approfondimenti

ITALIA

Quel che ci racconta la strage di Suviana

A più di una settimana dalla “strage” di Suviana, dove sono morti sei operai e un consulente, dobbiamo dire che il paradigma del lavoro come diritto sia ormai passato, e che la cultura del lavoro in Italia stia diventando sempre più una cultura di morte

Ormai è passata più di una settimana da quella che possiamo definire la “strage” di Suviana dove a seguito di una terribile esplosione avvenuta durante i lavori si collaudo della centrale idroelettrica a ridosso dell’omonimo lago, sei operai di una ditta esterna e un consulente che stavano lavorando al collaudo sono rimasti uccisi a seguito dell’esplosione avvenuta all’interno. Il resto dei lavoratori presenti ha subito dei gravi infortuni. 

Passati i giorni del cordoglio rimane la rabbia per queste morti sul lavoro ma, al di là del dato emotivo, possiamo provare a riflettere intorno a questo evento, per verificare come il paradigma del lavoro come diritto, legato a vincolo di solidarietà e partecipazione, in quanto “bene della vita” sia un retaggio di una stagione di espansione dei diritti, ormai passata.  

È opportuno essere chiari, anche a costo di esporsi a polemiche, ma la cultura del lavoro in Italia, sta diventando cultura di morte. È un fatto che l’insieme di norme giuridiche, prassi aziendali e, alcune convenzioni di natura negoziale e sindacale – sebbene non in maniera totalmente conscia – considerano l’idea della morte come un costo e un’alea sopportabile per garantire profitti e rendite.

Solo in questo modo si può spiegare l’inquietante dato di infortuni e morti sul lavoro, annualmente dichiarato dall’Inail. 

Segnatamente, restringendo il campo al 2023 e al primo trimestre del 2024, secondo l’Inail: le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Istituto nel primo mese del 2024 sono state 42.166 (+6,8% rispetto al gennaio 2023), 45 delle quali con esito mortale (+4,7%); in aumento anche le patologie di origine professionale denunciate, che sono state 6.218 (+30,7%).

Inoltre, secondo i dati pubblicati dall’INAIL nel report “Andamento degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali”, nel 2023 le denunce di infortunio sono state 585.356, (nel 2022 sono state 697.773), mentre i decessi sul lavoro, denunciati e rilevati al 31 dicembre, sono stati 1.041.

Tali dati, comparati anche alla continua erosione dei diritti delle lavoratrici e lavoratori negli ultimi 30 anni (abolizione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, introduzione dei contratti a termine e espansione del lavoro in somministrazione, introduzione del Jobs Act ecc…), ci mettono davanti all’amara considerazione che il lavoro è tornato a essere mera merce, «merce umana» , secondo la puntuale definizione di Karl Marx: «tale è la «merce umana» ossia l’operaio. Il capitalista compra la sua forza-lavoro pagandola come qualsiasi merce, secondo il valore corrispondente alla quantità di lavoro socialmente necessario a produrla, che nel caso dell’operaio corrisponde al salario».

Ovviamente, se si assume come plausibile questa considerazione, non si può non affermare come, la stagione dei diritti e principi fondamentali di ispirazione universale e solidaristica, che ha caratterizzato il secondo dopoguerra, può ritenersi conclusa, ciò a maggior ragione per quanto riguarda il diritto del (e al) lavoro.  

Il lavoro oggi è frutto di un paradosso evidente: da un lato i processi di informatizzazione e tecnologizzazione determinano dei processi produttivi estremamente avanzati, dall’altro le condizioni e le tutele sul lavoro nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori, sono più simili, (soprattutto in alcuni settori produttivi) a quelle presenti nella prima parte del 900 piuttosto che a quelle introdotte con l’avvento delle democrazie e del capitalismo di stato, del secondo dopoguerra. 

Da questo punto di vista, la divaricazione tra i principi inscritti nella Costituzione e la costituzione materiale, è sempre più profonda; divaricazione, a mio avviso non più recuperabile, che non prevede alcuna inversione a U, per rinnovare quel reticolato di principi e valori che individuava nel lavoro il titolo fondamentale di appartenenza e di partecipazione alla vita della comunità e riferimento essenziale per lo sviluppo della personalità. 

Come noto, a dare corpo e sostanza a tali principi era stata poi quella importante stagione di lotte, prassi sociali e sindacali, convenzioni e partecipazione collettiva che è stata in grado di far diventare cogente, e dunque norma, gli interessi di una parte consistente dalla società italiana e che ha prodotto una stagione di legislazione progressiva che tra le importanti leggi prodotte ha introdotto nel nostro ordinamento lo Statuto dei lavoratori. 

Per essere più precisi, è stato il concorso di vari fattori sinergici ha determinato le condizioni per la costruzione del diritto del lavoro quale branca compiutamente autonoma e speciale del diritto dei contratti: l’emanazione di una legislazione di tutela forte del lavoratore che favoriva l’accesso alla giustizia, veicolato da organizzazioni sindacali molto attive e diffuse sul territorio; un movimento autorevole ed esteso nel Paese per l’emancipazione sociale delle classi non abbienti; un sistema industriale a elevato impiego di manodopera che creava un ambiente fertile per il proselitismo sindacale e la coesione dei lavoratori su rivendicazioni di miglioramento delle condizioni di lavoro; la vocazione all’impegno professionale connesso alla elaborazione delle nuove norme sostanziali e processuali da parte della magistratura culturalmente sensibile a questi temi e con una piena adesione ideale verso l’attuazione dei valori costituzionali.

Non è un caso che uno dei grimaldelli, in grado di scardinare l’opposizione padronale, al fine di rendere il lavoro, coerente con i principi previsti nella carta costituzionale, siano state il ciclo di lotte contro la nocività e i rischi sulla salute e incolumità delle lavoratrici e dei lavoratori, che ha animato più di un decennio a cavallo tra i ‘60 e i ‘70.

In particolare, non si può ignorare il lavoro politico-sindacale svolto a partire dal ‘67 dai collettivi di operai e tecnici che agivano presso gli stabilimenti di Porto Marghera e che coniò il concetto di “tossicità del lavoro” direttamente legata alla “strategia del rifiuto” operaista, il rifiuto del lavoro. In questa prospettiva, il lavoro capitalista è produzione di capitale e quindi riproduzione di una società di sfruttamento. La lotta di classe non è allora intesa come un’affermazione del lavoro in quanto valore positivo, ma come negazione.

Che cos’è il lavoro oggi?

Era prevedibile, in una prospettiva storica, che la legislazione di tutela dei diritti dei lavoratori e l’elaborazione giurisprudenziale che ne è seguita – in sintonia con l’assunzione del lavoro a valore fondativo della Costituzione repubblicana (art. 4 secondo comma), titolo di legittimazione alla effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese – determinassero una reazione ideologica avversa, di insofferenza al controllo prima sindacale e poi giudiziario. E la reazione si è espressa sia nella elusione delle discipline legali e contrattuali, sia nella divulgazione di un pensiero strutturato di contestazione della utilità sociale di qualsiasi forma di vincolo contrattuale alla libertà di impresa nella gestione della forza lavoro e dei relativi costi. 

Come anticipato, il sistema industriale è andato trasformandosi con l’introduzione massiccia di nuove tecnologie, con l’affidamento all’esterno delle attività accessorie e con la modificazione degli schemi di produzione: il modello del just in time implica la massima elasticità della offerta per adattarsi alla domanda, senza accumulo di scorte e dunque, si predica, una organizzazione del lavoro con elevato grado di flessibilità.  Vari studi e ricerche hanno invece dimostrato che la riduzione delle tutele e la flessibilizzazione del mercato del lavoro, che sulla spinta ideologica di un pensiero teorico indimostrato si sono frattanto attuate nei paesi occidentali, hanno determinato una deflazione dei salari e una redistribuzione del reddito nazionale a favore delle rendite e dei profitti.

A oggi, è sempre più marcata la tendenza a connettere la prestazione di lavoro alla compromissione dello stato di salute e psicologico delle lavoratrici e dei lavoratori.

Il diritto alla salute, alla messa in atto di dispositivi e tutele necessarie, da parte dei datori di lavoro, per non compromettere la vita di lavoratrici e lavoratori  a fronte di un salario (tendenzialmente basso), viene sempre più percepito come un “fastidio”, un costo superfluo che impedisce all’attività di impresa di intraprendere liberamente la propria attività e  di ricavarne profitto. 

Fastidio, spesso condiviso anche dallo stesso legislatore, come fatto emergere anche dalla Corte Costituzionale nel 2018 (sentenza N. 58 del 7/2/2018, dep. il 23/3/2018), in merito all’adozione da parte del Governo, di una dei tanti decreti salva Ilva; il Giudice delle Leggi ha così ribadito che il legislatore ha facoltà «di intervenire per salvaguardare la continuità produttiva in settori strategici per l’economia nazionale e per garantire i correlati livelli di occupazione, prevedendo che sequestri preventivi disposti dall’autorità giudiziaria nel corso di processi penali non impediscano la prosecuzione dell’attività d’impresa»,  ma che ciò «può farsi solo attraverso un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco».  Nel caso in esame, ha affermato la Corte, il legislatore non è intervenuto con un ragionevole bilanciamento degli interessi contrapposti, così «incorrendo in un vizio di illegittimità costituzionale per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori, a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio della stessa vita».

Tuttavia, tale tendenza non è stata invertita, la pandemia Covid ha evidenziato ed esacerbato uno stato di cose esistente da ben prima: la salute delle lavoratrici e dei lavoratori può essere messa a rischio dalla mera necessità di presentarsi sul posto di lavoro.

Insomma, il lavoro, da “bene della vita”, torna a trasformarsi – come quasi un secolo fa – a prodotto a favore dei datori di lavoro, che agisce tendenzialmente contro la vita delle lavoratici e dei lavoratori. 

Nei paragrafi precedenti, mi sono permesso di sostenere che non è possibile invertire la rotta e riportare la concezione del lavoro all’interno dei principi valori e norme, che lo hanno caratterizzato nel secondo dopoguerra, fino ai primi anni ‘80. Ovviamente, con ciò non si vuole affermare alcuno afflato fatalista, né tantomeno una ineluttabilità dello stato delle cose. Semplicemente si vuole dire che, per invertire la rotta, è necessario avere il coraggio di immaginare una grammatica nuova, all’altezza delle trasformazioni dei processi produttivi e di sfruttamento che stiamo vivendo. 

Solo in questo modo si può recuperare un piano empatico ed emotivo che ci permetta di vedere tragedie come quelle di Suviana (o Firenze qualche mese prima) per ciò che sono: non una fatalità, ma il frutto di decenni di politiche sul lavoro, che fanno della salute un costo sopportabile. 

Abbozzo delle piccole ipotesi di lavoro. In primo luogo bisogna fermarsi. Impariamo dal movimento transfemminista e della ridefinizione dello sciopero come strumento di lotta efficace. Dobbiamo avere il coraggio di aprire un dibattito che investa direttamente la società ed esca dalla cappa asfissiante della competizione sindacale sulla percezione di cosa sia il lavoro oggi: una merce? ancora un diritto? In secondo luogo, dobbiamo fare un utilizzo tattico delle norme e istituzioni esistenti e forzare sull’introduzione di nuove tutele anche dal punto di vista giurisprudenziale. E in ultimo dobbiamo incontrarci su un programma minimo: salario, reddito, riduzione dell’orario di lavoro.

Tutte le foto da Filea Cgil