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OPINIONI

La finestra di opportunità

Di fronte a una dolorosissima «transizione egemonica», e a una catastrofe ormai cronica, vale la pena porsi una domanda: è possibile che si apra una finestra di opportunità per farla finita con il regime economico e politico che la catastrofe in questione quotidianamente impone e riproduce?

L’avrebbe sfruttata l’Isis, proprio ora, contro Mosca, contro Putin appena rieletto. Centinaia di morti e feriti. L’hanno sfruttata Hamas e Netanyahu, il 7 ottobre e dopo il 7 ottobre. Per far saltare gli Accordi di Abramo, Hamas; per procedere col genocidio della popolazione palestinese e zittire le mobilitazioni israeliane contro di lui, Netanyahu. L’ha sfruttata Putin, dopo la scomposta fuga americana ed europea dall’Afghanistan, invadendo l’Ucraina. L’hanno sfruttata gli Stati Uniti e il Regno Unito, la Francia e la Turchia, durante e dopo le Primavere arabe, per destabilizzare Nord Africa e Medio Oriente. E così via. Si chiamano «finestre di opportunità».

Nel rischio del regresso all’infinito, si cela e si illumina al contempo la catastrofe della «guerra mondiale a pezzi», di quella, “tutta intera”, che si avvicina a passi veloci: di destabilizzazione in destabilizzazione, l’escalation è l’unica certezza che abbiamo.

Non si tratta di pessimismo, ma di realismo. Dal 24 febbraio del 2022, sosteniamo (su DINAMO e non solo) che l’economia di guerra sarebbe diventata la sciagura del nostro tempo; siamo così giunti alle affermazioni di Charles Michel, rispetto al quale ha scritto righe definitive Domenico Quirico («Charles Michel, con la zimarra addirittura di presidente europeo e l’aria di uno che va al mercato con la sporta sotto il braccio per scegliere carne e fagioli, si stropiccia le mani, con certezza da apostolo e finezza di innamorato, per l’economia di guerra prossima ventura»), in uno dei suoi acuminati articoli per “La Stampa” (23.03). Armiamoci, e partite – voi giovani, voi poveracci, voi senza alternative, ecc.

Chi scrive, da tempo pensa che una delle verità importanti sulla nostra epoca sia stata proposta da un volume degli anni Novanta da poco ripubblicato con la bella introduzione di Sandro Mezzadra: si tratta di Caos e governo del mondo di Giovanni Arrighi e Beverly J. Silver. Siamo nel mezzo della crisi egemonica americana, nel mezzo di una «transizione egemonica» dolorosissima che, al momento, non vede emergere soluzioni. La decisione americana, nella crisi, è maledettamente nota da un ventennio: dalle operazioni di polizia internazionale dei Novanta alla guerra globale permanente contro gli «Stati canaglia», dall’autunno del 2001 in poi. Guerra, quest’ultima, il cui obiettivo è parso da subito non tanto e quasi mai la vittoria, quanto, piuttosto, la distruzione priva di sbocchi politici. Attraverso l’intervento diretto, dall’Afghanistan alla Siria, o per procura, come sta accadendo in Ucraina e forse accadrà tra non molto a Taiwan.

La destabilizzazione senza fine genera orrore che si aggiunge a orrore: terrorismo, fondamentalismo; ma anche autoritarismo, nuovi fascismi. Le «canaglie», gli sconfitti, i falliti, gli impotenti, cercano tutti un vendicatore, si chiami Hamas o Isis, Putin o Modi, Trump o Netanyahu, Le Pen o Meloni.

Fenomeni assai diversi, intendiamoci. Tanto che il terrorismo jihadista colpisce ovunque, Stati Uniti e Russia compresi. Ma il problema è sempre lo stesso: accumulare l’umanità nei campi profughi, nel declassamento e nella povertà, nella disperazione, rompere ovunque i legami, estirpare in modo sistematico misericordia e solidarietà: tutto ciò produce mostri che producono mostri, e così via, all’infinito.

Nessun principio di indeterminazione, non è il trionfo del caso; no, il capitalismo senza freni, nella transizione egemonica o, per usare espressioni ora in voga, nel «multipolarismo competitivo», non può che determinare caos e distruzione, guerra mondiale e guerra civile.

Ci troviamo più precisamente immersi in un mondo dove determinismo e incertezza, ordine e caos, divengono, tragicamente, la stessa cosa: si produce ordine destabilizzando, si determina comando sulla forza-lavoro e le popolazioni (in movimento) aumentando l’incertezza (economica, climatica, esistenziale, ecc.). Se l’escalation, infatti, è l’unica vera certezza che abbiamo, tempi e parte degli attori della guerra mondiale a tutto campo sono imprevedibili. E questo perché, più l’escalation avanza spedita, più si aprono finestre di opportunità: quale sarà la prossima, che ancora non intravediamo, e chi si sta già organizzando per farne un uso sanguinario?

Senza nulla togliere al realismo che ci mette di fronte, senza infingimenti, la catastrofe in corso e in via di peggioramento, vale la pena porsi anche (e soprattutto) una domanda ulteriore: possibile che, in questo scenario, si apra una finestra di opportunità per farla finita con il regime economico e politico che la catastrofe in questione quotidianamente impone e riproduce?

Il problema è vecchio di oltre un secolo, accompagna la transizione egemonica dall’impero britannico a quello americano, l’imperialismo e le due guerre mondiali. Rispose alla domanda, innovando la politica rivoluzionaria, Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin: «trasformare la guerra imperialista in guerra civile», l’indicazione. Ecco allora che, impietosi, si affollano gli intoppi: la minaccia della guerra mondiale, mentre una «guerra mondiale a pezzi» si compie, sollecita paura e rimozione, disorientamento e paralisi, angosce notturne e disimpegno; la militarizzazione della società non è, o quanto meno non è ancora ovunque, coscrizione obbligatoria e chance per fondare i soviet dei soldati; la guerra civile qualcuno la sta preparando davvero, radicalizzando quella che da tempo il neoliberalismo combatte contro giovani e donne, precari e migranti, e si tratta della destra populista, dell’establishment reazionario, dei miliardari strafatti di ketamina; le armi – quelle vere, non vetrine rotte e sassate, o spintoni nelle università – non hanno quasi più nulla a che fare con i comportamenti di massa, con la militanza antagonista, con le molteplici forme dell’attivismo politico radicale.

La società civile, le opinioni pubbliche europee e occidentali, sono largamente pacifiste, per il cessate il fuoco e il disarmo, e questo è il problema principale delle classi dirigenti guerrafondaie. Ma è vero altrettanto che sono disarmate, che i movimenti degli anni zero non hanno fermato le guerre di Bush, nonostante cento milioni e più di donne e uomini in piazza nel mondo tutto (primavera del 2003). Criticando Junius (Rosa Luxemburg) tra il 1916 e il 1917, Lenin non ha dubbi: «il “disarmo” è appunto la fuga davanti alla triste realtà e niente affatto la lotta contro di essa». Dati gli intoppi prima elencati, noi di dubbi non possiamo che averne molti. E però il problema rimane.

Rendere la pace, e il pacifismo, efficaci contro la guerra; disertare la guerra, letteralmente, e così facendo voltare pagina rispetto al capitalismo: questa, è la sfida politica del nostro tempo.

Se questa è la sfida, la strada da percorrere è in salita. Non basta augurarsi che il trauma bellico acceleri fenomeni insurrezionali; non vi è alcuna certezza, vista la frammentazione che domina la società del nostro tempo, che il trauma cospiri contro il libero mercato e il patriottismo razzista, anzi. E però sarebbe del tutto sbagliato cedere alla depressione: l’indisponibilità a morire in guerra dei più è la base, affettiva e per questo materiale, solida, dalla quale partire. Proviamo dunque a individuare un programma minimo di lotta, prima che il trauma sanguinario sia già dispiegato e, soprattutto, affinché non si dispieghi: combattere la rimozione collettiva, mettendo ovunque la guerra al centro della pratica politica, culturale, artistica; scioperare la guerra, ovvero combattere l’economia e il keynesismo di guerra che puntano a fare in pezzi sanità, istruzione e previdenza pubbliche; disertare “lo scontro di civiltà”, rilanciando sindacalizzazione e conflitto per il salario e per diritti sociali universali; combattere ovunque frammentazione e isolamento, allargando le maglie del mutualismo e della socialità alternativa; riconquistare nessi politici e sindacali europei e transnazionali, contrapponendo all’Europa di Charles Michel e della NATO, della leva obbligatoria e della legge marziale, focolai democratici e insubordinazione di massa.

Immagine di copertina da Daniel su Unsplash