MONDO

Gerusalemme: l’umanità in vendita

Gerusalemme Est, territorio occupato da Israele, e altre zone ebraiche vicine sono sotto totale controllo della polizia israeliana. Ogni persona che entra e che esce dalla città vecchia deve passare attraverso posti di blocco e perquisizioni. La manovra di sicurezza è stata decisa dal governo israeliano dopo la rivolta iniziata a ottobre, che ha visto Gerusalemme diventare il nucleo della cosiddetta “terza Intifada”.

Ad ogni porta della città vecchia di Gerusalemme ci sono postazioni militari. A Damascus Gate, Bab Al-Amud per i palestinesi, uno dei luoghi più frequentati dalla popolazione di Gerusalemme, almeno fino a qualche mese fa, i soldati impediscono ai giovani palestinesi di sedersi sulle assolate scalinate e passare lì qualche ora con gli amici. Vengono letteralmente cacciati e minacciati dagli M16 dei soldati, che usano come se fossero un prolungamento delle loro braccia. La giustificazione usata dalle forze israeliane è come sempre la sicurezza: se ci fosse un attacco questi ragazzi sarebbero in pericolo. Ma il pericolo si prova notando i cecchini sul tetto dell’edificio di fronte alla porta. Il mirino è su di te, danno un’occhiata da vicino, per vedere chi sei, per capire se puoi o non puoi essere un bersaglio, per poter avere più controllo possibile sulla tua vita. Non puoi mai sapere cosa stiano “difendendo”, hanno completa libertà d’azione e questi soldati sono spesso troppo giovani per poter gestire la paura e l’istinto.

Damascus Gate è oggi militarizzata, ci sono cecchini sui tetti e sulle mura della città vecchia, oltre al solito appostamento fuori e dentro la porta. Tutte le forze israeliane presenti a Gerusalemme sono lì per mantenere una sicurezza di facciata, diffondendo il panico e spingendo la popolazione di Gerusalemme al “coprifuoco”. Dopo le 19 Gerusalemme Est, e soprattutto la città vecchia, si svuota, i negozi chiudono prima del previsto e le strade si fanno buie e silenziose.

Il target sono i ragazzi giovani, che subiscono perquisizioni quotidianamente. Vengono umiliati, picchiati, spogliati e a volte uccisi nel bel mezzo della città, senza nessuna ragione o precedente, tutti sono sospettati, non c’è nessun criterio da seguire. Le perquisizioni avvengono in mezzo alla gente, nella città, spingendo questi ragazzi verso un sentimento di odio ed umiliazione, rendendoli vulnerabili alla rabbia e all’indignazione per quello che sono costretti a subire ogni giorno.

Oltre a dover sopportare l’arroganza e la violenza dei soldati, sono sottoposti anche alla brutalità dei coloni, i cui omicidi vengono spesso coperti dal governo israeliano, per poter far ricadere l’azione sull’esercito e giustificarla come difesa ai fini della sicurezza (la stampa israeliana usa il termine IDF -Israeli Defence Force-, quando pare più legittimo l’acronimo IOF – Israeli Occupation Force-).

Qui si sviluppa la figura dello shahid (martire), protagonista di questa nuova rivolta, soprattutto a Gerusalemme. Una figura che rappresenta la lotta individuale di un’intera generazione, che vede nella morte l’unico strumento per innalzare la bandiera della dignità e che vede nell’aldilà l’unica speranza di vittoria. Non a caso questo succede nella città contesa, nella città ormai quasi completamente distaccata dal resto della Cisgiordania, dove i palestinesi si sentono soli ed alienati, identificati da un documento di cittadinanza che non li rappresenta.

A ottobre, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che le nuove misure di sicurezza servono a fermare “coloro che cercano di uccidere e coloro che li sostengono”, ma la maggior parte delle volte quelli ad essere uccisi sono ragazzi e ragazze innocenti, civili, a cui vengono rifilate colpe e coltelli che non gli appartengono. Il loro “crimine” è quello di essere giovani palestinesi. La nuova generazione, che lotta per la propria dignità e il loro diritto alla vita, è un bersaglio della politica israeliana. Questi giovani vengono uccisi brutalmente, con infiniti colpi d’arma da fuoco, vengono lasciati a terra senza che nessuno li soccorra, lasciando scorrere il loro sangue per le vie della città santa, per fare di loro un esempio. Se si ribellano all’ingiustizia, c’è un soldato pronto a sparare. E non importa se sei un bambino, una madre o uno studente, loro sparano.

“Ancora oggi, ogni gerosolimitano dispone della sua personale formula per una salvezza istantanea. Tutti dicono di essere venuti a Gerusalemme (…) per costruirla ed esserne costruiti. In effetti alcuni di loro, ebrei, cristiani e musulmani, socialisti, anarchici, riformatori del mondo, sono venuti a Gerusalemme non tanto per costruirla, non tanto per esserne costruiti, piuttosto per venirvi crocifissi, per crocifiggere altri, o entrambe le cose” (Amos Oz, Contro il fanatismo).

Fino ad oggi le autorità israeliane e palestinesi si sono mostrate impotenti nel fermare la rivolta iniziata a ottobre. Questo è un movimento spontaneo, formato da giovani che si tengono in contatto attraverso i social network. Giovani frustrati dallo stallo dei dialoghi di pace, soffocati dal muro nella Cisgiordania, costretti a subire controlli senza fine, senza prospettive di lavoro, senza futuro. È la delusione e disillusione che indirizza la loro rabbia verso i soldati, ma anche verso gli israeliani, ebrei e sionisti. Il nemico è uno. Intanto a perdere la vita continuano ad essere i civili, da entrambe le parti.

L’articolo 1 della Convenzione Internazionale per l’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione Razziale definisce come discriminazione razziale “ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale o in ogni altro della vita pubblica.”

L’umiliazione e la violazione dei diritti umani, qui, non ha mai fine.

Un altro strumento di violenza usato dalla municipalità israeliana è quello destinato agli shahid (martiri) e alle loro famiglie. Spesso i corpi dei giovani martiri gerosolimitani vengono tenuti in custodia dal governo israeliano, tenuti nei freezer per mesi e non restituiti alla famiglia, e quando li restituiscono avviene durante la notte, senza nessun preavviso, i corpi sono in condizioni disumane. Questa procedura viene usata strategicamente per dare un chiaro esempio di punizione collettiva, per rendere la vita dei cittadini palestinesi a Gerusalemme sempre più insostenibile, per dare loro una buona ragione per andarsene.

Queste famiglie, oltre a piangere un figlio, un fratello, una sorella o un genitore, vedono le loro case distruggersi per mano dei bulldozer israeliani, si vedono costretti a lasciare le loro terre e forzati fisicamente e psicologicamente a spostarsi verso la Cisgiordania.

Tutto è concesso. Dall’inizio della rivolta ad ottobre, la Knesset sta approvando una serie di leggi che permette a soldati e coloni di adottare misure restrittive delle libertà fondamentali dei palestinesi, al fine del mantenimento della sicurezza d’Israele. Da ottobre 2015, con l’inizio di un nuovo ciclo di violenze che coinvolge la popolazione palestinese e le forze israeliane, la situazione a Gerusalemme Est è cambiata, facendo della città un teatro di scontri e ingiustizie, portando quasi al collasso la morale della popolazione e l’economia della città.

Il muro di separazione, costruito nel 2006, ostacola la circolazione, ostacola il movimento dentro e fuori Gerusalemme Est, la taglia fuori dal resto della Cisgiordania, dal suo entroterra naturale e ostacola l’accesso al suo mercato, ai servizi sanitari ed educativi per i gerosolimitani che vivono al di là del muro, sotto la giurisdizione dell’Autorità palestinese. La municipalità israeliana ha inoltre aumentato le tasse e 250 negozi palestinesi sono stati costretti a chiudere. Tale politica ha portato Gerusalemme Est a essere gradualmente distaccata dal resto dell’economia palestinese, nonostante la posizione storica della città e il suo ruolo centrale a livello commerciale, turistico, culturale e spirituale.

Non è permesso andare a Gerusalemme ai palestinesi che vivono in Cisgiordania, e questo impedisce loro di sostenere l’economia della città. Il governo israeliano ha anche proibito l’entrata di alcuni alimenti, come latticini, carne e derivati. I Palestinesi a Gerusalemme adesso possono usufruire esclusivamente dei prodotti israeliani, senza avere altra scelta.

L’economia di Gerusalemme Est, come la sua società, la cultura e il paesaggio, è modellata da fattori unici, causati dalla sua particolare esperienza di fronte all’occupazione israeliana e ai suoi insediamenti, che vanno ad infierire sullo sviluppo economico e culturale. Tale politica ha l’obiettivo di spingere la popolazione palestinese che vive a Gerusalemme a spostarsi e a lavorare fuori dalla città, incrementando il numero di insediamenti israeliani.

Questo quadro giuridico discriminatorio è completato da uno stato di emergenza rimasto in vigore dal 1948. Queste sono le basi che permettono la confisca dei beni palestinesi, l’”embargo” e atti disumani come la tortura, la detenzione amministrativa e le demolizioni punitive delle case, commessi in nome della “sicurezza”, il tutto in violazione del diritto internazionale.

Quale sarà il prossimo passo? Nessuno può saperlo, vige un certo senso di relatività in questa terra santa, e non solo.Oggi vediamo il mondo occidentale impegnato nel diffondere uno stato di terrore, per rendere noi comuni mortali vulnerabili alla paura dello straniero soprattutto se arabo, etichettato dalla stampa occidentale come sinonimo di mussulmano e quindi terrorista.

Le parole hanno un peso. Le parole hanno una forza che va al di là di etnie e confini, vanno al di là persino dei pregiudizi e delle convenzioni sociali che usiamo come difesa di fronte allo sconosciuto. Gerusalemme era l’emblema della convivenza pacifica tra popolazioni, etnie, culture e religioni diverse: la città cosmopolita per eccellenza nell’antichità. In un momento come questo, in cui la condivisione sta perdendo quota a livello globale, sta a noi usare le nostre menti libere per incontrarci di nuovo, come semplici esseri umani, senza cadere nel tranello dei pochi, che credono di poter controllare l’umanità impugnando l’arma del terrore.