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Il regno animale

Ambientata in un futuro distopico, la graphic novel di Emanuele Giacopetti “Il regno animale” (Bébert Edizioni) racconta la lotta per la sopravvivenza di un’umanità costretta alla migrazione perpetua

Ho appena riletto il mio primo albo a fumetti. Non ne avevo mai letto uno. Non conosco nulla del mondo del fumetto: case editrici, autori, storia delle pubblicazioni. Non capisco nulla del tratto impresso dalla matita. La compresenza di lettere e immagini mi lascia frastornato, chissà che non sia la forza propulsiva di questo genere narrativo, chissà che invece a furia di leggerne e guardarne uno non si rilassi e succeda dell’altro, come con la musica classica.

Alcune cose le so però. La prima è che il titolo non è allegorico, non si usa il regno animale per tracciare fili rossi o suggerire parallelismi con l’organizzazione degli stilemi comportamentali umani. È più un monito, un riferimento continuo a memorie arcaiche. Diciamo che gli animali sono i compagni del viaggio che tutti devono intraprendere; grilli parlanti meno carini che stimolano risorse sopite, ricordi sbiaditi, ma necessari, per vedere una nuova alba.

 

La neve è invece l’espediente attraverso il quale il disastro si concretizza. Leggendo non c’è bisogno di aspettare a lungo perché il dubbio di essere sull’orlo dell’apocalisse venga sostituito dalla certezza di esserci dentro. La neve non lascia spazio a sfumature o non detti, è ovunque e senza appello.

In questo momento di smarrimento condito da un pelo di disagio arrivano i riferimenti bibliografici: dall’Anabasi a Nuoto Revelli, da Senofonte a Schindler’s list, il mondo che prende forma tra le pagine non parla di un misterioso futuro, ma è circostanziato, preciso; è domani, quasi oggi.

Una volta stabilito dove sono, capisco perché non è necessario dilungarsi nel definire i come e i perché. Non serve disegnare più di qualche pagina per mettere in fila le ragioni che determinano la situazione attuale. Le ragioni del presente sono patrimonio collettivo, sono i nostri ultimi 30 anni. A questo punto son certo che continuerò a leggere, devo saper come andrà a finire, come finirò.

Mi unisco così al gregge che si prepara ad attraversare lo sconosciuto che fino a poco fa erano strade, ferrovie e porti, mosso come chiunque altro da voci e speranze, aggrappato alla menzogna che andarsene sia una mia scelta. La colonna delle persone che ho attorno si stringe muta, avanza lasciando alle spalle la casa dove non può restare. Le regole si riassumono nella sopravvivenza. Nello zaino quello che ho salvato da falò di fortuna, nella tasta quel che spero possa salvarmi, nella speranza di arrivare ad una nave che mi traghetti verso un’ansa del piano inclinato, verso Atlantide prima del vulcano.

A questo punto mi blocco. Smetto di leggere e penso agli zombie. Più in generale penso alle tendenze cinematografiche degli anni passati, allo spettro del disastro, della fine. Bruce Willis in Armageddon, la tempesta perfetta, la statua della libertà ghiacciata da uno tsunami. Mi rendo conto che la natura matrigna e il sovrannaturale costruiscono l’architettura dei miei incubi apocalittici, solo una piccola parte è dedicata al nucleare, nessuna alle malattie, alle carestie, ai genocidi.

Disperso in una nube d’ansia mi tuffo nella pagina, seguo me stesso negli incontri di un quotidiano stravolto. Armato cerco un appiglio dal quale issarmi e considerare la situazione, pianificare la prossima mossa, ma il tempo è dei filosofi e nella colonna niente dura più di mezza giornata. Si instaurano rapporti strumentali e diffidenti, nessun turno di veglia, la prossimità come unica consolazione, simulacro di organizzazione, velo dal quale filtrano chiari i raggi dell’abbandono alla morte.

Altri animali strisciano fra le nuvole dei pensieri, come flashback di una vita mai vissuta si sovrappongono alla quotidianità di quanti si muovono. La storia e la memoria della civiltà si sgretolano, sopravvivono balbuzienti allo stato di necessità. Il regno animale sono anche io, ma non di nuovo, da sempre. Niente scuse o giustificazioni, non più, finalmente.

Mi distraggo un attimo dalla lettura. Guardo fuori dalla finestra. Penso a un disegno dello stesso autore che una volta mi è capitato di vedere: le gru del porto di Genova, che è anche la mia città, se ne andavano. Enormi girae di metallo migravano verso l’ignoto, abbandonandomi qui, tutto d’un tratto. Capirete che è come se fossero il Colosseo o il campanile di San Marco ad andarsene. Il porto è per noi ciò che siamo stati de sempre, simboleggia la vita anche se con il carico di soerenze annesse.

Per questo motivo vedere tra le pagine il bombardamento di un porto mi scuote, mi fa sia paura che incazzare. Una sorta di anelito di rabbia campanilista del tipo: «Bene Tutto, ma proprio un porto dovevi far esplodere?». La risposta dovevo averla già intuita, è sì.