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Short Theatre: decolonizzare spazi e saperi

Si è appena concluso alla sua 15° edizione il festival Short Theatre che da due anni occupa lo spazio di WeGil, lo storico palazzo realizzato dall’architetto Luigi Moretti per la Gioventù Italiana del Littorio, inserendo dei focus sulle questioni decoloniali all’interno della programmazione

«Quest’anno ci sentiamo tutti un po’ più fortunati di poter partecipare di nuovo a un festival», confessa Francesca Corona, co-direttrice artistica della rassegna romana Short Theatre, svoltasi in vari luoghi della capitale tra il 4 e il 13 settembre. Il festival, giunto alla quindicesima edizione, quest’anno si trovava di fronte ben più di una complessità. Infatti, oltre alle difficoltà organizzative dovute, alle misure di contenimento del Covid-19, Short Theatre andava anche incontro a un primo grande cambiamento al suo interno: la conclusione di un percorso artistico avviato nel lontano 2006. «È l’ultimo anno di questa direzione e non è solo la fine di un ciclo, è il primo cambio da quando questo festival è nato. Fabrizio Arcuri (regista e fondatore della compagnia Accademia degli Artefatti, ndr) ha fondato il festival, io ci ho lavorato sin dall’inizio per poi iniziare a co-dirigerlo. È il primo cambio di direzione all’interno di tantissime mutazioni che sono avvenute in questi anni», spiega Francesca e continua: «Non è una decisione quindi che arriva veloce e non è neanche una decisione facile. Soprattutto perché Short Theatre è una realtà, da un lato, molto identificata, ma dall’altro ha un’enorme fragilità strutturale e somiglia come atteggiamento e come modalità di lavoro quasi più all’attivismo. Però crediamo che sia anche il momento di rendere possibile quello che è molto poco possibile in Italia, ovvero l’alternanza nei luoghi decisionali».

 

Nato nel 2006 negli spazi del Teatro India, Short Theatre si è gradualmente rivelato come uno dei centri gravitazionali della scena artistica di Roma. Una scena che è andata restringendosi in questi quindici anni.

 

«Quando abbiamo iniziato c’era un paesaggio molto più largo, da un punto di vista specificamente artistico. Noi lavoriamo con Teatro di Roma, con il Palazzo delle Esposizioni, con il Mattatoio, che sono tutte istituzioni, però non solo. Collaboriamo anche con luoghi di cultura non istituzionali, che sono fondamentali per noi innanzitutto come persone che li rappresentano e poi anche in veste di operatori e curatori. Il circolo culturale Fanfulla e l’Angelo Mai per citarne due, che ancora adesso riescono a essere dei punti di riferimento», racconta Francesca. «Ma è chiaro che tanti riferimenti sono venuti a mancare. Non solo gli spazi informali, ma anche quelli istituzionali. Roma prima era piena di teatri: la responsabilità nei confronti della comunità artistica era suddivisa. Invece tra i teatri praticamente è rimasto solo il Teatro di Roma da un punto di vista istituzionale, mentre i luoghi informali sono stati chiusi o sgomberati».

L’edizione 2020 ha preso il via venerdì 4 settembre a WeGil, lo storico palazzo realizzato dall’architetto Luigi Moretti per la Gioventù Italiana del Littorio. È il secondo anno che Short Theatre occupa questo spazio nel quartiere di Trastevere: «Forse è il posto più complesso nel quale abbiamo lavorato, sia per struttura fisica, sia soprattutto per la storia e i segni che porta. Abbiamo cercato di non aver la presunzione di pensare che basti attraversare uno spazio per modificarlo». L’attenzione dimostrata nell’approcciarsi allo spazio di WeGil ha portato con sé un’inevitabile riflessione sul fascismo e le sue velleità imperiali:

 

«Quelli che porta Gil sono segni a cui il nostro sguardo è abituatissimo: Roma è disseminata di quelle iscrizioni, di quelle architetture, di quelle linee… Spesso quando parliamo di decolonizzazione sembra che ci sia da decolonizzare solo un luogo, l’ex Gil per esempio, ma in realtà siamo noi da decolonizzare: è il nostro sguardo che è colonizzato».

 

In quest’ottica di decolonizzazione dello sguardo e del pensiero s’inserisce anche una fetta importante della programmazione di quest’anno: «Sulla questione di chi parla, di chi ha diritto di parola, ci stiamo lavorando da tanti anni. Ci interroghiamo molto su delle forme di dissenso che possano invertire le classifiche di chi ha diritto di prendere parola. E anche invertire la gerarchia, non solo della narrazione: come vengono raccontate le cose, ma anche chi le racconta». Da queste riflessioni nasce poi l’esigenza di un confronto sempre più intenso con la teoria radicale. «Credo che i filosofi e la teoria radicale stiano guadagnando un’attenzione che, per la mia esperienza, non avevano sempre avuto», ci dice Francesca. «Ma lo spazio al pensiero è una cosa che ha caratterizzato Short Theatre sin dall’inizio. Quello che è andato definendosi nel corso degli anni è il concetto, per noi assolutamente fondamentale, che la teoria non commenta la pratica. Gli spettacoli sono opere di pensiero che coabitano con altre esposizioni di pensiero: incontri, talk, lectio magistralis, laboratori».

 

 

Numerose le dimostrazioni di quanto appena espresso da Francesca. Su tutte spiccano la lectio magistralis della filosofa francese Elsa Dorlin, che si è tenuta a WeGil sabato 5 settembre, e il torrenziale incontro che ha inaugurato l’installazione multimediale Liquid Violence. In occasione dell’apertura del progetto curato dal collettivo accademico Forensic Oceanography dell’Università di Londra si sono confrontati, nel giardino del Mattatoio, il ricercatore Lorenzo Pezzani, la giornalista Annalisa Camilli e le studiose Angelica Pesarini, Camilla Hawtorne, Françoise Vergès e nuovamente Elsa Dorlin. Un incontro di oltre tre ore, che però ha avuto un ottimo riscontro di pubblico, come conferma Francesca Corona:

 

«È veramente incredibile l’interesse e l’appassionamento che c’è, proprio la necessità anche di ascoltare queste voci, di ascoltare queste personalità che prendono la parola, di ascoltare un modo preciso di parlare, di nominare le cose».

 

Avviato nel 2011, Forensic Oceanography punta i riflettori sul Mediterraneo ed esamina gli elementi politici, spaziali ed estetici dello spazio che Lorenzo Pezzani, uno dei componenti del gruppo di ricerca, definisce «la frontiera più militarizzata e pattugliata d’Europa». Liquid Violence è un percorso di installazioni articolato in quattro indagini sviluppate negli ultimi nove anni, ognuna delle quali affronta una specifica modalità di violenza perpetrata dall’Unione Europea nei confronti dei migranti. Ha spiegato sempre Lorenzo durante il lungo incontro introduttivo: «Non soltanto gli stati devono avere il diritto e la possibilità di raccontare per immagini quello che accade nel Mediterraneo o, più in generale, ai confini». Ad ampliare lo sguardo, dell’edizione appena conclusa di Short Theatre, sul regime estetico delle frontiere ha contribuito anche lo spettacolo teatrale Illegal Helpers: la regista Paola Rota e l’attrice Simonetta Solder, con il supporto musicale di Teho Teardo, hanno messo in scena il testo che la scrittrice italo-tedesca Margareth Maxi Obexer ha composto collezionando interviste e dialoghi con persone che aiutano, in diversa maniera, migranti e richiedenti asilo, anche a costo della propria sicurezza e stabilità esistenziale. «Sono due anni ormai che vogliamo invitare Forensic Oceanography», ci confessa Francesca Corona. «L’organizzazione del festival è un po’ come costruire una città: fai prima le strade principali e poi via… Diciamo che Liquid Violence è uno dei primi palazzi che abbiamo messo nella mappa. Poi c’è stata la possibilità di invitare Paola, Simonetta e Teho con il lavoro sugli “illegal helpers” e abbiamo pensato immediatamente che i due lavori risuonavano in modo specifico, diretto. Allo stesso tempo Illegal Helpers doveva essere lunedì, però per noi era troppo metterlo il giorno dell’apertura di Liquid Violence: era troppo far emergere questa simmetria, suggerirla così apertamente allo spettatore».

Le diverse, ma ugualmente strazianti testimonianze offerte da Liquid Violence e Illegal Helpers rappresentano forse i vertici d’intensità della quindicesima edizione di Short Theatre. Una rassegna che ha suggerito, anche nella sua sezione musicale, traiettorie inedite: dalla trap d’avanguardia (per suoni e temi) della francese Lala &ce al krautrock sintetico del tedesco Felix Kubin, passando per i ritmi onnivori e centrifughi dell’olandese DJ Marcelle, verissima mattatrice della penultima giornata del festival, è chiara la volontà di muoversi ai margini, di essere sempre “eccentrici”.

 

«Cioè di non avere l’esigenza di governare dal centro, ma più di creare delle condizioni per cui le cose accadano», precisa la curatrice Francesca Corona.

 

Che conclude: «Sono grata della possibilità che è questo festival, della possibilità che è stata per me, che è stata e che è per le persone che ci lavorano, per gli artisti che si ritrovano insieme in questo spazio. E per il pubblico che lo segue, così preciso, attento… Anche così indulgente nel senso di non giudicante: non viene per dire una cosa è bella o è brutta, ma viene per partecipare. Short Theatre è un festival super-attaccato al reale. È davvero un trattino, un punto di congiunzione tra molti mondi. E spero che questo rimanga nel Dna del festival o che ne formi i presupposti. Ma che poi possano essere intesi in modo assolutamente diverso, senza che noi ne continuiamo a definire i confini».

 

Foto di Nicolò Arpinati