DIRITTI

La mobilitazione con le/i migranti tra territorio e sfera transnazionale

Come immaginare nuove forme di organizzazione e cooperazione politica per essere all’altezza delle sfide poste dalle migrazioni.

Considerazioni generali

Il quadro nazionale ed internazionale che si va delineando rende oggi sempre più urgente collocare la tematica delle migrazioni e dei confini al centro della nostra agenda politica.

Sono innanzitutto le quotidiane insubordinazioni delle/dei migranti in Europa e lungo il suo perimetro e le battaglie politiche che stanno sorgendo intorno al tema dei confini e dell’accoglienza a sostanziare questa impellenza. Il faticoso tentativo di controllare i movimenti migratori verso l’Europa e al suo interno non sembra afferire a una strategia del tutto lineare e strategicamente strutturata. L’Unione e i suoi stati membri adottano di volta in volta strategie mirate “ricollocando” fuori dall’Europa i confini (vedi il caso dell’accordo con la Turchia ed i “memorandum” firmati con il governo libico), sigillando il perimetro con filo spinato, muri e presidi militari (questo è ciò che avviene in gran parte del fronte orientale) oppure, nell’impossibilità di bloccare gli approdi a causa della presenza del mare, istituendo e moltiplicando gabbie di segregazione e zone di “smistamento disciplinato” come gli “hotspot”, gli “Hub” e i vari campi sparsi sul territorio nazionale.

Quella di oggi è un’Europa disseminata da confini mobili e flessibili, un territorio violentemente segnato da trappole a cui migliaia di persone cercano di sfuggire ogni giorno.

Tutto questo è accompagnato dai continui processi di “clandestinizzazione” prodotti dalla violenta applicazione del Regolamento di Dublino che rappresenta il massimo esempio normativo orientato a limitare la libertà di movimento.

Al tentativo, mai definitivamente compiuto, di contenere e governare i movimenti migratori provenienti dal Medioriente e dall’Africa si aggiunge il frame culturale carico di ostilità, paura, odio e rancore che politici, media ed imprenditori morali strano infrastrutturando. Il razzismo ormai sempre più istituzionalizzato e normalizzato che serpeggia dal nord al sud dell’Europa giustifica una progressiva securizzazione delle politiche nazionali (e’ il popolo che ce lo chiede!!) e un inedito rafforzamento di partiti e movimenti xenofobi fascisti. Il Decreto Minniti rappresenta in questo senso un esempio emblematico della “simbiosi mortale” tra le strategie di controllo dei flussi migratori e quelle legate alla questione della sicurezza urbana.

Alla luce di questo quadro facciamo inizialmente alcune considerazioni di carattere generale per poi passare alla situazione che riguarda Padova e Provincia.

Pensiamo che un percorso che sappia parlare di libertà e autodeterminazione contestando muri, campi di segregazione e confini e che si ponga l’obiettivo altrettanto urgente di contrastare radicalmente le culture populiste e securitarie debba partire dai territori e dalla loro complessità mantenendo però, anche nel lavoro politico svolto a livello locale, una attitudine anti-sovranista e transnazionale.

Non si tratta di una postura ideologica, ma di una piuttosto semplice e banale constatazione del fatto che le migrazioni si presentano come fenomeni per natura eccedenti i confini nazionali e si manifestano come processi mobili, dinamici e spesso transitori che coinvolgono una moltitudine di soggetti che attraverso scelte e pratiche materiali tendono ad abbattere e sfondare muri e frontiere considerando quello europeo come spazio privilegiato di agibilità per portare avanti strategie singole e collettive di emancipazione.

L’assalto avvenuto a gennaio di centinaia di migranti al muro che circonda l’enclave spagnola di

Ceuta che ha permesso a circa 500 di loro di entrare nel territorio europeo è solo uno dei tanti episodi che ci mostra con forza questa capacità di rendere le frontiere porose e permeabili. Sono questi, insieme a molti altri, pratiche materiali di autonomia che non possono che essere al centro di ogni nostra considerazione politica.

Una seconda questione di carattere molto generale che ci preme sottolineare, e che si presenta allo stesso tempo cruciale e molto complessa, ha a che fare con la necessità di attivare quello che per noi deve essere un vero e proprio salto paradigmatico rispetto alle forme e ai metodi del fare politica su questo terreno.

Sono ad esempio le caratteristiche delle recenti mobilitazioni antirazziste (le mobilitazioni negli U.S.A. contro il “migrant ban”, il corteo di decine di migliaia di persone a Barcellona per l’accoglienza dei profughi, il corteo di Milano a cui ha partecipato una moltitudine di 100.000 persone ecc ) e le sempre innovative forme di resistenza e ribellione dei/delle migranti a indicarci la necessità di rivedere profondamente le nostre metodologie. Inoltre crediamo sia il ciclo di lotte globali femministe a presentarsi come punto di riferimento importante per una trasformazione radicale delle forme della nostra organizzazione politica, degli strumenti e delle metodologie da noi utilizzate, dei modi dello stare insieme e del fare cooperazione. Guardiamo ora un più in dettaglio alcune possibili implicazioni di queste brevissime considerazioni.

Ripartire dai soggetti

In primo luogo dobbiamo sforzarci di evitare posture caritatevoli e paternalistiche ripartendo sempre dai soggetti stessi, dalla loro sfera di autonomia e dalla molteplicità delle necessità e dei desideri di cui sono portatori. Parlare per conto delle/dei migranti interpretando ciò che vorrebbero per migliorare le loro condizioni attiva una pericolosa dinamica di inferiorizzazione alimentata oggi da molte organizzazioni internazionali, ma anche da associazioni e cooperative che si occupano di accoglienza nei territori.

Diventa dunque fondamentale attivarci per costruire spazi sociali e politici adeguati dove la loro voce abbia peso, autorevolezza e dignità politica. Non ci dobbiamo mobilitare per le/i migranti ma insieme a loro contro un sistema strutturale di soprusi e ingiustizie che riguarda l’intero tessuto delle nostre città e periferie. Se attraverso inchieste e costruzione di nuove relazioni e reti saremo in grado di attivare finalmente percorsi multiculturali e multietnici di mobilitazione partecipati attivamente da autoctoni e straniere/i allora anche la prospettiva di alzare definitivamente il nostro sguardo ed assumere una prospettiva europea diventa qualcosa di naturalmente immediato e praticabile.

Se al centro dei nuovi processi costituenti che attraversano e scuotono i nostri territori individuiamo la soggettività migrante con la pluralità delle storie di vita, di aspettative, di attitudini e di desideri che lo caratterizza e con la sua frequente tensione a sgretolare barriere e confini materiali e simbolici allora non possiamo che guardare a ogni ipotesi politica (anche di sinistra) animata dalle categorie di popolo e sovranità come ipotesi anacronistica e in fin dei conti impregnata di ignoranza e violenza. Alle ipotesi populiste di destra e di sinistra contrapponiamo senza ambiguità prospettive nuove di cooperazione e ricomposizione tra soggettività multiformi che si muovono come una moltitudine plurale.

Intersezionalità

La seconda questione s’intreccia strettamente con la prima ed è quella dell’intersezionalità delle lotte. Gli ingranaggi dello sfruttamento capitalistico e i suoi ancillari dispositivi di governance ruotano indissolubilmente intorno a un continuo intreccio delle linee di classe, di colore e di genere e non considerare questo può trasformare i nostri percorsi di lotta poco efficaci se non addirittura funzionali alle nostre controparti che siano esse ordoliberiste, socialdemocratiche o populiste. L’etero-normazione delle relazioni e degli affetti e la costruzione dei generi funzionale a forme di sfruttamento e di violenza sulle donne, la stigmatizzazione dello straniero e la produzione etnicizzata di nemici pubblici, la costruzione di muri e confini dentro e ai bordi dell’Europa e il controllo poliziesco dei movimenti migratori, le forme di segregazione in strutture come gli “hub” gli “hotspot” o nei nuovi C.P.R. voluti da Minniti, l’inaugurazione di una nuova stagione securitaria da parte di quest’ultimo con la concessione di maggiori poteri di controllo del territorio a sindaci e polizie locali, le riforme del lavoro e del welfare che puntano a normalizzare formalmente la precarietà azzerando la forza contrattuale dei lavoratori e delle lavoratrici, la diffusione sempre più visibile di meccanismi di speculazione e di procedure di estrazione di valore dalla cooperazione sociale ecc, sono tutte questioni che si articolano vicendevolmente e rimandano di continuo l’una all’altra.

Sarebbe in questo senso del tutto fuori luogo settorializzare rigidamente l’intervento sui processi migratori e sulle nuove ondate di xenofobia e populismo. Le forme di controllo messe in atto per neutralizzare le capillari resistenze delle/dei migranti e la loro potenza costituente sono intrise e animate da culture e procedure di controllo simultaneamente razziste, sessiste, patriarcali e padronali.

Non è difficile individuare ad esempio il largo utilizzo del dispositivo razziale nel mercato del lavoro (ad esempio le/i migranti trasformati in potenziale esercito di riserva o direttamente oggetto di condizioni di iper-sfruttamento), la costruzione sociale del nesso tra straniero e violenza sulle donne che spesso definisce queste come vittime da difendere dentro schemi patriarcali e ad alimentare populismi di varia natura, l’affermarsi della cosiddetta femminilizzazione del lavoro e la sua influenza sulle nuove forme di valorizzazione del capitale, un discorso ancora dominante che prevede che ciò che rimane del welfare debba essere connesso con lo schema della famiglia tradizionale e dunque preveda tendenzialmente un’esclusione di “outsiders” come le/i migranti e altre singole figure o gruppi sociali non convenzionali e via dicendo.

Crediamo in sintesi che una battaglia politica antirazzista e antipopulista attivata per la libertà, i diritti e l’autodeterminazione della soggettività migrante debba fin da subito presentarsi con una forte disponibilità metodologica e sostanziale a interagire e intrecciarsi con altri segmenti di lotta che oggi si manifestano in diversi ambiti nelle nostre città.

L’obiettivo di questa sfida è naturalmente quello di prospettare e agevolare forme inedite e sperimentali di ricomposizione politica moltitudinaria che siano all’altezza dei profondi cambiamenti che le nostre società stanno vivendo. Si può camminare nella direzione di questo tipo di orizzonte rivoluzionario soltanto rimettendo in discussione le attuali forme della militanza tuttora segnate da frequenti tentazioni identitarie ed autoreferenziali e sforzandoci di costruire nuovi e trasversali spazi di agibilità politica dove nuovi desideri, nuove rivendicazioni e nuove domande di trasformazione radicale del presente possano emergere, cooperare e costruire conflitto.

Anche qui inutile ribadire la nostra radicale ostilità verso chi, all’interno di un operazione estremamente pericolosa, agita la bandiera del popolo elaborando forzatamente ed artificialmente l’idea di una sorta di volontà generale che dovrebbe guidare le lotte future.

Le forme dell’organizzazione

Dal punto di vista metodologico una delle cose che emerge dal recente contesto di lotte femministe è l’avversione verso forme e stili di militanza dal carattere chiuso, autoreferenziale ed identitario e l’orientamento verso modelli aperti di cooperazione politica animati dalla continua contaminazione tra idee e progetti e da processi decisionali orizzontali e profondamente condivisi e partecipati. Questo strapparci a noi stessi, questo liberarci dalle formule di militanza che abbiamo adottato nel recente passato è un’operazione certamente difficile ed ambiziosa, ma l’unico modo per produrre un conflitto sociale allo stesso tempo radicale e non minoritario è mettere a disposizione le nostre analisi, i nostri discorsi e le nostre pratiche per la costituzione di spazi e reti di cooperazione ed autorganizzazione ampi, plurali, contaminanti, aperti e realmente partecipativi. Detto in estrema sintesi ci sono molti elementi per convincersi che il tempo dei soggetti politici nazionali e dei coordinamenti tra collettivi sembri tramontato. La sfida vera è quella di lasciare a casa sigle, loghi ed etichette e di immaginare l’organizzazione e la cooperazione politica intorno ai discorsi e ai saperi critici che produciamo e alle pratiche ribelli e solidali che mettiamo in campo.

Oltre all’attenzione a questa questione di carattere più strettamente metodologico dobbiamo mettere al centro un problema la qui soluzione non è più rimandabile e cioè quello della estrema frammentazione dell’universo di chi già da tempo, o più recentemente, sta attivando in tutta Italia inchieste, progetti di accoglienza e cittadinanza attiva e più in generale percorsi politici che hanno a che fare con la tematica delle migrazioni. Sarebbe necessario aprire un confronto collettivo orientato alla costituzione (sui territori e in prospettiva nazionale/transnazionale) di spazi comuni in grado di attivare molteplici dispositivi di ricomposizione e di “amplificazione collettiva” dei vari progetti e pratiche già in campo, orientati a destabilizzare, in termini propositivi e costituenti, la governance dei processi migratori e a combattere il populismo imperante.

Questa governance, pur nella sua frammentazione, si attiva comunque attraverso soluzioni e scelte collegate e in qualche modo coerenti tra di loro. Se l’obiettivo generale è contenere, ma soprattutto filtrare e governare la libertà di movimento, allora tutti i dispositivi di controllo, legislativi e non, vanno in questa direzione.

L’accordo europeo con la Turchia, i vari “memorandum” firmati con il governo libico, gli “hotspot” e i campi che si moltiplicano lungo i confini meridionali e settentrionali dell’Italia, l’attuale modello di accoglienza che vediamo nei territori ed il Decreto Minniti sono diversi tasselli di un progetto di massima orientato a colpire a vari livelli la libertà e l’autodeterminazione delle/dei migranti con l’obiettivo di neutralizzarne la capacità trasformativa e conflittuale. Per essere all’altezza di questo scenario diventa fondamentale non solo costruire immediatamente relazioni e forme di intervento e partecipazione politica insieme alle/ai migranti, ma anche intrecciare le esperienze che su questi terreni si stanno attivando dal nord al sud e intorno ai vari nodi a cui abbiamo appena brevemente fatto cenno. Ora chiudiamo presentando una fotografia della situazione padovana.

L’accoglienza dei richiedenti asilo a Padova e Provincia: andare oltre la “buona accoglienza”

Padova e Provincia rappresentano un caso particolare per quanto riguarda la realtà dell’accoglienza delle/dei richiedenti asilo per diverse ragioni. Innanzitutto possiamo guardare a un dato numerico che dice tutto sul predominio assoluto della soluzione emergenziale sulla regolare gestione pubblica prevista attraverso l’utilizzo degli S.P.R.A.R. (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Guardando ai dati più recenti vediamo come i circa 2600 richiedenti asilo presenti sul territorio sono quasi in toto ospitati dentro strutture emergenziali attivate dal bando prefettizio. Circa 1500 sono all’interno dei centri di accoglienza straordinaria (C.A.S.) di medie dimensioni e diffusi sul territorio, mentre gli altri sono letteralmente ammassati in uno dei 3 centri di prima accoglienza (C.P.A., altrimenti chiamati “hub”) presenti in veneto e cioè nella ex base militare di Bagnoli.

La drammatica situazione igienica e socio-sanitaria di questo campo è stata denunciata ripetutamente dagli ospiti anche con proteste e manifestazioni (l’ultima proprio nella giornata di ieri) e verificata faticosamente attraverso le poche visite di garanzia autorizzate grazie alla presenza di parlamentari. La diffusione di cibo scadente, la mancanza di vestiti adatti e di adeguati sistemi di riscaldamento, la carenza di servizio medico e di medicinali, il mal funzionamento dei servizi sanitari e il degrado delle camerate in cui i letti sono ammassati gli uni sopra gli altri, la mancanza di corsi di italiano e di supporto legale sono elementi che caratterizzano la normalità con cui le/i migranti di questo campo devono fare i conti ogni giorno. Questo vergognoso concentramento non produce solo gravi lesioni dei diritti minimi e della dignità dei soggetti ospitati, ma alimenta con forza le pulsioni xenofobe già presenti in modo latente in diverse parti del territorio padovano.

Concentrare infatti un numero così alto di persone a ridosso di paesi abitati da poche decine di autoctoni già esposti agli allarmi securitari agitati dai media e dalla classe politica non aiuta di certo ad arginare i populismi e a costruire prospettive future di accoglienza e convivenza radicalmente nuove.

Ricordiamo che questi centri sono previsti a norma di legge (D.Lgs. 142/2015) per ospitare le/i richiedenti asilo soltanto per il tempo strettamente necessario per procedere all’identificazione, formalizzare la domanda di asilo e rilevare particolari vulnerabilità nei soggetti che darebbero loro diritto a percorsi specifici di accoglienza (minori, vittime di tratta, donne incinte, persone con particolari problemi di salute, ecc.). La realtà dei fatti ci dice che le/i migranti rimangono in questa struttura durante tutto l’iter dell’accoglienza con un violento deterioramento delle loro condizioni generali di vita.

La pressoché totale indisponibilità dei sindaci ad attivare l’ordinaria accoglienza con la partecipazione ai bandi S.P.R.A.R. (A Padova e Provincia sono ospitate in questo circuito soltanto 170 persone quasi tutte già titolari dello status di rifugiato) dovuta in molti casi alla presenza sul territorio di amministrazioni razziste e xenofobe, presenta dunque quella emergenziale come unica soluzione presente. Se l’ospitalità nel grande centro di Bagnoli produce effetti devastanti sulle persone ospitate di cui abbiamo già parlato anche la situazione nelle strutture della cosiddetta accoglienza diffusa” rimane comunque problematica.

La mancanza di meccanismi di regolamentazione e di trasparenza sull’utilizzo dei fondi ricevuti (la rendicontazione è prevista infatti soltanto per gli S.P.R.A.R.) e l’assenza di dispositivi pubblici di controllo sul tipo e sulla qualità di programmi e interventi attivati nei confronti delle/dei richiedenti asilo (altro elemento invece fortemente presente nel sistema S.P.R.A.R.) delega completamente alla buona volontà” delle singole strutture la garanzia dei diritti e soprattutto l’implementazione dell’autonomia e dell’autodeterminazione dei/delle migranti.

Questo quadro, come si può facilmente immaginare, si presta fortemente non soltanto a vessazioni, soprusi e forme di segregazione vissute nei grandi centri, ma anche alla diffusione e al radicamento di approcci meramente assistenzialistici, caritatevoli e potenzialmente di natura neo-coloniale. Si tratta di un insieme di approcci e soluzioni frammentate di intervento che non solo non mettono al centro la libera scelta e l’autodeterminazione dei soggetti, ma intrappolano questi in una dimensione ricattatoria nella quale il prezzo da pagare per avere la fornitura dell’accoglienza è l’accettazione passiva ad aderire a modelli comportamentali imposti rigidamente.

Tutto ciò all’interno di processi di “infantilizzazione” orientati a costituire il migrante come figura strutturalmente subalterna. La pena per i comportamenti indisciplinati non è soltanto l’acuirsi di una già dilagante stigmatizzazione, ma la violenta erogazione di provvedimenti di “diffida” chiesti dalle cooperative (e automaticamente attivati dalle Prefetture) fino ad arrivare all’espulsione dai circuiti dell’accoglienza.

La questione lavorativa ci sembra in questo emblematica. Lo sfruttamento intensivo della forza lavoro migrante (sempre più considerati alla stregua di un esercito industriale di riserva), agito attraverso strategie ricattatorie più difficilmente applicabili agli autoctoni, si diffonde progressivamente anche nei circuiti dell’accoglienza, soprattutto di quella diffusa. Sono infatti numerosi gli esempi di forme di lavoro gratuito e indirettamente coatto svolte senza possibilità di scelta e senza prendere minimamente in considerazione i loro profili personali, la loro storia e le loro capacità e attitudini soggettive. Ciò di cui ci si approfitta spesso è la nozione di “lavori socialmente utili”, non a caso glorificata dal Decreto Minniti e che riesce a mettere tutti d’accordo, dalla sinistra di governo e di opposizione alla destra xenofoba, dalle associazioni cattoliche alle O.N.G. di varia natura.

Quello che ci chiediamo è: esattamente per chi sono utili questi lavori gratuiti? Indurre le/i migranti a spaccarsi la schiena arando campi incolti e abbandonati da decenni, pulire i servizi igienici e le aiuole nei centri urbani, dare dei supporti ad anziani e persone ammalate risponde a un duplice, infame, obiettivo. Quello di massimizzare i margini di profitto con l’utilizzo di lavori non pagati e quello, altrettanto insopportabile, di imporre nell’immaginario pubblico la percezione che il “migrante buono” è quello che non alza la voce, non protesta, non pretende e accetta di fare quello che gli viene detto di fare per saldare il debito con la società che lo accoglie.

I limiti e la problematicità dell’approccio emergenziale si riversano anche sull’iter burocratico e legale che le/i migranti devono affrontare in vista del giudizio della Commissione territoriale. Se le altissime percentuali dei dinieghi (Per il 2016 a Padova e Provincia si attestavano intorno al 70%) possono essere spiegate dalla particolare composizione della Commissione in un territorio a predominio leghista non dobbiamo sottovalutare gli effetti della carenza generale di informazioni, di tutela legale e di un minimo di preparazione giuridica che segna l’esperienza nella gran parte dei centri di accoglienza. La grave decisione del Ministro Minniti di annullare il grado di Appello nell’iter giuridico che esamina i dinieghi delle Commissioni rende ancora più iniqua una situazione già disseminata di ingiustizie e soprusi.

Risulta piuttosto evidente che quest’insieme di elementi che caratterizzano un articolato regime disciplinante rendono insufficiente la rivendicazione della “buona accoglienza” e che sia la stessa categoria di accoglienza a dover essere messa a critica perché intrinsecamente orientata a produrre una catena infinita di subalternità e sfruttamento intensivo.

Il generoso lavoro di singoli avvocati e operatori, alcuni progetti promossi da poche strutture virtuose come la formazione di equipe specializzate che forniscono informazione e formazione ai migranti e l’attività meritoria di alcuni gruppi e associazioni nel fornire supporto legale sono piccole brecce che si aprono in un contesto strutturalmente segnato da assenza di servizi adeguati e dunque sistematica negazione dei diritti.

La sfida allora, anche nel nostro contesto cittadino, diventa quella di mettere in rete idee saperi e proposte, connettere esperienze politiche differenti e intrecciare gli interventi sul campo per creare le condizioni per sperimentare in futuro forme di convergenza e cooperazione innovativa che sappiano attivare collettivamente le varie componenti della Padova solidale e antirazzista cancellando progressivamente le tracce di quei rassicuranti identitarismi così sterili e improduttivi.