OPINIONI

Il bando governativo per le carceri libiche va boicottato

Non basta disertare il bando del governo, bisogna attaccarlo. Per contrastare la strategia di scaricare sul Terzo Settore i danni della politica e per aprire un confronto su stanziamento e utilizzo dei fondi italiani ed europei.

Il 7 settembre il Vice Ministro degli Affari Esteri Mario Giro ha incontrato una delegazione di ONG: solo poche settimane prima si era consumata la gogna mediatica delle stesse, accusate di collusione con i trafficanti di esseri umani. Nonostante le successive smentite, le accuse sono riuscite nell’intento di creare un clima di inagibilità sociale per le ONG, che ha prima favorito l’approvazione del limitante “codice etico” per quelle operanti nel Mediterraneo in soccorso alle persone migranti e, successivamente, l’istituzione del blocco navale al largo delle coste libiche, con l’obiettivo di impedire ai natanti di raggiungere le coste italiane.

È in questa cornice che si colloca la proposta governativa alle ONG per il loro coinvolgimento in attività all’interno delle carceri per migranti in Libia, sancita dal bando promosso dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) che scadrà il 29 novembre.

Carceri, appunto, nonostante lo stesso bando utilizzi il più blando “centri migranti e rifugiati”, una terminologia che nasconde le condizioni disumane e gli abusi subiti dalle persone nei centri. Il bando cita i centri di Tarek al Sika, Tarek al Matar e Tajoura, ubicati nell’area di Tripoli perché considerata più sicura,. Tuttavia, poche righe sotto, afferma la mancanza di garanzie per la sicurezza del personale operante, impedendo la presenza in loco di quello italiano. La pericolosità è dovuta alla totale instabilità del contesto libico e, nello specifico, al controllo dei centri da parte di milizie che sono passate dal business del traffico di esseri umani a quello della loro detenzione.

Le responsabilità del governo italiano in merito al caos libico sono sotto gli occhi di chiunque, a partire dal “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione” dell’agosto 2008, che contribuì a sdoganare definitivamente Gheddafi – salvo poi cambiare idea tre anni dopo – e a fornire alla Libia formazione e mezzi per l’esternalizzazione delle frontiere italiane: è a quel periodo che risalgono le prime notizie sulle disumane condizioni delle carceri per migranti, all’epoca collocate per lo più nella parte meridionale del paese nordafricano. Si noti poi come l’area di Tripoli è sempre stata oggetto di maggiore attenzione italiana rispetto ad altre, tanto che le attività esplorative ed estrattive di ENI in quest’area sono rimaste pressoché inalterate nonostante il conflitto.

Lasciando l’analisi del contesto libico e delle responsabilità italiane a chi è realmente dentro la questione, in tale vicenda è importante soffermarsi sulla sempre maggiore politicizzazione dei programmi di finanziamento, in una direzione non certo favorevole alle realtà del Terzo Settore che operano nell’ottica della trasformazione sociale. Il bando dell’AICS si inserisce all’interno della cornice politica che ha portato alla creazione del Trust Fund, “strumento fuori dal controllo del Parlamento europeo con l’obiettivo di finanziare con rapidità iniziative per affrontare le cause profonde delle migrazioni irregolari”. Tante di queste iniziative vedono la collaborazione tra agenzie governative per la cooperazione e privati, nell’ottica di esternalizzare le frontiere europee: formazione delle forze di polizia dei paesi del Sahel, creazione di archivi informatici biometrici per favorire le espulsioni e rafforzamento dei confini sono solo alcuni dei progetti finanziati con fondi che, in origine, avevano tutt’altra destinazione di utilizzo.

La volontà di dirottare i fondi o scrivere linee guida progettuali con obiettivi sempre meno etici può essere ricollegata ai programmi di finanziamento dell’Unione Europea per l’istruzione e la formazione, tutt’altro settore ma simile mistificazione. Come tutti i programmi di finanziamento europei relativi al periodo 2014-2020, questi concepiscono la cooperazione sociale a livello locale e internazionale in un’ottica di occupabilità, accesso al capitale e sviluppo economico. Sempre sulla questione migratoria, ma questa volta in relazione al volontariato, nell’agosto 2016, fu resa pubblica la proposta del governo italiano di lanciare il Programma Odysseus, presentato al vertice di Ventotene fra i capi di governo di Italia, Francia e Germania. Il programma, sulla carta ostentato come Servizio Civile Europeo, è stato presentato sul ponte di una nave militare: un biglietto da visita non certo incoraggiante. A una prima lettura, l’approccio ricalca in ottica transnazionale dinamiche già sperimentate in Italia: nello specifico, si promuove la pratica del “volontariato” (leggasi: lavoro non retribuito o sottopagato) per affrontare le contemporanee sfide europee, in particolare l’accoglienza e l’inclusione sociale delle persone migranti.

Il bando AICS sulla Libia non si configura quindi come una novità assoluta, ma opera in continuità con la volontà politica di scaricare sul Terzo Settore le conseguenze delle efferate politiche nazionali ed europee in materia di lavoro, formazione, ricerca, migrazione e inclusione sociale delle fasce più marginalizzate.

È infine aggravato dalla mancata presa in carico della responsabilità politica in merito alle condizioni delle persone migranti sul territorio libico. Le prime righe del bando descrivono la cronologia degli eventi in Libia a partire dalla destituzione di Gheddafi, arrivando, come se fossimo in presenza di un evento naturale, alla Libia come “principale punto di partenza per i flussi migratori misti che attraversano la cosiddetta Rotta del Mediterraneo Centrale […] per cui la popolazione migrante, rifugiata e richiedente asilo deve far fronte a significativi bisogni a livello umanitario e di protezione” ( Bando AICS sulla Libia, pag.4).

Le domande che vogliamo porre sono le seguenti: di chi è la responsabilità per cui la Libia è divenuta una prigione a cielo aperto per persone migranti? Chi risponderà delle violenze da loro subite per mano delle milizie che controllano i centri? Quale certezza abbiamo che i fondi governativi non cadano – in forma di denaro o beni materiali – nelle mani delle milizie?

L’appello scritto da Alessandro Leogrande (oggi improvvisamente venuto a mancare), Igiaba Scego, Andrea Segre e Dagmawi Yimer chiede alle ONG di non partecipare al bando AICS sulla Libia. Non possiamo che essere d’accordo con loro. Il verbo che invitiamo ad utilizzare è però un altro: boicottare. Utilizzare il termine “boicottaggio” riporta la questione all’interno del suo contesto, quello in cui si incontrano etica e politica. Speriamo che tante realtà del Terzo Settore raccolgano questo invito, in primis con l’obiettivo di aprire spazi di discussione sul nostro ruolo in relazione alle istituzioni e sulla reale pressione che dovremmo esercitare verso queste. Questi spazi dovrebbero poi servire ad alimentare il confronto sullo stanziamento dei fondi italiani ed europei e sul loro utilizzo, affinché non diventino uno strumento di lavaggio di coscienza dei governi e non rafforzino meccanismi di dipendenza, al fine di significare nuovamente la cooperazione internazionale come strumento di trasformazione sociale.

L’autore è membro e attivista dell’organizzazione non governativa SCI, Servizio Civile Internazionale.