OPINIONI

Gli avvoltoi e Silvia Romano

Le reazioni alla liberazione della cooperante, rapita in Kenya nel 2018 e rientrata domenica nel nostro paese, rivelano uno dibattito sessista e retrogrado, da “eterno medioevo italiano”

Per Silvia, finalmente libera, ci sono vari discorsi che si intrecciano.
Il primo è, purtroppo, quello di genere che ci riporta all’eterno medioevo italiano sul tema. È una giovane donna, il cui corpo e le cui scelte possono essere offese, insultate, messe in piazza per un pubblico dibattito. E pochi ricordano che fu già molto insultata quando venne rapita. La sociologa Anna Simone raccolse scrupolosamente molti di quegli insulti per poi analizzarli. In nessun caso di rapimento di uomini si è mai scatenato un dibattito simile. Poi Silvia è caduta nel dimenticatoio, almeno per l’opinione pubblica. In molti abbiamo continuato a seguirne le vicende e a sperare che tornasse. Con la liberazione è ripartita la gara all’offesa. Di nuovo le sue scelte e il suo corpo sono diventati oggetto di dibattito e contestazioni. Il tutto aggravato dalla sua conversione all’Islam, atto considerato gravissimo. Tanto da considerarla una fiancheggiatrice dei terroristi che l’hanno rapita e da far considerare al prefetto di Milano la scorta per lei e la sua famiglia.

Orbene in Italia ci sono circa 2,6 milioni di musulmani, di cui il 44% sono cittadini italiani mentre gli altri migranti.

 

La libertà di religione è stata riconosciuta da tempo, la coesistenza di varie fedi un fatto. Silvia sarà libera nel tempo di praticare la confessione religiosa più vicina al suo sentire e alla sua vita. In Italia per fortuna lo può fare.

 

Il secondo elemento di cui poco si discute è la prigionia. Diciotto mesi detenuta in più luoghi. Trasferita da una comunità che considerava amica in Kenya a villaggi della Somalia, dove sicuramente è stata anche molto male viste le condizioni igienico sanitarie a cui non era abituata. Dove sicuramente la clausura, il cibo, l’acqua e la quotidianità hanno lavorato su di lei in modo costante e doloroso. Non sarebbe la prima persona che segue un percorso di conversione durante la prigionia. Senza andare molto lontano basta osservare le conversioni, a varie fedi, che si realizzano nelle carceri. Ma rimane l’elemento cruciale della detenzione e della sua vita posta di fronte all’incertezza di sopravvivere. E anche alle sue speranza tradite. La sua propensione verso l’alterità minata da chi l’ha rapita per mercanteggiare con il suo corpo.

Infine c’è l’eterno dibattito intorno ai rapimenti e alla politica italiana di pagare e riportare le persone a casa. Gli Stati Uniti non sono d’accordo perché di solito non pagano, ovvero dipende da quanto sia importante l’ostaggio. Se è un povero camionista può morire come accadde in Iraq. Se è una figlia della buona borghesia della West Coast si può trattare – e pagare -, come nel caso di un’altra giovane donna rapita anni fa sempre in Iraq.

 

In Italia ovviamente il dibattito si scatena quando ad essere liberata è una donna e con l’aggravante di essere una cooperante. Non quando sono liberati dei tecnici dell’Eni in Libia, dei marinai rapiti in Somalia o il giornalista Domenico Quirico, per cui secondo la rivista Foreign Policy furono pagati 4 milioni di euro.

 

E i cui attacchi poi ai fondamentalisti islamici lo portarono immediatamente dalla parte delle vittime da proteggere. Quando all’epoca del rapimento di Greta e Vanessa in Siria fu chiesto all’allora ministro degli esteri Gentiloni perché si fosse pagato lui rispose candidamente e cristianamente: dovevamo lasciarle morire? L’Italia cerca di non lasciare morire i propri cittadini a differenza di altri paesi. Tratta e salva vite umane e chiede aiuto ad alleati vari come i turchi, che chiederanno oggi o domani qualcosa in cambio. Dal rapimento di Simona Torretta e Simona Pari fu questa la scelta. Di fronte ad una vita salvata non si può troppo giudicare ma sicuramente l’errore del governo, in questo caso, è stato spettacolarizzare l’arrivo di Silvia. Si voleva dare un segno di speranza al paese, si è invece scatenata una polemica, squisitamente politica, sulla pelle della cooperante.

Tornando all’inizio di questa vicenda c’è sicuramente un elemento di fondo da considerare.

 

L’epoca della solidarietà internazionale, dell’aiuto che arriva dal “mondo ricco” verso il “mondo povero” attraverso volontari e volontarie, cooperanti, o strapagati funzionari Onu è da tempo finita.

 

L’ingenuità di un tempo non c’è più, le comunità dei paesi più svantaggiati hanno consapevolezza dei loro bisogni e delle loro aspirazioni. E sanno badare a se stessi senza bisogno del buon occidentale che li aiuti o spieghi cosa fare. In molti hanno ben presente il valore post-coloniale di alcune iniziative di aiuto umanitario o di sviluppo. L’Onu è screditata in molti paesi, anche a causa dei suoi funzionari, che danno lezioni senza conoscere i contesti. Le grosse Ong hanno apparati di sicurezza simili a quelli delle aziende. Le piccole e medie Ong o hanno una rete di relazioni molto profonde nei territori dove operano, e che li può proteggere, o sono del tutto in balia degli eventi. Anche quando si muovono con le migliori intenzioni. Se sono strutture fragili sono le prime ad essere esposte a rappresaglie, rapimenti, ritorsioni di ogni genere. C’è da muoversi con molta attenzione e tanta preparazione in questi contesti di conflitto. Silvia dà l’impressione di essere stata lasciata, con la sua buona volontà, su una frontiera. E’ salva ed è viva. Ne siamo felici ma è ora invece il momento in cui, se vuole, può scomparire ed è nostro dovere lasciarla ai suoi affetti e al tempo di recupero che riterrà opportuno. Dobbiamo sperare che gli avvoltoi che vogliono sfregiare il suo corpo la dimentichino in fretta, presi da altre tragedie da sfruttare e che lei ritrovi la strada di bellezza e coraggio che si stava costruendo 18 mesi fa.