OPINIONI

Sulla colonialità della scienza: uno sguardo ecologista sulla conoscenza

Un riflessione su scienza, produzione dei saperi e colonialità a partire dal Festival zapatista ‘ConCiencias’, per riflettere su un possibile approccio decoloniale al sapere scientifico.

L’attuale stagione politica si sta tristemente e violentemente contraddistinguendo per un ritorno su scala mondiale di fascismo e suprematismo bianco. Tra i fattori che hanno portato a giustificare il razzismo occidentale e coloniale, la tecnologia ha giocato un ruolo fondamentale nella storia: Francisco Pizarro ed Hernán Cortés poterono sterminare con un esiguo numero di soldati una enorme quantità di indigeni grazie, fondamentalmente, alle armi e ai cavalli addomesticati (e ai germi) con i quali sbarcarono sulle coste del Nuovo Mondo [1].

Tale ruolo, protagonista di ogni processo storico di dominazione e colonizzazione, ha portato troppo spesso alla formulazione di giudizi assoluti circa la superiorità creativa e intellettuale dell’uomo bianco occidentale e a una gerarchizzazione dei saperi e delle culture facilmente riscontrabile anche in ambienti progressisti e “di sinistra”. Crediamo quindi che interrogarsi sul ruolo della scienza nella nostra società e relativizzarla risulti fondamentale dal punto di vista politico e della produzione di discorso: è necessario quello che potremmo definire un approccio decoloniale sulle scienze.

LA NON NEUTRALITÀ DELLA SCIENZA

Nel suo intervento sulla non-neutralità della scienza, Aniello Lampo iniziava il suo contributo affermando quanto risulti essere “eretico e scandaloso” sostenere che la produzione del sapere scientifico sia influenzata dall’esistenza di meccanismi di sfruttamento e dinamiche di potere al suo interno. In altri termini, quello che veniva messo in discussione era il fatto che la scienza fosse un campo del sapere umano separato dalla sfera sociale, fondamentalmente neutro e immune dal “contagio” di valori e istanze legate all’esistenza di conflitti e di determinate dinamiche di potere all’interno della società ovvero tra i vari strati sociali.

In un articolo più recente apparso su Effimera, quello che a prima vista può sembrare l’ennesimo sfogo da parte di un membro dell’accademia contro un sistema alienante e sempre più corrotto dalle logiche neoliberali di competitività, produttività ed efficienza, è in realtà un grido di allarme che ha il pregio di sottolineare ulteriori aspetti finora poco discussi e dibattuti, come ad esempio il problema delle psicopatologie che affliggono gran parte membri dell’accademia (specie nei primi stadi della propria carriera, es. dottorandi e post doc), il fatto che «non contano più i dati ma come li si vende» o, ancor più preoccupante a mio avviso, che «la gran parte degli studi scientifici in ambito biomedico sono impossibili da riprodurre».

Insomma, la convinzione nella superiorità universale del metodo scientifico, assai radicata nella comunità scientifica da cui io stesso provengo, è al giorno d’oggi assai difficile da difendere se si passa dal piano delle idee al mondo reale, se si abbandona l’ambiente controllato del laboratorio e ci si immerge nella realtà sociale: la scienza è in crisi sotto molti dei punti vista dai quali la si voglia guardare.

È quindi forse arrivato il momento di iniziare a dialogare, scienziat* e umanist*, per intraprendere un cammino che porti alla sua problematizzazione. Ciò che mi propongo con questo intervento, non potendo in alcun modo essere esaustivo, è offrire alcuni spunti per questa riflessione importante e necessaria, oltre che alcuni riferimenti bibliografici consultabili per chiunque voglia arricchire questo dibattito recente già avviato all’interno di alcuni collettivi e movimenti sociali.

Quello che mi spingerò ad affermare è qualcosa che alle orecchie di molt* potrà suonare ancora più eretico e scandaloso: in primo luogo che la scienza, oltre a non essere uno strumento neutro per interpretare e trasformare la realtà, non è nemmeno, da solo e in determinate circostanze, lo strumento più adeguato per farlo. In secondo luogo, che occorre riconoscere il rischio che l’ipotetica superiorità del metodo scientifico, se non addirittura la sua pretesa di “esclusività” come strumento epistemologico in grado di discriminare tra il vero e il falso, converta una pratica dalle indubbie capacità di risolvere alcuni problemi e generare, in determinati contesti, migliori condizioni di vita in strumento (neo)coloniale, a livello epistemico-cognitivo, funzionale ad alimentare e sostenere le dinamiche di dominazione Nord-Sud, necessarie alla crescita economica e al processo di accumulazione capitalista.

UNA SCIENZA DAL BASSO?

Voglio iniziare questa mia riflessione ricollegandomi al festival zapatista sulle scienze svoltosi recentemente a San Cristobal de las Casas al quale, insieme con altr* compagn*, ho avuto la possibilità di partecipare. In tale occasione, una parte della cosiddetta comunità scientifica ha iniziato a porsi domande importanti: a quali domande risponde l* scienziat* nel suo lavoro? A chi giovano le sue scoperte? Per chi si sta facendo scienza e a chi si stanno presentando i propri risultati?

Durante tutta la conferenza, la sensazione era che la scienza fosse vista come una delle diverse forme di conoscenza da affiancare a quella indigena, locale, tradizionale, e che fosse necessario intraprendere un dialogo tra i saperi che potesse portare a soluzioni condivise e utili per tutta l’umanità. Nel corso dell’ultima giornata, poco prima della chiusura, l’ecologo Luis Malaret offrì una definizione di scienza presa in prestito dall’ecologo Richard Levins che mi rimase piuttosto impressa:

«La scienza è un episodio nella crescita della conoscenza umana in generale, e un prodotto di classe, genere e cultura del capitalismo euro-nordamericano in particolare»

Questa definizione, rispetto ad altre più neutre e “apolitiche” che pure esistono, ha il pregio da un lato di inserire la componente storica e la problematizzazione sociale, facendo emergere il fatto che la scienza ha radici storiche strettamente intrecciate con la cultura europea-occidentale nella quale si è poi affermato il capitalismo, dall’altro di evidenziare che la pratica scientifica è intrinsecamente politica: ciò che si studia, a che scopo, per chi e in che condizioni sono tutte questioni politiche integrali alla natura stessa della scienza.

Restava però una domanda: la scienza sarebbe diversa se la facesse non l’uomo bianco occidentale ma i neri, i popoli indigeni dell’America Latina, le donne, insomma tutti i soggetti emarginati e marginalizzati che si trovano “in basso e a sinistra” in ogni geografia e latitudine? Gente con una diversa cosmogonia rispetto a quella occidentale, capitalista, della modernità coloniale? O forse dovremmo, semplicemente, smettere di chiamarla scienza?

MODERNITÀ, COLONIALISMO, COLONIALITÀ DEL SAPERE

Secondo Ramon Grosfoguel, la Modernità è un progetto civilizzatore che ebbe inizio nel “Lungo XVI secolo” (1450-1650) con l’attuazione contemporanea di quattro genocidi/epistemicidi: lo sterminio di musulmani ed ebrei nella conquista dei territori di al-Ándalus; il genocidio delle popolazioni indigene delle Americhe, a seguito dell’arrivo degli europei finanziati dalla Corona di Spagna e Portogallo; lo sterminio degli africani nella colonizzazione dell’Africa, e la schiavitù che ne seguì nelle Americhe; il genocidio/epistemicidio di migliaia di donne in Europa, accusate di stregoneria e bruciate vive nel periodo della caccia alle streghe [2].

Tali genocidi/epistemicidi rappresentano gli eventi storico-sociali costitutivi dell’epistemologia moderna, intesa come il modo di comprendere il mondo, di relazionarsi con la realtà circostante ed agire col fine di trasformarla. A partire da quel momento, l’epistemologia ha sempre privilegiato le categorie e i concetti sviluppati da uomini bianchi provenienti da 5 paesi (Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Stati Uniti). Si tratta dunque di lenti teoriche sviluppate a partire dagli eventi storico-sociali osservati “da quel lato della linea”, insomma teorie eurocentriche.

Visto da questo punto di vista, il colonialismo non si configura solo come il controllo dell’economia attraverso le istituzioni amministrative e coercitive dello Stato e dell’esercito, ma anche e soprattutto come apparato di dominazione e creazione di subalternità a livello cognitivo-epistemico. Ciò che si differenzia dalla visione occidentale del mondo, qualsiasi cosmovisione “altra”, va immediatamente posizionata su un gradino inferiore della gerarchia dei saperi, marginalizzata come “non scientifica” o direttamente invisibilizzata: questo è quello che lo stesso Grosfoguel chiama razzismo epistemico.

Tornando alle lenti eurocentriche di cui sopra, come si origina questa visione? Dal punto di vista storico-sociale, l’evento più importante di quei tempi risulta essere l’insorgenza e rapida espansione del mercato mondiale capitalista che si stava aprendo davanti agli occhi dell’uomo bianco europeo grazie allo sterminio delle civiltà incontrate nei nuovi territori “scoperti” (sempre dal proprio punto di vista), dello sfruttamento delle ricchezze naturali improvvisamente a disposizione e del lavoro forzato (schiavitù) imposto alle popolazioni dominate.

Espansione senza limiti dell’economia di mercato, sfruttamento della natura, genocidio/epistemicidio delle civiltà “altre”: è su queste basi che si origina la scienza moderna europea. Nel dualismo cartesiano che separa Uomo e Natura, e trasforma la seconda in risorsa illimitata al servizio del primo, oggetto di conoscenza nettamente separato dal soggetto, sul quale è lecito esercitare controllo e dominazione. Nella visione secondo cui tutte le forme di vita sono considerate inferiori rispetto alla vita umana e si possono, pertanto, distruggere.

Ne consegue, quindi, che qualsiasi tecnologia, intesa come strumento per interpretare e trasformare la realtà (includendo quindi le teorie così come gli strumenti concettuali utilizzati per la critica del presente) prodotta nel mondo occidentale, risulta essere giá impregnata della logica civilizzatrice eurocentrica, dualista cartesiana, della modernità coloniale.

Esistono, è bene dirlo, parti del mondo in cui la dualità cartesiana non fondamenta la visione del mondo e la Natura è vista come un qualcosa che include l’Uomo. Si pensi, ad esempio, al caso dell’Ecuador: nel 2010, nella sua costituzione è stata introdotta un’intera sezione riguardante i Diritti della Natura (in sostanza un’estensione del concetto di Diritti Umani a tutte le forme viventi del pianeta).  Per la razionalità cartesiana, questo fatto risulta semplicemente un assurdo ontologico, oltre che legale.

LA SCIENZA POST-NORMALE

Un concetto interessante all’interno di questo dibattito, soprattutto allo scopo di difendere una delle mie due affermazioni iniziali, ovvero che bisognerebbe smettere di considerare sempre e comunque la scienza occidentale come LO strumento per eccellenza per interpretare e trasformare la realtà, è quello di scienza post-normale.

Introdotta nel dibattito epistemologico verso gli inizi degli anni Novanta da Silvio Funtowitz e Jerome Ravetz, la scienza post-normale viene comunemente definita come “una strategia di risoluzione dei problemi – problem solving – necessaria quando «i fatti sono incerti, i valori in discussione, gli interessi elevati e le decisioni urgenti” [3]. La scienza post-normale, nella formulazione di Funtowitz e Ravez, si differenzia da altre due “tipologie” di scienza: la scienza pura e applicata da un lato (che rappresentano il paradigma scientifico normale secondo l’analisi di Thomas Kuhn), e la consulenza professionale dall’altro.

Nel primo caso, il metodo scientifico “normale” basato sulla semplificazione di fenomeni complessi (riduzionismo), sulla loro riproduzione e osservazione in laboratorio, nonché sulla ripetibilità e falsificabilità dell’esperimento, è più che sufficiente: gli effetti delle decisioni prese non ricadono direttamente su terzi, la ricerca è generalmente guidata da un solo ricercatore o da un gruppo composto comunque da pochi membri, e il livello di incertezza, ovvero il grado di complessità del sistema oggetto di studio, è basso. [4]

La consulenza professionale entra in gioco quando il livello di complessità ed incertezza aumenta. Si esce dall’ambito del laboratorio e si entra nel mondo reale, la scienza viene inserita nella società e gli effetti su terzi del processo decisionale non sono trascurabili. Generalmente, si ricorre al parere di un “esperto” (così come in politica si ricorre ai “tecnici”) ed entrano in gioco strumenti come, ad esempio, l’analisi di costi e benefici, le valutazioni di impatto ambientale, etc.

Esistono però dei casi in cui l’incertezza sul dato “scientifico” è tale per cui il riduzionismo implicito nel paradigma scientifico normale (tale da escludere per principio le conoscenze dei “non esperti” o quelle acquisite al di fuori del metodo scientifico classico) rischia di produrre delle semplificazioni del discorso, anche mediante assunzioni culturali implicite spesso condizionate da interessi, tali da rendere inaffidabili i risultati “scientifici” e negativi, quando non disastrosi, i loro effetti. Non ha quindi più senso utilizzare il metodo scientifico classico nè il ricorso alla presunta superiorità del parere dell’esperto.

È il caso di alcuni problemi di scala globale o i cui effetti potrebbero farsi sentire solo se si prendono in considerazione scale temporali particolarmente estese, come ad esempio il cambio climatico di origine antropica, le tecnologie della salute e della vita (ad esempio la questione OGM), o la gestione dei processi e degli impianti per la gestione dei rifiuti, dell’energia o dei trasporti (dal nucleare alla recente questione trivelle, fino alle grandi opere infrastrutturali dal presunto interesse comunitario come TAV o TAP).

La proposta della scienza post-normale è di ricorrere ad una comunità estesa di esperti formata non solo dagli scienziati, ma da tutti i soggetti coinvolti dagli effetti del processo decisionale.

Questo approccio mette in discussione uno dei pilastri fondamentali della valutazione scientifica moderna (ancora valida, seppure con le limitazioni ben note a chiunque abbia passato del tempo in un ambiente di ricerca accademica, all’interno del paradigma “normale”) che è la valutazione tra pari – peer review. Nella scienza post-normale, la valutazione tra pari é elemento necessario ma non sufficiente ad assicurare la qualitá delle decisioni prese.

Ciò che diventa necessario è una comunità esperta in grado di articolare un insieme di fatti estesi che possano includere tutte le diverse forme di conoscenza presenti all’interno della comunità, una pluralità di valori (sociali, economici, ambientali ed etici) e credenze (materiali così come spirituali), i quali, assieme ai fatti scientifici, possano contribuire all’analisi del problema in esame [3]

VERSO UN’ECOLOGIA DEI SAPERI

Argomentato, dunque, che la scienza ha svolto e continua a svolgere un ruolo di strumento neocoloniale cognitivo-epistemico rispetto ai rapporti con il Sud globale, ed a quanto pare non se la passa troppo bene nemmeno nel Nord globale, cosa possiamo fare per salvare ció che di buono puó produrre la scienza occidentale ed evitare, allo stesso tempo, di riprodurre dinamiche di dominazione e colonizzazione?

Una proposta che a me sembra interessante è quella proveniente dal sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos con il concetto di ecologia dei saperi. In maniera analoga a quanto avviene in ecologia, infatti, dove ad un aumento delle monocolture si associa una grave perdita di biodiversità e un indebolimento della capacitá degli ecosistemi di difendersi dall’attacco di piaghe o eventi esterni (resilienza), l’ecologia dei saperi “si oppone alla logica della monocoltura della conoscenza e del rigore scientifici, e identifica altri saperi e criteri di validazione che operano in forma credibile in pratiche sociali che la razionalità eurocentrica dichiara inesistenti”. [5]

In altre parole, l’ecologia dei saperi riconosce la dignità delle forme di conoscenza cui la razionalità cartesiana, razzista, patriarcale, sessista, giudaico-cristiana (che come abbiamo visto è alla base del progetto civilizzatore moderno/coloniale) toglie ogni tipo di legittimità. Richiede che l* scienziat* abbandoni la ricerca di una Verità universale e accetti l’esistenza di un pluriverso di valori, esigenze, pratiche e criteri di validazione, insomma che “scenda dal piedistallo” e si ponga allo stesso livello di una umanità diversa e plurale.

Questo ha più di una semplice conseguenza teorica: significa riconoscere la legittimità di pratiche sociali e attori collettivi in tutto il Sud globale che non ricorrono alla razionalità cartesiana e al sapere scientifico nelle loro lotte quotidiane, e che nonostante ciò sono stati e continuano ad essere tra i principali protagonisti delle lotte sociali sparse per il globo.

L’autore è membro dei collettivi S.P.I.N. e ConCiencias Barcelona

Note e riferimenti

[1] Diamond, Jared, Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila anni

(ed. Einaudi 1997)

[2] Grosfoguel, R.,  Rompere la colonialità. Razzismo, islamofobia, migrazioni nella prospettiva decoloniale (ed. Mimesis, 2017)

[3] Post normal science, in D’Alisa, Demaria, Kallis (eds.), Degrowth: A Vocabulary for a New Era (Routledge, 2015)

[4] Questo ovviamente sul piano teorico, dal momento che da più parti arrivano allarmi sul fatto che la maggior parte dei risultati (ad esempio in campo biomedico, citando Angelini), così come nella fisica quantistica, non sono riproducibili, ovvero non sono falsificabili.

[5] de Sousa Santos, B., Epistemologies of the South: Justice against epistemicide (ed. Taylor & Francis, 2014)