cult

CULT

È possibile creare un’altra natura? Dialogo con Gennaro Avallone e Paolo Bussotti

Bussotti, storico della scienza, e Avallone, sociologo, sono tra le voci della XIV Scuola estiva di filosofia “Remo Bodei” di Roccella Jonica (22-29 luglio 2023) organizzata dall’Associazione culturale Scholé. In vista di questo importane appuntamento, abbiamo parlato di cos’è la natura, tra scienza e capitalismo.

Dal pre-antico al postmoderno la parola physis condensa in sé i significati di ‘generazione’, ‘essenza’, ‘natura’. Come ripensare questo termine arcaico alla luce delle ingiustizie ambientali e sociali dell’epoca nostra, che sono al centro di molteplici interessi e preoccupazioni? È sempre più urgente indagare con senso critico l’impatto della tecno-scienza sull’insieme delle forme di vita che popolano la Terra, perché la biosfera è sotto attacco – consumata, inquinata e mercificata – e tra le specie a rischio c’è anche quella umana. 

La physis-natura non è riducibile al naturale, inteso come l’invariante fisico-biologico che si oppone alla storia e alla cultura. Per esempio, il nostro modo di concepire la natura è determinato dalla scienza moderna, dall’illuminismo e dalla rivoluzione industriale: le cose naturali rappresentano l’esteriorità non solo contrapposta ma anche e soprattutto degradata rispetto all’interiorità del soggetto; sono necessità contro libertà; sono il corpo contro la mente, la materia contro lo spirito. Poiché natura e storia sono nozioni interconnesse e si determinano a vicenda, allora creare un’altranatura si può e significa immaginare teoricamente e praticamente un modo differente di stare al mondo, di rapportarsi con l’habitat, con i corpi e con l’altro sesso, di organizzare la produzione e i rapporti sociali, la vita urbana, la medicina, la scuola, la scienza.

Abbiamo chiesto a Paolo Bussotti, storico della scienza dell’Università di Udine, e a Gennaro Avallone, sociologo dell’Università di Salerno, di rispondere ad alcune domande sul tema della natura tra scienza e capitalismo alla vigilia della loro partecipazione alla XIV edizione della Scuola estiva di filosofia “Remo Bodei” di Roccella Jonica (22-29 luglio 2023, organizzata dall’Associazione Culturale Scholé). 

Nella definizione del concetto di natura, quanto bisogna imputare al naturale inteso come l’ordine eterno e necessario di ciò che esiste, e quanto invece dipende dalla storia, cioè dai processi sociali, economici e culturali? 

Bussotti. Più che di definizione del concetto di natura, parlerei più intuitivamente della concezione che abbiamo della natura. Premettendo che non credo che esista alcun ordine eterno e necessario, è chiaro che nel nostro concetto di natura convergono elementi biologici e culturali. Con buona pace di chi sostiene che il concetto di natura sia esclusivamente culturale, credo che sia sufficiente ricordare che gli uomini hanno un corpo che è soggetto a precise limitazioni fisico-biologiche, che viviamo in un ambiente che inevitabilmente incide sulla nostra biologia. Siamo sottoposti a tutti i limiti fisici a cui sono sottoposti gli altri esseri viventi. Insomma: non possiamo vivere senza mangiare e bere, non possiamo vivere a 100 gradi, non possiamo respirare anidride carbonica e così via. Questo è indipendente da ogni cultura. Detto questo, è indubbio che il concetto di natura a cui pensiamo non è esclusivamente biologico, ma è anche storico-culturale. L’uomo, come nessun altro essere vivente, è in grado di modificare il proprio ambiente e, quindi, di trasformare la natura e, conseguentemente, le sue relazioni con essa e il concetto stesso che si ha di natura. Durante varie fasi della storia il non-umano è stato visto come qualcosa di estraneo, di pericoloso, come qualcosa da domare, poi come qualcosa che, destituito del rapporto con la divinità, si era generato ad esclusivo uso e consumo dell’uomo. Infine, dalla rivoluzione industriale in poi, lo sfruttamento dell’uomo sul non-umano ha perso, almeno in parte, la connotazione teologica ed è stato giustificato in ambito meramente economico. Oggi, giustamente, c’è anche chi vede nel non-umano qualcosa da tutelare e difendere, non solo da sfruttare. Purtroppo, tale modo di intendere è minoritario.

Avallone: Rispondo con il concetto di natura-storica elaborato da Marx e Engels in L’ideologia tedesca. In quel testo, i due autori evidenziano che il mondo materiale non è dato dall’eternità in maniera immutabile, ma è un prodotto storico, frutto dell’attività di molteplici generazioni. L’esempio che mostrano è tanto semplice quanto illuminante, ricordando a Feuerbach che il ciliegio da lui tanto amato «è stato trapiantato nella nostra zona pochi secoli or sono grazie al commercio, e perciò soltanto grazie a questa azione di una determinata società in un determinato tempo esso fu offerto alla ‘certezza sensibile’ di Feuerbach». In altre parole, fermo restando che – ovviamente – alcuni fenomeni naturali sono costitutivi della vita sulla Terra, come ha osservato Paolo Bussotti in precedenza, così come la “produzione in generale” va compresa nelle forme storicamente specifiche di produzione, allo stesso modo non si individua una “natura in generale”, statica, ma, appunto, una natura storica, che cambia in combinazione con i mutamenti socio-economici, politici e simbolici in quanto co-prodotta dagli umani e dal resto della natura non umana.

Per Bussotti: dicevamo in premessa che la scienza moderna, da Cartesio in poi, ci consegna una rappresentazione delle cose naturali intese come l’esteriorità contrapposta e degradata rispetto all’interiorità della coscienza. E poi tu stesso assimilavi questo schema alla coppia non-umano vs. umano. Quale paradigma scientifico, antico o contemporaneo, è utile prendere in considerazione per creare un’altra natura?

P.B: Io non credo che esistano paradigmi passati o presenti che possano guidarci verso la creazione di un’altra natura. Problemi teorici di questo genere nascono sempre da questioni pratiche. La vita prospera a scapito di altra vita e la mastodontica società umana ha e avrà inevitabilmente un impatto enorme sugli equilibri del pianeta, si tratta di minimizzare questo impatto. 

Certo, ma come possiamo fare per percepire la natura in un modo diverso da quello attuale?

PB:Non si tratta solo di avere un nuovo paradigma scientifico, ma un nuovo paradigma assiologico generale. Dovrebbero cambiare il nostro gusto estetico e le nostre priorità, per cui avere una natura ben conservata, tutelata, bella e rigogliosa dovrebbe avere la precedenza sul possesso di oggetti. La nozione stessa di lavoro dovrebbe cambiare: più lavoro dedicato alla tutela della natura e meno alla produzione. Certe supposte libertà dovrebbero essere limitate. Oggi si sente parlare di incentivi ad avere più figli. Ritengo che questo sia pazzesco, contro ogni buon senso, dato che la sovrappopolazione è uno dei maggiori problemi. La questione, quindi, va ben al di là di un paradigma scientifico. Si tratta proprio di reimpostare la nostra vita.   

Per Avallone: nel titolo del tuo intervento alla Scuola Estiva, affermi che esiste un’ecologia-mondo capitalistica che produce la natura. Questa natura così prodotta è oggetto di consumo e di mercificazione ed è al centro delle preoccupazioni e delle lotte di movimenti, comitati e associazioni che, anche in Italia, si battono contro le ingiustizie ambientali. Il fatto interessante è che queste lotte, come per esempio ha dimostrato il collettivo GKN, non sono separabili dalle battaglie contro le ingiustizie sociali che riguardano il lavoro, il salario e il reddito. Produrre un’altra natura significa quindi immaginare un modo differente di stare al mondo?

GA: Sì, è questa la sfida alla quale siamo chiamati nell’epoca del cambiamento climatico e dell’esaurimento del progetto capitalistico che ha pensato e governato la natura intesa come insieme di beni e capacità al servizio dell’arricchimento privato e, più complessivamente, del funzionamento della logica capitalistica. Quest’ultima, per riprodursi, ha bisogno di una base di beni e lavori non pagati o pagati il meno possibile: i quali coincidono con tutte le forme di vita storicamente associate alla natura (gli schiavi, il lavoro femminile, le risorse naturali, l’energia). Queste nature gratuite o a buon mercato non esistono di per sé, ma vanno – appunto – prodotte, mobilitando, a seconda delle necessità, eserciti, paramilitari, ideologie, leggi, forme culturali. La natura a buon mercato, a disposizione dell’economia e, quindi, dei profitti, va prodotta anche sul piano simbolico-ideologico come una realtà – un insieme di beni e attività – di cui disporre, priva di valore in sé, ma dotata di valore solo perché utile all’economia. Mettere in discussione la natura a buon mercato significa sfidare un progetto di civiltà, non è un’operazione settoriale o che si può ridurre alla lotta all’incremento delle temperature medie. Il problema non è solo quello del cambiamento climatico – come se l’unica preoccupazione fosse quella di non superare l’incremento della temperatura globale di 1,5°C – ma è quello di un’intera civiltà che si è costruita sull’equazione Natura = cosa assoggettabile a buon mercato fin quando è utile, a prescindere da… inquinamento, degradazione degli ambienti di vita, diseguaglianze socioecologiche, diffusione di armi di distruzione definitiva come il nucleare, ecc.

E dunque qual è la sfida?

GA: È una sfida alla produzione – dunque, al lavoro – cioè a cosa produrre, oltre che a come produrlo. Non è un caso che tutte le alternative alla civiltà capitalistica si stanno orientando verso proposte di reddito universale oltre che verso il riconoscimento della centralità della riproduzione sulla produzione sociale. Siamo di fronte a una sfida epocale che richiede proposte all’altezza di un cambio di prospettiva: quello della centralità della riproduzione sociale, come ci ha insegnato il femminismo insieme all’ecofemminismo, è un cambio davvero radicale. In concreto, questo significa la costruzione di un movimento che pone al centro la lotta sul rapporto riproduzione-produzione sociale e i rapporti di potere che ne possono modificare questo nesso. Nell’immediato, questo significa promuovere e sostenere lotte che, ad esempio nel caso italiano, difendano la sanità pubblica, riaprano i conflitti sui beni comuni, sostengano tutte le rivendicazioni per salari giusti che liberino quanti più lavoratori e lavoratrici dal ricatto del denaro.

C’è un filo rosso che connette scienza moderna, Illuminismo e rivoluzione industriale e che grossomodo consiste nella rivalutazione della tecnica e nell’elaborazione di un sapere scientifico sempre più descrivibile in termini di utilità pratica. Ciò significa che la natura non è da contemplare, ma è da manipolare: certo, per motivi di studio (esperimento), ma anche e soprattutto per lavorarla e per impiegarla come risorsa ai fini del profitto. Per salvare il Pianeta, abbiamo bisogno di un nuovo Seicento?

PB: Come ho già detto, non credo che il problema sia la scienza. Anzitutto, la scienza moderna non ha solo una deriva utilitaristica. La teoria ne è parte cospicua. Basti pensare alla fisica teorica, alla teoria dell’evoluzione, ecc. Comunque, anche ammettendo che l’impatto maggiore della scienza moderna sia di tipo pratico, credo che occorra distinguere. Se per pratico si intende che la scienza moderna porta a cure mediche sempre migliori, allo sviluppo dell’intelligenza artificiale che consente operazioni fino a pochi anni fa neppure concepibili, ecc. beh, direi che tutto questo è molto positivo. In questo senso va bene manipolare la natura. Non va bene manipolarla quando, invece, entra in gioco esclusivamente l’interesse economico e la susseguente ideologia, che inducono comportamenti alla base dei problemi ambientali che ci troviamo ad affrontare. Se, allora, le più recenti scoperte scientifiche sono usate a questo scopo, ritengo che si faccia un uso improprio e negativo della scienza. Ovviamente, non sto pensando agli scienziati come persone ingenue che vogliono il bene, mi si passi questa espressione, ma che sono sfruttati in modo tale che si faccia un uso deviato delle loro scoperte. È chiaro che anche loro fanno parte di un certo gioco. Tuttavia, ha perfettamente senso separare i prodotti della scienza dal modo in cui, poi, questi prodotti sono sfruttati. Un nuovo Seicento? Difficile dire, non credo che abbiamo bisogno di una nuova scienza (come, invece, fu quella del ‘600 rispetto alla precedente), ma di una diversa gestione della scienza che già esiste. 

GA: Il sapere scientifico è stato nel corso della civiltà capitalista subordinato alla tecnologia, dunque alla sua utilità pratica. Questo è stato fortemente influenzato dall’utilizzo in ambito militare della ricerca e delle sue applicazioni, che sono giunte fino ad affermarsi come forme del dominio, come è storicamente esemplificato dal caso della produzione e utilizzo della bomba atomica. Soprattutto durante il Novecento la ricerca scientifica è diventata uno strumento costitutivo dell’apparato militare-industriale, che ne è anche diventato il maggiore finanziatore. In questa subordinazione della scienza agli interessi dell’apparato militare-industriale la natura – le forme della vita – è diventata una variabile dipendente, un fattore utile alla riproduzione del dominio: si pensi alla proliferazione delle differenti armi di distruzione di massa che caratterizzano i grandi blocchi politico-militari in azione, in primis quello costituito attorno all’Alleanza Atlantica. In questa condizione, la scienza stenta a mantenere spazi di autonomia, i quali, dove ci sono, tendono più che altro a funzionare come nicchie tollerate dai sistemi universitari e indebolite dalla gabbia burocratica alla quale la vita universitaria è stata ricondotta e disciplinata. Ovviamente, tali spazi ancora esistono, nei diversi campi scientifici, e la loro riproduzione e, soprattutto, moltiplicazione e liberazione richiede la costruzione di una scienza autonoma che cerchi le sue alleanze con i movimenti sociali.

Provando ad aggirare le mode del momento, dunque senza dover per forza parlare di una sociologia o di una scienza dell’ambiente, qual è il contributo teorico e – perché no – anche politico che la fisica e le scienze sociali possono dare all’ecologia?       

PB: Quanto alle scienze sociali, non saprei proprio che rispondere, non è il mio settore di conoscenza. Riguardo alla fisica, penso che possa dare moltissimi contributi. Per esempio, si possono creare modelli fisico-matematici ragionevolmente precisi relativi al possibile impatto sull’ambiente di certe scelte o certe politiche. Quindi, se ascoltata, la fisica può aiutare a dare un indirizzo o, almeno, a escludere indirizzi che non andrebbero seguiti perché troppo rischiosi o troppo invasivi nei riguardi dell’ambiente. 

GA: Le scienze sociali hanno già contribuito non solo alla critica dell’ecologia-mondo capitalistica fondata sulla coppia appropriazione (delle nature a buon mercato) – sfruttamento (del lavoro sociale), ma anche all’elaborazione di una serie di categorie utili per il suo superamento. Penso, ad esempio, ai concetti di giustizia ambientale, giustizia climatica, accumulazione per espropriazione, società post-estrattivista, beni comuni e commoning, patriarcato, razzismo, classismo, intersezionalità: un insieme di nozioni elaborate in comunicazione tra movimenti sociali e socioecologici e reti di ricercatrici e ricercatori che hanno costruito un linguaggio comprensibile in diverse parti del mondo e non riducibile a un’unica esperienza politica. Il contributo teorico e pratico delle scienze sociali verso l’ecologia sta già dentro l’esperienza dei movimenti sociali, anche in quella di alcuni governi, e deve continuare a funzionare all’interno di questo scambio, rendendo le scienze sociali sempre più scienze che criticano l’ecologia politica dominante per sperimentare alternative complessive e non settoriali.

Fotografia di copertina da qui. Le fotografie interne all’articolo sono di precedenti edizioni della Scuola estiva di filosofia “Remo Bodei” di Roccella Jonica.