OPINIONI

Opinioni referendarie di Ferragosto

Questa è un’opinione nel senso più ozioso, sia per l’oggetto che per il luogo di enunciazione. L’oggetto è il voto referendario confermativo, senza quorum, del 20-21 settembre sulla legge costituzionale che riduce drasticamente il numero dei parlamentari – una cosa che a quella data non gliene può fregare di meno a operai sotto licenziamento, cassintegrati, lavoratori anomali gettati sulla strada , partite Iva in sofferenza e studenti in bilico fra banchi monoposto e didattica a distanza.

Il luogo di enunciazione non è un soggetto politico (dio ne scampi dall’aggregarci a infidi o neoliberali comitati per il No) ma uno stato d’animo di sdegno e rifiuto per tutto il processo pseudo-referendario, promosso contro ogni logica dai parlamentari favorevoli e non da quelli contrari alla legge: in pratica una farsa anti-politica inscenata ricattatoriamente dal M5S e cui si sono accodati con minore o maggiore entusiasmo tutti gli altri partiti per timore di perdere la faccia.

Non sono un fautore della democrazia rappresentativa. Sono consapevole che tale regime e lo stato di diritto,  come ben spiegato da Immanuel Kant e Benjamin Constant, si oppongono direttamente alla democrazia degli antichi e alla repubblica moderna machiavelliana e giacobina, che essi costituiscono una forma di dittatura democratica della borghesia in una “antiquata” terminologia marx-engelsiana che continua a essermi cara.

Il regime rappresentativo, che non condividiamo, ha subito tuttavia un’evoluzione storica. Non c’è motivo per rallegrarsi di un suo passo indietro, di un regresso autoritario. Per esempio, se si intendesse tornare a un censo per l’elettorato  attivo e passivo. Se si sopprimesse il suffragio femminile. Se si volesse ridurre il numero dei parlamentari per depotenziare “la casta”.

Gli inglesi non erano più liberi per il solo fatto di sceglierai i loro padroni una volta ogni quattro anni – affermava recisamente Jean-Jacques Rousseau. La dittatura della borghesia non sarà meno dura se esercitata nominalmente da 600 piuttosto che da 900 rappresentanti del popolo.

 

Ma fa qualche differenza se, ferma restando l’assenza di mandato imperativo, il taglio dei parlamentari diluisce il rapporto fra rappresentante e costituency territoriale, diminuisce il peso delle minoranze, compromette l’efficienza e quindi l’influenza assembleare rispetto all’esecutivo.

 

Ancora peggiore è  il retroterra ideologico dei promotori della legge costituzionale oggi sottoposta a referendum, cioè di un M5S che difende questa bandierina anti-kasta, una volta rovinati per cattiva gestione altri provvedimenti più interessanti quali il reddito di cittadinanza o il decreto dignità. Laddove il populismo della destra con la sua odiosa retorica (zingari, migranti cannibali, flat tax, libertà dalle misure sanitarie), è organico al discorso delle forze politiche che in Italia la costituiscono e quello di sinistra è del tutto latitante, a differenza dall’America Latina e dalla Spagna, il populismo di centro pentastellato, che è la nostra specialità culinaria, risulta del tutto inutile nella dialettica parlamentare, incapace di legarsi stabilmente alla destra ma paralizzante in coalizione con la sinistra e – va da sé – incapace di raggiungere una maggioranza autosufficiente e ancor più di elaborare un programma concreto in una situazione eccezionale di crisi.

La necessità di mantenere in qualsiasi modo una coalizione, per evitare di andare a elezioni anticipate disastrose e di cedere il potere a una destra sciagurata prima ancora che fascista, costringe un Pd sotto ricatto (ma prima ancora indeciso su tutto di suo, dopo il naufragio della “terza via”) ad accettare la riduzione del numero dei parlamentari – così come altre stranezze pentastellate e soprattutto l’orientamento anti-migranti e la riluttanza ad abrogare i famigerati decreti Sicurezza– senza neppure avere la contropartita compensatoria di una legge elettorale proporzionale, che attenuerebbe il successo delle destre in termini di seggi.

Qui entrano in gioco altri ricatti nella composita maggioranza (che riflette il peso degli schieramenti di due anni fa, oggi radicalmente alterati): per esempio il favore dei renziani a una legge maggioritaria (che non converrebbe neppure a loro) solo per contrattare un livello più basso della soglia minima di rappresentanza.

Dai sacrifici del Pd per mantenere l’attuale maggioranza – che peraltro potrebbe saltare per una più che probabile scissione del M5S – deriva un sostanziale immobilismo in cui la gestione politica è garantita soltanto dalla paura di Salvini e dal terrore dei peones pentastellati e renziani per nuove elezioni che li spazzerebbero via. Insomma, il governo di Giuseppi con i suoi DPCM, in una perenne emergenza a sua volta garantita dalla convivenza a tempo indeterminato con il Coronavirus.

 

Quanto tutto ciò sia letale a medio periodo per il nostro Paese è piuttosto evidente e può interrompersi soltanto con una ripresa massiccia di conflittualità e di progettualità alternative per venir fuori dalla crisi.

 

Perdere tempo con le manovrine costituzionali e gli spot anti-kasta quale lo scandalo, non innocente, sui percettori pezzenti del contributo Covid Iva, è un diversivo che non merita neppure il titolo di arma di distrazione di massa.

Per questo votare NO a questo referendum fasullo, per cui tutti i partiti sono d’accordo a suicidarsi nella speranza che agli altri vada peggio, è forse un gesto non inutile per resistere alla deriva reazionaria e all’impaludamento con cui ci si illude di bloccarla. Non fino al punto di lanciare un appello, ma almeno per offrire una testimonianza che in futuro potrebbe avere un qualche valore. Cosa pretendere di più a Ferragosto?