POTERI

Parlamento, tra democrazia virtuale e postdemocrazia

Proseguiamo il dibattito su quello che sta accadendo in questi giorni nelle aule della rappresentanza politica. Dopo l’articolo di Giuliano Santoro La guerra civile simulata, proseguiamo il dibattito ripubblicando interventi di Bascetta, Piperno e Raimo

La democrazia virtuale del Movimento 5 Stelle

di Franco Piperno

Premessa: “virtuale” è un termine che perviene a noi dal latino scolastico medievale, ed equivale a “fittizio” o anche a “irreale”; virtuale è l’immagine nello specchio; virtuali sono le particelle elementari la cui esistenza è solo ipotetica, utili per far tornare i conti, per soddisfazione della teoria, ma definitivamente non-osservabili in linea di principio.

Il movimento M5S ha introdotto a livello mediatico, nell’opinione pubblica italiana la parola “democrazia diretta”, contrapponendola a quella parlamentare. Fosse solo questo il risultato conseguito da quel movimento sarebbe comunque sufficiente a salvare l’anima di Beppe Grillo e dei suoi. Introdurre le parole giuste nel dibattito pubblico è assai importante per la vita civile e morale del nostro paese; ma certo non basta, bisogna che al nome corrisponda la cosa, all’idea una condotta conseguente.

Qui si pone un primo notevole ostacolo alla crescita del movimento: la forma organizzativa che gli è propria, il modo come si assumano le decisioni al suo interno,non ha pressoché nulla a che fare con con la tradizione, con gli istituti della democrazia diretta. La rete non è in alcun modo l’Assemblea; questa,come è ovvio, è incentrata sulla presenza, sui corpi in presenza. La comunicazione nella discussione assembleare è potente proprio perché comporta il coinvolgimento dei cinque sensi : con parole, sguardi, gesti,si svolge tutto a livello di senso comune.

Al contrario, nella rete prevale l’astrazione, la cattiva astrazione. Il militante è un fruitore del WEB, partecipa alla formazione delle decisioni in una solitudine qualche po’ masturbatoria,dando il suo irrevocabile consenso o negandolo in astratto, senza che gli occhi degli altri gli ricordino la responsabilità del decidere sulle cose comuni, senza che le parole degli altri lo aiutino a pronunciare le sue, a rievocare la natura d’animale politico,di potenziale uomo pubblico, insomma a dare il meglio di sé.

Attraverso la rete, il militante-fruitore è costretto in una dimensione binaria, ridotto alla scelta minima, solo tra “il sì ed il no” — come accade nei plebisciti, pudicamente chiamati referendum.

L’errore politico del movimento M5S nasce da una illusione cognitiva, per altro assai diffusa, che scambia l’informazione con la comunicazione. La rete è un formidabile dispositivo per rendere l’informazione abbondante, anzi a tutti i fini utili, illimitata. Ma l’informazione di per se non contiene alcun significato, è priva di “senso”; mentre, per contro, la comunicazione è trasmissione di significati, azione portatrice di senso. Valga come esempio il fatto che le due sillabe –Sì e No– contengono esattamente la stessa quantità d’informazione ma i significati possono essere drammaticamente divergenti.

La predominanza attribuita alla rete, e quindi all’informazione, produce un deperimento della presenza– come ben si vede dai successi elettorali del movimento ai quali non corrisponde alcun radicamento, o quasi, nei luoghi,nelle città.

M5S sembra pericolosamente avvolto in una pratica di democrazia virtuale che rischia di stremarlo, facendolo apparire, per altro ingiustamente, come fosse un esperimento sì di democrazia diretta ma diretta da Beppe Grillo.

Governabilità o democrazia

di Marco Bascetta da il Manifesto del 30/02/2014

Le regole della caccia alla volpe interessano perlopiù i signori che la praticano. E, suo malgrado, la volpe. Difficile immaginare che un intero popolo vi si possa appassionare.

Altrettanto lecito è dubitare che gli italiani fremano per i dispositivi e le norme di quella nuova legge elettorale che i media pongono ripetutamente e quotidianamente al vertice delle loro più impellenti aspirazioni.

Assai più probabile è che desiderino presto un qualsivoglia risultato per non sentirne parlare più e passare ad altro.

Del resto, già il latino maccheronico correntemente impiegato nel designare le diverse leggi elettorali è indice dell’atmosfera provinciale e comicamente liturgica in cui tutto il dibattito si svolge per partorire, alla fine, qualcosa di assai simile al già noto. Laddove in questione sono assai meno le forme della democrazia che non la distribuzione delle risorse di potere tra forze politiche in disastrosa crisi di senso e di rappresentanza.

Le argomentazioni che i maggiori costituzionalisti italiani hanno opposto al progetto di legge concordato da Renzi e Berlusconi non potrebbero essere più sensate. Ma si tratta di un esercizio di razionalità politico-giuridica che difficilmente potrà incidere su una storia già ampiamente scritta, non solo in Italia e non da ieri. Converrà allora risalire alle spalle dell’ingegneria normativa che infesta le prime pagine per collocare lo stato comatoso in cui versa la democrazia rappresentativa nel contesto, sempre più decisamente postdemocratico, che gli è proprio.

La parola chiave da cui si deve partire è «governabilità». Non risale alla notte dei tempi, ma agli anni ’80, per poi celebrare il suo trionfo con il passaggio dal proporzionale al maggioritario nel 1993. Lungi dal rappresentare un concetto tecnico-giuridico il principio della «governabilità» è di natura strettamente e squisitamente politica ed è anche piuttosto semplice: consiste nel mettere i governanti al riparo dai governati, almeno per il tempo che intercorre tra una scadenza elettorale e l’altra. Ed è talmente pervasivo, in questa sua semplicità, da potersi applicare a uno stato nazionale, a una fabbrica, a una università, a un sindacato (lo sa bene il segretario della Fiom Maurizio Landini nel condurre la sua battaglia per la democrazia sindacale), in breve a qualsivoglia organismo collettivo, con diversi gradi di potere disciplinante e di durata. Ed effettivamente a tutte queste realtà è stato in diversa misura applicato.

Questa prerogativa del comando consiste in primo luogo nell’escludere la possibilità stessa delle «crisi di governo» e cioè l’eventualità che di fronte all’esplodere di contraddizioni sociali e politiche il quadro governativo si trovi costretto a scomporsi e ridisegnarsi.

La «governabilità» garantisce invece che, per il tempo privo di incertezze del suo mandato, la maggioranza parlamentare e il suo governo possano esercitare il più pieno arbitrio senza mettere a repentaglio la propria stabilità. Una tendenza alla facilitazione del comando, o riduzione della complessità come la chiamavano i teorici più raffinati, che nessun bilanciamento istituzionale, e men che meno la corruttibile «libertà di coscienza» dei rappresentanti, potrà più rimettere in questione.

Governi, è ovvio, ce ne sono sempre stati, anche nelle fasi di maggiore instabilità (che sovente corrispondevano a quelle di maggiore sviluppo), soggetti, tuttavia, a quella necessità di adattamento alla turbolenza dei governati che il principio di «governabilità» intende radicalmente rimuovere. La crescita costante dell’astensionismo è il segno più evidente del diffondersi del senso di impotente distanza da parte dei governati e, nei casi meno rassegnati, di ostilità, che la blindatura del quadro politico determina.

Ma «governabilità» è anche la bandiera dei partiti maggiori, i quali rispondono alla stessa logica delle grandi concentrazioni economiche impegnate nella competizione entro un orizzonte comune. Questo orizzonte comune o «regola condivisa» non è che la dottrina della competitività liberista nonché la pretesa a una libertà di azione che non ammette vincoli né discussioni. Quando si dice che l’economia domina la politica, si intende soprattutto che la seconda si ridisegna secondo gli schemi e le forme della prima. Ed è esattamente quello che i grandi partiti monopolistici stanno facendo nell’approntare le condizioni normative che rendano possibile questo adeguamento. Senza troppo discostarci dalla realtà potremmo considerare le primarie come una assemblea degli azionisti, la direzione politica come un consiglio di amministrazione, il segretario come un amministratore delegato e le elezioni politiche come la competizione su un mercato che non lascia più spazio agli outsiders o alle piccole imprese più o meno artigianali.

È questo carattere postdemocratico dell’ordine liberista, e il riconoscimento comune delle regole che vi presiedono, ciò che nella sostanza sottende l’accordo tra il Pd di Matteo Renzi e la rinata Forza Italia di Silvio Berlusconi. Così come i listini della Borsa anche il duopolio politico non prevede «alternativa», ma solo alternanza delle rispettive quotazioni sul mercato. La nuova legge elettorale costituisce un efficace adeguamento della politica a questo schema. Le «larghe intese», che si pregia di aver superato per sempre, non erano in fondo che una applicazione diversa di quello stesso dogma della «governabilità» ad ogni costo che essa sancisce nella dottrina dell’alternanza. Nell’un caso e nell’altro si tratta di cancellare la conflittualità sociale dalla vita collettiva.

La dimensione postdemocratica è ciò che sempre più accomuna il governo dell’Europa a quelli dei singoli stati che la compongono e che contribuiscono in maniera decisiva a ostacolarne l’evoluzione politica e conservarne la rigidità tecnocratica. Non c’è da aspettarsi alcuna democratizzazione dell’Unione da parte di sovranità nazionali alle prese con la riduzione dei propri spazi democratici interni.

Semmai il contrario, secondo la generosa e azzardata ipotesi di Etienne Balibar che auspica un’Europa più democratica di tutti gli stati che la compongono.

È solo su questa scala che un movimento politico e un concorso di forze che parlino una lingua diversa dal latino maccheronico potrebbero rovesciare la «regola comune» cui i nostri monopolisti politici, nazionali e sovranazionali, vorrebbero piegare le società europee.

Contro la traformazione

di Christian Raimo dal blog Minima et Moralia

Potrei scrivere questo piccolo post parlando di Beppe Grullo e del Movimento Cinque Stallo, oppure – gonfiando le labbra di vis polemica – anche del Movimento Cinque Stronzi, oppure realizzare uno di quei fotomontaggi che vanno tanto in home-page sul blog beppegrillo.it; insomma potrei usare quella modalità infantile che critica i politici storpiandone i nomi, allungandogli i nasi o le orecchie, seguendo una tradizione di stampo francamente fascista e neo-fascista, e oggi invalsa ormai nelle nostre retoriche politico-giornalistiche, da Emilio Fede a Marco Travaglio a Dagospia, come retaggio probabilmente dell’influenza comune da un Indro Montanelli, diventato (per i disastri dell’antiberlusconinsmo) in anni recenti una specie di baluardo dell’informazione libera e della sinistra.

Potrei insomma commentare il casino parlamentare di oggi, ieri e l’altroieri, alzando semplicemente gli occhi al cielo, con un’indignazione esponenziale, per l’impeachment contro Napolitano, gli insulti alla Boldrini, i boia chi molla attribuiti alla tradizione risorgimentale, i siete entrati in Parlamento facendo i bocchini… Uno – il coram populo grillesco – dice: era una esasperazione legittima, una reazione. Difficile non essere d’accordo che mettere insieme nella stessa votazione Bankitalia e Imu era un mezza zozzeria, e che la questione Bankitalia (la rivalutazione delle quote) sia stata affrontata in modo discutibile nel merito e nel metodo. D’altra parte però è molto chiaro come la violenza pentastellata è tanto più forte mediaticamente quanto più è debole, inefficace, reazionaria, dal punto di vista della rappresentanza del conflitto politico.

Quest’ultima settimana in Italia, tanto per dire, è stata caratterizzata da almeno tre episodi politici rilevanti che avrebbero avuto bisogno di una presenza conflittuale forte. Uno è la vicenda Electrolux, sulla quale Grillo ha fatto la solita sparata antistatale, approssimativa, livorosa, da autobus nell’ora di punta: “L’Italia ha tra i più bassi stipendi d’Europa e il costo del lavoro più alto. Non è una contraddizione. Quasi tutto si perde per strada come in una conduttura bucata. Tra l’azienda e le maestranze c’è il pappone: lo Stato”. Fine dell’impegno.

La seconda è la vicenda dei migranti del CIE di Ponta Galeria che si sono cuciti le bocche in segno di protesta. Su questo teatro emergenziale, terribile, Grillo al solito è stato assente e muto. La sua retorica cianciona, gabibbesca, qui non funziona. Se si tratta di difendere gli indifesissimi, Grillo non si espone. Se uno cerca una qualunque dichiarazione di Grillo o qualcuno del Movimento Cinque Stelle in tutta questa legislatura a proposito di migranti e CIE troverà rarissime frasi elusive (nel migliore dei casi).

Termina la lettura su minimaetmoralia.it