi, di cui 7 minorenni e 1 membro di personale paramedico, e 2771 sono rimasti feriti, 1368 di questi, feriti da arma da fuoco. Sono numeri così angoscianti che anche trovare parole è difficile. Ci proviamo.

La giornata di lunedì 14 arriva al culmine di un mese e mezzo di proteste, la Great Return March: un insieme di manifestazioni popolari non armate, svoltesi ogni venerdì, dirette da Gaza fino al confine della Striscia per chiedere il Diritto al Ritorno e la fine dell’assedio. In questo mese e mezzo di cortei sono stati uccisi 101 palestinesi, e quasi 10.000 sono stati feriti. Non un singolo razzo è stato lanciato da Gaza verso Israele in questo periodo. In nessuna occasione sono stati usate armi da fuoco da parte palestinese. Nessun soldato israeliano è rimasto ferito in questi giorni di protesta. Vi è stato invece un deliberato massacro di manifestanti che hanno utilizzato per protestare solo ed esclusivamente gli strumenti tipici di ogni resistenza popolare, quali striscioni, fionde e sassi. Contro di loro sono state scatenate ogni tipo di armi, dagli idranti, ai lacrimogeni, a quelli che erroneamente vengono definiti proiettili di gomma (hanno solo un sottile rivestimento gommoso, in realtà sono palline di acciaio scagliate a grappolo), fino a munizioni vere e proprie.

La Great Return March, indetta da una coalizione allargata di associazioni e gruppi di base alle quali solo all’ultimo si sono aggiunti i partiti, ha scelto strategicamente di essere popolare e nonviolenta, per sovvertire gli stereotipi, guadagnare consensi a livello internazionale e mostrare invece tutta la violenza dell’occupazione militare. Proprio per questo, per la sua potenziale “pericolosità” per Israele, l’iniziativa è stata repressa con tanta durezza.

Il governo di Tel Aviv anche in questo evidente conflitto asimmetrico, è riuscito ad autoassolversi accusando Hamas di essere il provocatore che ha manipolato i manifestanti affinché partecipassero, versione ovviamente pienamente avallata dai media occidentali, italiani in primis.

Mentre ai confini si consumava questa tragedia destinata a rimanere impunita, a Gerusalemme per tutta la giornata di lunedì si è festeggiata la scelta di Trump di spostare l’ambasciata, evento annunciato a dicembre quando aveva già causato decine di proteste, ancora una volta represse nel sangue. La mossa di Trump permette infatti una sorta di assorbimento “de facto” di Gerusalemme Est allo stato israeliano. Alla cerimonia, per dare un’idea, hanno partecipato anche due reverendi statunitensi ultraconservatori ed estremisti, appositamente coinvolti da Trump, come John Hagee e Robert Jefresses (sebbene accusato di antisemitismo in passato).

A Tel Aviv, nell’indifferenza generalizzata verso quanto accadeva a Gaza, si festeggiava per le strade invece la vittoria di una cantante israeliana alla competizione Eurovision, un ennesimo strumento normalizzatore per ripulire la facciata pubblica dello stato israeliano, come è stata pure la partenza da Gerusalemme del Giro d’Italia.

Una coalizione di ONG israeliane ha provato a fare ricorso urgente alla Corte Suprema, perché questa definisca se è legale, per l’esercito, sparare verso civili disarmati che non creano una minaccia a vite umane.

La Corte, che vive un momento di forte pressione perché il governo vuole aumentare il controllo sulla stessa, non ha ancora risposto al ricorso e non ha sentenziato prima della giornata di lunedì, che già nelle previsioni ci si aspettava tragica.

La reazione del mondo alla strage compiuta oggi è stata ancora una volta tiepida ed è questo che fa più rabbia. Allo stato israeliano è concesso di agire con una impunità che non sarebbe garantita ad altri stati amici, neppure quando è risaputo che questa impunità ha un impatto diretto nella situazione politica europea, visto che è uno dei fattori che rafforzano le fila dell’estremismo islamico anche nel nostro continente.

L’atroce repressione di questi giorni è una grave sconfitta per tutti coloro che credono si possa sovvertire la dinamica di confronto tra Israele e palestinesi. Questa dinamica, complice l’assedio e le prolungate invivibili condizioni umane nella Striscia, negli ultimi anni si è appiattita sullo scontro tra razzi artigianali e bombardamenti a tappeto. La Great Return March ha dimostrato che il popolo palestinese ha ancora il desiderio e la volontà di lottare anche in modo asimmetrico, creativo e mediatico anziché in modo esclusivamente militare. Tra i tanti motivi della scelta di questi mesi vi è anche la constatazione che lo scontro armato ha portato solo a sproporzionate punizioni collettive e all’isolamento progressivo sul piano internazionale.

Spero intensamente che il processo di legittimazione delle lotte per la popolazione di Gaza, attivato grazie alla Great Return March, non venga perduto. Sono però pure convinto che sarà molto difficile riuscire a condurre una campagna convincente che riporti speranza e determinazione dopo una repressione così sproporzionata e atroce. Il rischio del ragionare alla «tanto vale…» è forte.

È nostro compito continuare a sostenere gli sforzi della Great Return March: Giro di Italia in corso, che si presta alla possibilità di essere contestato, è un piccolo strumento, come la Campagna per il Boicottaggio e le sanzioni (BDS).

Infine è quanto mai necessaria un’opera di debunking strutturale della quantità di falsità e oscenità che vengono scritte dai giornali italiani in merito al conflitto. Nei giorni del “compleanno” dello stato israeliano si è ampiamente superato il limite della decenza.

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