MONDO

Palestina, esplode la tensione

La decisione di Trump di trasferire l’ambasciata statunitense a Gerusalemme sta scatenando, come da previsioni, un’ondata di proteste e di violenza repressiva in tutta la West Bank e su Gaza

Mentre scriviamo queste righe, si avvicina l’ora della preghiera del venerdì, al termine della quale è tradizione iniziare le manifestazioni di protesta in Palestina. Non sappiamo quale sarà il saldo dei feriti e degli arresti a fine di una giornata che si prospetta molto difficile.

Nel corso della giornata di ieri (giovedì 7) almeno 50 Palestinesi sono stati feriti durante cariche dell’esercito israeliano nei confronti di manifestazioni per lo più nonviolente e spontanee. Tra i feriti, molti colpiti da proiettili di gomma (in realtà d’acciaio, ricoperti da una pellicola di gomma) e almeno 9 colpiti da vere armi da fuoco.

Le proteste hanno avuto luogo nelle maggiori città, come Betlemme e Hebron, mentre importanti manifestazioni ci sono state anche nei villaggi che hanno una storia di resistenza significativa contro l’occupazione, come Nil’in, dove la repressione ha portato a feriti e arresti e invasione dell’intero villaggio, mentre stamane all’alba il villaggio di Kufr Qaddum è stato sigillato e isolato dall’esercito israeliano, per impedire la manifestazione in programma. Il leader del villaggio ha promesso che il corteo si terrà comunque.

Nel frattempo, a Gerusalemme Est vi sono state le prime proteste unite anche a gesti simbolici, come lo spegnimento delle luci attorno alla Cupola della Roccia, il maestoso edificio sulla spianata delle moschee. La polizia israeliana ha cominciato a fare perquisizioni preventive per le case, arrestando 17 palestinesi. In molti, in città, si domandano se la popolazione palestinese (il 37% degli abitanti) riuscirà ad organizzare forme di disobbedienza civile quali quelle messe in campo l’estate scorsa, quando l’esercito israeliano decise di porre dei metal detector all’ingresso della spianata delle moschee.

Tra Gaza e Israele, nel frattempo sono già stati lanciati i primi razzi nel corso della giornata di ieri.

Non possiamo dire se l’ondata di manifestazioni verrà fermata presto o se potrà aprire la strada ad un nuovo periodo di proteste significative o persino ad una nuova intifada generalizzata.

Vi sono molti fattori da tenere in considerazione, sia interni che esterni. È ben difficile che Abbas permetta un innalzamento del livello del conflitto interno, visto che ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo attuale, caratterizzato da bassa conflittualità, nessun cambiamento sul piano politico, e il mantenimento degli interessi politico-economici dell’élite palestinese di cui fa parte.

Un elemento in più però da considerare è il recente accordo che ANP ha concluso con Hamas, che secondo i documenti firmati, avrebbe lentamente portato ad una riunificazione “formale” della guida politica di West Bank e Gaza attraverso future elezioni parlamentari, le prime a svolgersi dal 2006. Tale guida politica è ovviamente formale nel senso che l’unica guida politica di entrambe le entità è lo stato occupante, Israele.

Hanyieh, leader di Hamas, ha già chiamato ad una nuova intifada i militanti del suo partito, e sarà difficile che possa permettersi la moderazione che invece sta caratterizzando la posizione dell’ANP fino ad ora.

Leggendo testimonianze di attivisti palestinesi di Gerusalemme Est si può notare lo sconforto e la rabbia. Jawad Siyam, che dirige il Wadi Hilweh Information Center a Silwan, ringrazia Trump per aver strappato la maschera:

«Come palestinesi, sappiamo tutti che il progetto israeliano non sarebbe mai nato negli ultimi cento anni se non fosse per i leader arabi che si sono piegati alla volontà del colonialismo occidentale, soprattutto l’Arabia Saudita [..] Sono loro che ci hanno venduto, Trump ha solo connesso i punti».

 

È difficile dargli torto, si può infatti notare che la reazione dei principali stati arabi è stata finora a dir poco tiepida, considerando quanto Gerusalemme significhi per tutto il mondo musulmano e quanto grave sia, per chi appartiene a quella religione, l’annessione unilaterale e definitiva della città ad uno stato che si professa “ebraico” e che è costruito attraverso forme strutturali di apartheid nei confronti della popolazione non-ebraica.  Sempre Siyam dice:

«L’ingiusta decisione politica obbliga la popolazione e la leadership palestinese a liberarsi dall’idea della guida statunitense al processo di pace. Il governo statunitense ha fomentato la più lunga occupazione dell’età moderna, una occupazione che colpisce i Palestinesi senza remore. L’ingiustizia cresce, ma assieme ad essa pure la volontà di sollevarsi».

 

Nel frattempo, l’Unione Europea vergognosamente tace. I leader europei spendono miliardi di euro di fondi pubblici per “proteggerci” dalla minaccia terroristica e poi sono incapaci di esprimersi davanti ad un fatto di per sé incendiario, capace di motivare ed alimentare potentemente per i prossimi anni l’estremismo islamico in tutto il mondo.

A Gerusalemme Est, ricordiamolo, i 305.000 palestinesi vivono una forma esplicita e immediata di apartheid. Sono considerati da Israele popolazione residente ma non “cittadina” e quindi priva di ogni diritto di cittadinanza all’interno del paese occupante. Al tempo stesso, l’ANP, che ha già poteri limitatissimi nei confronti dei palestinesi (non molto di più di quelli di un sindaco) non esercita nessun ruolo nei confronti della popolazione di Gerusalemme. Il trasferimento dell’ambasciata Usa significa, per gli abitanti della città, sancire la situazione attuale come definitiva, e quindi l’irreversibilità della loro privazione di diritti e di poteri, e questo è l’aspetto più umiliante della vicenda.

I prossimi giorni ci diranno se saranno in grado di ribellarsi all’ennesimo atto di ingiustizia, dopo 50 anni di occupazione militare, e se questo potrà modificare gli equilibri di potere (soprattutto internazionali) su questa vicenda.