MONDO

Un tentativo di verità

Un nuovo racconto dagli attivisti italiani che si trovano alle porte di Kobane, che decostruiscono le narrazioni mediatiche dando voce direttamante alla resistenza di curda.

Oggi è stata innegabilmente la giornata più difficile in assoluto, dal nostro arrivo a Suruç-Kobane. Abbiamo riscritto questo report più e più volte, cercando di provare ad essere esaustivi, non banali e a smentire, per quello che possiamo, le tante inesattezze che stanno raccontando i media main stream internazionali.

Che il clima fosse cambiato e che gli eventi stessero rapidamente precipitando lo abbiamo capito fin da questa mattina, quando un signore anziano si è presentato nel Nobet dove abbiamo passato le ultime notti, stringendo tra le mani la foto di un giovane guerrigliero di cui da giorni non riesce ad avere notizie. E’ sparito a Kobane.

Avrete notato tutti che ieri, dopo lunghi giorni di omertoso silenzio, Kobane è ricomparsa sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo e non per raccontare onestamente quello che sta succedendo, quanto e come i partigiani sono riusciti ad avanzare a colpi di imboscate notturne e di guerriglia che sono costate all’ISIS 74 perdite solo nell’ultimo giorno.

Neppure per ricostruire le tappe di questa irriducibile resistenza che, come si dice spesso da queste parti, è resistenza contro l’ISIS ma è soprattutto resistenza per l’umanità.

Neppure per denunciare i cinquecento arresti tra Dyarbakir, Ankara e Isanbul alle manifestazioni in sostegno della resistenza curda.

No. I giornali e i telegiornali si sono ricordati di Kobane quando hanno dovuto raccontare, falsando profondamente la realtà, l’intromissione degli americani e l’ingresso dei fantomatici peshmerga sulla scena del conflitto.

Ne è emersa una narrazione retorica ed entusiasta che, soprattutto nelle ultime ore, non corrisponde affatto alla realtà.

Proviamo a fare un po’ di ordine e a ricostruire, per quanto possibile, cosa sta realmente accadendo sul confine turco-siriano.

Innanzitutto, per non lasciare nulla alle banalizzazioni, ci teniamo a dire che i peshmerga non hanno nulla a che fare con la resistenza curda. Parliamo infatti dei membri delle milizie del Partito Democratico del Kurdistan iracheno (KDP), che sono quelle stesse milizie che lo scorso agosto hanno di fatti abbandonato le posizioni a ridosso di Sinjar, lasciando spazio alla penetrazione dello Stato Islamico nel Kurdistan iracheno. Il video che ieri li mostrava mentre superavano il confine accompagnati dall’esercito turco a riprova della trasformazione degli equilibri tra coalizione,Turchia e curdi, è in realtà un video girato altrove e che non ha niente a che fare con Kobane.

I partigiani oggi hanno scritto comunicati per smentire le versioni che stava dando il main stream. Comunicati scritti dal fronte a cui nessuno ha dato credito. Noi stessi oggi pomeriggio siamo saliti sulle colline che circondano la città per capire da dove e se ci fosse effettivamente un ingresso. E invece non si è mosso assolutamente nulla.

La realtà è assolutamente diversa. A fronte di una serie di avanzamenti riportati dalla resistenza e dell’inizio vero dei bombardamenti americani, l’Isis ha messo su una sorta di trappola. Ha finto un arretramento, che ha giustificato i toni trionfalisti delle ultime ore, facendo credere che i combattenti dello stato Islamico si stessero dirigendo verso Baghdad.

Ma l’illusione è durata poco. Isis è tornato in forze e ha cominciato a bombardare la città, uccidendo 11 partigiani e avanzando nuovamente. Si combatte senza sosta e la città è nuovamente in pericolo.

Scriviamo rapidamente quello che ci succede attorno in questi istanti e quello che sappiamo con certezza.

Dal punto di vista complessivo ci sentiamo innanzitutto di dire che di tutte queste ridefinizioni ciniche e strategiche i partigiani sono gli ultimi ad essere informati e che ieri sera qui c’era ancora chi non sapeva quello che i media raccontavano da ore.

Sappiamo sicuramente che tutto è molto più complesso della telefonata polite and friendly che il Presidente americano Barcak Obama avrebbe fatto ad Erdogan per stabilire un nuovo modo di gestione della frontiera turco-siriana e per definire di fatto le regole dell’improvvisa intromissione degli Stati Uniti.

Una intromissione che da queste parti si percepisce in modo unanime come la frettolosa e goffa salita sull’ipotetico carro del vincitore, semmai ci fosse vittoria e il tentativo di scalzare da quel carro i partigiani, delegittimando quello che hanno fatto da soli in queste settimane.

E’ un fatto che solo negli ultimi giorni i bombardamenti della coalizione abbiano cominciato ad agire in modo più o meno coordinato con la resistenza e dunque a dare un sostegno efficace alla stessa.

Così come è un fatto che prima di queste ultime ore la stessa coalizione abbia colpevolmente taciuto e non abbia fatto pressione in alcun modo sull’amico Erdogan per aprire il confine e far passare armi, rinforzi e medicinali.

Questa connivente omertà è costata tantissimo al Rojava in termini di perdite umane e di continue emergenze sanitarie e sociali, che hanno stremato ulteriormente questi territori.

Nulla accade per caso. Stando qui l’abbiamo capito ancora meglio.

L’apertura vera di quel varco scompaginerebbe radicalmente la gestione della guerra permanente e la sua modalità di spettacolarizzazione di cui ancora si serve l’imperialismo contemporaneo. Dal confine passerebbero migliaia di uomini e donne che spontaneamente e in maniera autorganizzata sono accorsi da tutta la Turchia (e non solo) in difesa del Rojava. Si imporrebbe nell’immaginario l’idea che dal basso, dalla terra, metro dopo metro, donna dopo donna, uomo dopo uomo, si può conquistare la libertà.

E invece a questa immagine orizzontale, a questa invasione di corpi senza potere, il main stream ha sostituito quella dei paracadute che dall’alto, come per mano di una divina provvidenza che risolve le sorti di ogni barbarie, calano medicine ed armi sulla testa dei partigiani distrutti e stanchi.

E’ un’immagine, solo un’immagine, costantemente evocata nelle ultime ore da ogni media. Ma nel nostro mondo le immagini contano e questa geometria verticale non può non indignare chi, con animo partigiano, difende Kobane dall’ISIS, ma anche dagli opportunismi turco-americani che all’oggi provano ad accaparrarsi i risultati della resistenza curda.

C’è probabilmente una debolezza particolare di cui soffre questo conflitto, una debolezza data dalle condizioni, dalle difficoltà, dalla distrazione del giornalismo indipendente occidentale e non solo.

La resistenza di Kobane gode di pochissime voci contro-narrative e questo silenzio consente queste performance orribili a cui si sta prestando a giorni alterni il main stream, senza avere nessuna forma di contraddittorio.

Noi siamo qui e attorno a noi sono pochissime le voci giunte per raccontare sul serio quello che accade. Noi proviamo a fare la nostra parte ma non è affatto facile.

La stessa Kobane sta assumendo le tinte di un luogo senza fisionomia. Entro le mura sono pochissime le immagini, i documenti, le possibilità di dare contenuto visivo a quello che succede. Stereotipi ed icone stanno sostituendo rapidamente la realtà.

Quando si lascia troppo spazio all’immaginazione è chiaro che chi ha mezzi potenti per colonizzarla ne approfitta in grande stile e così, se non stiamo attenti, gli americani rischiano di mettere la firma sotto cose alle quali non hanno mai preso parte. Tutto questo mentre i media raccontano cose sbagliate, danno credito a video girati altrove e mostrano come in via di pacificazione una zona dove ancora si muore.

Abbiamo bisogno di fare uno sforzo, e per questo vi chiediamo aiuto nelle divulgazione di questi testi (scritti ogni giorno frettolosamente e in condizioni precarie), affinché la resistenza resti nelle mani di chi ha resistito e il Rojava resti quello che era prima di questa storia: una regione autonoma e libera, dalle nazioni, dai fanatismi religiosi e dalle spartizioni strategiche del potere.

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