ROMA

“Una grande rabbia e un immenso amore”: intervista a Stefania Zuccari

A quindici anni dall’omicidio, sul litorale romano, del Renato Biagetti, abbiamo incontrato la mamma Stefania per una lunga chiacchierata su antifascismo, memoria e Roma, a partire dalle iniziative del festival Renoize e dal lavoro del Comitato Madri per Roma Città Aperta

In un caldo pomeriggio di fine estate Stefania Zuccari ci accoglie a casa sua. Sta preparando il caffè per alcuni operai che lavorano in terrazza e ce ne offre una tazza. «È più di un mese che vanno avanti e ne avranno ancora altrettanto: è pesante. Soprattutto in questi giorni. È successo in questo periodo. E il dolore di una madre è sempre uguale. È cambiata solo una cosa rispetto a quell’anno: non c’è più la telefonata. Solo quello».

L’anno a cui fa riferimento è il 2006: quel 27 agosto, a Focene, due neo-fascisti uccidono a coltellate il giovane Renato Biagetti, secondo figlio di Stefania. Da allora la madre, i compagni e le compagne di Roma lo ricordano con Renoize, il festival a Parco Schuster che, quest’anno, per il quindicesimo anniversario della morte, dura ben tre giorni: da oggi, venerdì 3, fino a domenica 5.

Foto Nicolò Arpinati

Ma, oltre a Renoize, Stefania porta avanti gli ideali e le lotte di Renato, anche con il Comitato Madri per Roma Città Aperta: fondato pochi mesi dopo la morte del figlio, il Comitato gira l’Italia e il mondo intero, raccontando che di fascismo si continua a morire. Quest’estate, per esempio, è salito sul palco del ventennale di Genova e proprio Stefania ha tenuto un discorso tanto emozionato ed emozionante quanto potente: «Genova per noi non è mai finita. Sapevamo di avere ragione, lo abbiamo pagato con il sangue, con l’uccisione di Carlo, con la peggiore repressione […]. Noi, i nostri figli, eravamo venuti con un mondo di sogni di verità, di uguaglianza e di giustizia: tante realtà diverse, unite in un unico collante e vi abbiamo fatto paura. Come madri e come donne non vi perdoneremo mai, quel sangue che ha bagnato il selciato, quel sangue a piazza Alimonda, alla Diaz, a Bolzaneto, era il nostro stesso sangue. Rigettiamo la vostra eredità, noi abbiamo la nostra. Quel sangue, inchinandoci lo abbiamo raccolto, lo abbiamo bevuto e ripartorito. Altri figli abbiamo perso per il vostro fascismo e sempre diremo no al vostro sistema».

Davanti a una foto di Renato sorridente con la fidanzata Laura, scattata proprio pochi giorni prima delle otto coltellate, abbiamo parlato con Stefania di tutti questi anniversari importanti, di Roma e del valore della memoria.

Un attivista, un appassionato di musica, un tecnico del suono: chi era Renato?

Renato era un ragazzo sempre allegro, molto gioioso, espansivo di natura, molto aperto, sempre sorridente. Faceva la sua vita come la fanno tutti i ragazzi: è andato a scuola, ha fatto il liceo, dopo si è iscritto all’università. Tra una birra e una canna, perché Renato si faceva qualche canna e mi diceva «Mamma, dai, farebbe bene anche a te», si è laureato. Era un compagno, uno dei centri sociali: io dico sempre che forse era abbastanza riconoscibile per le magliette che portava, con le varie scritte, coi pantaloni in una certa maniera, larghi, che scendevano.

Però Renato non conosceva la strada: proprio per la sua mentalità e il suo animo non avrebbe mai preso nulla per poter usare violenza contro qualcun altro, era proprio contro la sua natura. A volte gli chiedevo «Perché odi il carcere?», come diceva una sua maglietta. Allora via con tutti i discorsi sulla giustizia che non era giusta. Come madre, anche io ho imparato molto dai miei figli: alcuni concetti me li facevo spiegare da loro e mi dicevano «Ma vieni dagli anni settanta e questo ti sembra un concetto strano?». C’era un dialogo insomma.

Però io mai mi sarei immaginata una cosa del genere. Potevo pensare a tutto, ma non a questo. Come dice Haidi: abbiamo sottovalutato che di fascismo si muore. Noi, che veniamo dagli anni Settanta, anni che hanno marcato una storia, evidenziato un percorso, non ci pensavamo più. Non potevamo immaginare che i nostri figli potessero essere uccisi da una mano e una ideologia fascista.

Subito dopo la sua morte, con i suoi compagni e le sue compagne, avete deciso di ricordarlo con i concerti di Renoize.


Del festival si occupano i ragazzi e le ragazze: anche il fratello di Renato, Dario, lui si fa tre giorni di banchetto con il vino. Noi Madri seguiamo il festival lateralmente. Però ti posso dire una cosa: questi concerti, che vengono fatti da ormai quattordici anni, li ho voluti io. Forse in quel momento, tanti mi guardarono molto straniti perché dissi che non volevo manifestazioni. Forse anche Dario mi guardò allibito. Ma io dissi che volevo la musica. Dissi che con la musica dovevano fare politica, con la musica dovevano ricordare politicamente Renato: nella mia mente la musica doveva essere un fattore aggregante. Solo così doveva essere ricordato Renato, perché lui era principalmente era gioia di vivere e musica.

I funerali di Renato Biagetti al centro sociale Acrobax, 1 settembre 2006. Foto di Simona Granati

Renato si era laureato in ingegneria della robotica con specializzazione del suono: Renoize è un marchio ha registrato lui, ricordo perfettamente quando lo disegnò. Renato aveva capito una cosa: non bastava aver preso una laurea per fare quello che voleva lui, lui voleva mettere le mani dentro le casse, dentro la strumentazione. In Italia c’erano solo due professori validi nel campo, uno a Milano e uno a Roma: tramite forse il fratello e un’amica riuscì ad arrivare a quest’ultimo. Dopo un rifiuto iniziale, per alcune brutte esperienze con gente nel laboratorio, lo richiamò. Si era fatto lasciare il numero perché gli erano rimasti impressi gli occhi e il sorriso di Renato, mi ha detto più avanti. Quindi Renato per un paio di anni andava sempre da lui, aveva le chiavi del laboratorio. Renato aveva imparato dove mettere le mani materialmente, non solo fare un progetto, ma realizzarlo. Infatti poi è stata fatta anche la sala prove e incisioni, ma anche quella era una fissa di Renato. Una fissa di Renato e Antonio, il ragazzo che morì poco prima di lui e che fu salutato ad Acrobax. Renato mi disse che era stato molto toccante il saluto per Antonio e allora la stessa cosa feci fare per lui.

Vent’anni da Genova e quindici dall’omicidio di Renato: un 2021 ricco di anniversari.


A Genova ho sentito tutto il peso degli anni, lo ammetto. Il 27 agosto invece a Focene, vedendo tutti quei bambini, ho avuto la certezza che i compagni e le compagne rappresentano l’oggi, ma il futuro è già scritto, è già scritto nei loro figli. Ci sono voluti quindici anni per dire con certezza che non finirà mai, che il testimone passerà sempre.

Una nostra compagna che purtroppo non c’è più, Paola Staccioli che ha fondato la Rossa Primavera, ha voluto mettere nell’archivio storico della fondazione sia Renato sia, come ultima cosa, tutto ciò che riguarda il Comitato. Questo è stato il suo ultimo regalo. Perché il nostro lavoro come Comitato è sorretto da una grande rabbia sì, ma anche da un immenso amore: perché soltanto con questo immenso amore si può accettare che un atto così brutale, così violento, così mostruoso, possa aver chiuso una bocca. Ma non le idee: le idee devono seguitare a esserci, la parola deve seguitare a essere usata. E i nostri figli, i nostri ideali, quello che noi abbiamo trasmesso a loro e quello che loro poi hanno portato avanti, non possono cessare e non possono terminare.

Le Madri a piazza Alimonda, Genova 2021

Parliamo un po’ del Comitato.


Erano passati sei o sette mesi dall’uccisione di Renato e continuavano quelle porcate scritte sui giornali di una rissa tra balordi, tanto che mi vidi costretta a scrivere prima a “Repubblica” e poi al giudice: in occasione di un sit-in in piazza dell’Esquilino, io ero completamente presa da un vortice di follia, da questo dolore così disperato, camminavo e parlavo da sola. Mi ripetevo che si può togliere la fisicità, ma non si possono uccidere le idee. Mi si avvicinò un giornalista e, dopo avermi ascoltato, mi disse tre parole: «Ritorno con vita». Mi vennero subito in mente le Madri di Plaza de Mayo.

Il giorno dopo mi sono messa in cerca. Ho fatto un comitato tutto al femminile: le prime erano tutte madri di compagni e compagne, da Acrobax al Laurentino 38. Poi però si è espanso notevolmente questo comitato: sono arrivate Nicoletta dalla Valsusa, Franca di Venaus, Haidi, la madre di Carlo Giuliani, Rosa, la madre di Dax… Adesso piano piano stiamo facendo entrare le più giovani perché abbiamo capito che è pesante e ci vogliono forze nuove. Il peso è notevole, anche se andiamo da tutte le parti: ci ha solo fermato solo la pandemia. L’ultimo viaggio era stato in Palestina: abbiamo fondato una scuola di danza terapeutica a Ramallah per bambini con forti traumi e allora siamo andate a vederla. Abbiamo deciso noi tutte donne di una certa età che saremmo andate in Palestina e Cisgiordania e l’abbiamo fatto. Aiutiamo anche l’Aida Camp a Betlemme. Di cose ne facciamo ancora tante, ma la situazione mondiale si è stravolta, fare una progettualità è difficile. Siamo andate a Genova, abbiamo anche sostenuto e finanziato una delle borse di studio per ricordare Carlo.

Sono quattordici anni che camminiamo insieme e abbiamo costruito relazioni. Con le Madri per il libero dissenso di Torino, donne eccezionali: spesso saliamo sui palchi insieme, anche a Genova. Ma siamo anche internazionaliste: abbiamo fatto di tutto quando si poteva. Abbiamo collaborato con la mamma di Clement, ucciso a Parigi, e con quella di Carlos di Madrid. Abbiamo fatto un Comitato internazionalista, ci siamo collegate anche con le madri di Plaza de Mayo. È stato emozionante quando siamo andate in Argentina: arrivammo proprio di giovedì, neanche il tempo di posare la valigie in albergo ché già dovevamo correre a Plaza de Mayo, dopo dodici ore di volo. Prendiamo lo striscione e quando arriviamo là ci fanno aprire il corteo: è stata una cosa che ti ruba il cuore.

È un Comitato di donne con una grande capacità di amare e sostenere. Perché riusciamo a trasformare tutto, non sono solo viaggi di dolore: diventano anche viaggi di grande allegria, viaggi di risate, bevute, chiacchiere, qualche canna (ormai hanno imparato anche le madri). Abbiamo fatto tanto, abbiamo lavorato tanto. Quest’anno siamo tornate in Valsusa, ma oltre non so se riusciremo considerata la situazione mondiale.

Il ricordo di Renato Biagetti sulla spiaggia di Focene (foto dall’archivio DINAMOpress)

In un’intervista a RomaToday del 2014, dicevate che le vostre speranze di madri antifasciste erano state disattese. A sette anni di distanza, è cambiato qualcosa?


Il nulla. Il vuoto. Totale. Molto rispetto, vorrei vedere non ci fosse nemmeno quello, ma noi siamo madri scomode, anche perché madri sostenitrici di figli e figlie scomode. Noi siamo cagne sciolte, non siamo legate a nessun partito. Noi non riconosciamo il sistema. Quando Renato fu ucciso, a Roma c’era la sinistra di Veltroni, un sindaco che ha parlato di equidistanza. Io non lo potrò mai dimenticare, una cosa ignobile.

Invece i fascisti Renato se lo sono sempre rivendicato nella maniera più becera e lo hanno sempre offeso: a partire da quando, dopo l’omicidio, a un paio di km da casa mia, c’era scritto «Acrobax uno in meno». Hanno anche accoltellato Fabio, tredici anni fa, proprio dopo i concerti di Renoize.

Mantenere questo comitato, portare avanti questa memoria, non è stata una passeggiata. La maggior parte di noi abita in questo Municipio, ma neanche ci invitano. Eppure hanno un morto fresco e donne di questo quartiere che si sono messe a lavorare sulla memoria e l’antifascismo. Noi facciamo tutto un lavoro sulle Fosse Ardeatine, un lavoro enorme di ricostruzione, eppure niente. Anche nelle scuole, nelle università ci siamo sempre andate con le nostre forze, con i nostri mezzi.

Io quello che vorrei per Roma è lo stesso che vorrei per tutto il mondo. Io mi ricordo la Roma dei palazzinari: tutti i brindisi che si sono fatti. Forse adesso gli interessi si sono spostati, questo non lo so, ma sono molto inquieta.