ITALIA

“Quella di Castelnuovo di Porto è stata una rappresaglia, ma il Cara non era un posto da difendere”

Continuano le deportazioni dal Cara di Castelnuovo di Porto. Eppure, per chi l’ha conosciuto, il centro non era un modello positivo di integrazione. Ne abbiamo parlato con Francesca De Masi, attivista e operatrice nel campo dell’immigrazione

Martedì 22 gennaio, con una decisione improvvisa, la Prefettura di Roma su indicazione del Ministero degli Interni ha disposto l’immediata chiusura del Centro di Accoglienza per i Richiedenti di Asilo (CARA) di Castelnuovo di Porto vicino la Capitale. Con l’intervento dell’esercito, le circa 500 persone ospitate nel centro sono state forzatamente trasferite in luoghi pressoché ignoti. Molte sono state le proteste di amministratori, cittadini e attivisti che hanno denunciato come una vera e propria deportazione l’intera operazione. Ne abbiamo parlato con Francesca De Masi, attivista della rete Restiamo Umani e operatrice nel campo dell’immigrazione che con l’associazione Be Free ha seguito, anche nel Cara di Castelnuovo, i processi di emersione delle donne migranti dai casi di tratta e sfruttamento.

 

Le operazioni di trasferimento dei 500 migranti dal centro di Castelnuovo sono ancora in corso. Come sono avvenute?

Non si capisce il motivo di una chiusura così improvvisa, le notizie sono molto frammentate. Ci sono partenze di pullman ogni giorno, senza che nessuno abbia informato le persone del luogo in cui andranno a finire. Quello che è più grave, è che non viene tenuto minimamente in conto della loro progettualità di vita: non è stato chiesto loro se avevano punti di riferimento a Roma, neppure a che punto fosse la loro richiesta di protezione internazionale e se, per esempio, avessero già visto la commissione. Le modalità sono stata quelle di una vera e propria deportazione, le persone sono state prese senza sapere fino all’ultimo dove sarebbero state portate. Si è detto «gli uomini in Basilicata, i nuclei familiari in Piemonte…» ma in realtà le destinazioni sono molto più frammentate. I trasferimenti sono ancora in corso e molte persone si stanno giustamente rifiutando di partire, rischiando così di perdere il diritto all’accoglienza. È un vero caos, un inferno. Molti avvocati si sono recati lì fin da ieri (martedì) cercando di dare un sostegno legale ai migranti.

 

Come operatrice della Associazione Be Free, ti sei occupata e ti stai occupando anche in queste ore delle donne vittime di tratta e sfruttamento. In che modo questa operazione impatta sulla loro condizione?

Nessuno ci ha chiesto nulla rispetto al pericolo che potrebbero correre queste donne se venissero trasferite nelle città da cui sono scappate perché vittime di sfruttamento. In questo senso, è una situazione molto preoccupante. Abbiamo chiamato le nostre assistite, una per una, proprio per capire come intervenire su ogni caso. Ma non ho molte speranze perché questi trasferimenti sono eseguiti come una vera rappresaglia.

 

La chiusura del centro ha suscitato molta indignazione su una parte della stampa. Tuttavia in molti commenti e nelle dichiarazioni di alcuni amministratori ed esponenti politici dell’opposizione, alla denuncia delle modalità della chiusura si sono spesso unite giudizi molto positivi sul centro di Castelnuovo di Porto. Si è detto da più parti che il Cara fosse «un modello positivo di accoglienza». Tu che hai conosciuto il centro prima della sua chiusura, cosa ne pensi?

Il Cara di Castelnuovo non è un luogo da rivendicare. È un centro di accoglienza del tutto fatiscente, con 600 persone all’interno. Gli operatori non conoscono neanche i nomi delle persone ospitate, perché è un luogo eccessivamente sovraffollato, fin troppo congestionato. Non a caso, ci sono state molte proteste in passato rispetto ai tempi di attesa della commissione territoriale, rispetto al cibo… Qualche anno fa, una parte del centro si allagò e fu resa inagibile. Le donne che seguiamo ci parlano di cimici dentro i letti. Inoltre bisogna tenere conto che è un luogo molto isolato, è un ex edificio della protezione civile che si trova molto fuori dal paese: per raggiungere il primo bus disponibile si devono fare chilometri.

Non è un posto da difendere. Detto questo, rimane vergognoso il modo in cui queste persone sono state deportate: ci fosse stata una chiusura con una programmazione step by step, avremmo potuto parlare di una vittoria, proprio perché il Cara di Castelnuovo di Porto è sempre stato considerato, dalle associazioni e dai movimenti, come un luogo critico dal punto di vista della tutela delle donne e degli uomini migranti che ci stavano dentro. Adesso però la situazione è diventata ancora più critica, perché a queste già pessime condizioni di partenza si aggiunge ora un trasferimento in barba a qualsiasi progettualità delle persone.

 

Quello del Cara di Castelnuovo di Porto è un evento che si inserisce in un momento particolarmente drammatico per la condizione delle e dei migranti in Italia a causa delle ultime misure del Governo. Come attivista di movimento, come credi che sia necessario ripensare l’azione politica?

Non basta più sostenere i migranti nelle loro problematiche quotidiane. Come attivisti e militanti dobbiamo metterci in discussione rispetto a un qualcosa che sta cambiando anche le nostre vite. Gli effetti delle politiche del Governo e del Ministro Salvini non riguardano solo le persone che muoiono in mare o che vengono accolte in un modo non dignitoso. Riguardano anche noi. Non dobbiamo vedere i migranti come un qualcosa di estraneo. Unire le lotte vuol dire riconoscere che quello che stanno togliendo a queste persone intacca anche la nostra condizione.