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OPINIONI

La democrazia del contest? Le mistificazioni di chi vuole comandare

Il premierato è la democrazia del contest, forse più pop, ma non più incentrata sulla sovranità popolare con la sua pluralità e i suoi irriducibili conflitti in nome della uguaglianza politica e sociale

Il disegno di legge costituzionale del governo sul premierato rappresenta una proposta di rottura rispetto al nostro ordinamento costituzionale e forse per questo si avvale di un alone di mistificazione. Per riportare alle sue vere dimensioni la proposta di scegliersi direttamente il capo è necessario, quindi, disvelare l’alterazione della verità operata dal governo nella proposta presentata in Parlamento.

La prima mistificazione in realtà non è di rottura ma in continuità con i precedenti revisionismi: così come già denunciammo per le deformazioni costituzionali d’iniziativa dei governi Berlusconi e Renzi, non sono i governi a dare le Costituzioni ai popoli, ma il contrario.

La Costituzione come terreno di indirizzo politico di parte incide sul ruolo e sulla natura dell’atto con cui il popolo ha stabilito «le forme e i limiti» dell’esercizio della sovranità (art. 1), vale a dire quel potere in gran parte già concentrato nelle mani del governo. L’iniziativa governativa che mira espressamente «a rafforzare la stabilità del governo» poi consiste nella pretesa del presidente del consiglio di auto-attribuirsi poteri che la Costituzione non gli dà. La scelta di non lasciare ai suoi folti gruppi parlamentari di maggioranza l’onore e l’onere di presentare tale richiesta in Parlamento, quindi, è manifestazione d’insofferenza per l’effettivo esercizio della sovranità da parte del popolo e dei suoi rappresentanti politici.

La seconda mistificazione, invece, è innovativa e coinvolge l’asserito «criterio “minimale”» di modifica della Costituzione. Si scomoda in proposito addirittura la «tradizione costituzionale» quando, invece, si arriva a costituzionalizzare il “premio di maggioranza”, rompendo così proprio con la tradizione costituzionale di lasciare fuori dalla Costituzione, a torto o ragione, la disciplina elettorale, per di più con il dichiarato intento di andare al di là della giurisprudenza costituzionale sull’eguaglianza del voto sancita all’art. 48 della Costituzione. La Corte, infatti, ha già spiegato che l’obiettivo di rafforzare la posizione del governo non può essere realizzato tramite la distorsione della rappresentanza democratica con un’attribuzione di seggi parlamentari sproporzionata rispetto al numero di voti ricevuti. Già ora turba che alle ultime elezioni politiche, per di più con un’affluenza del solo 64% degli aventi diritto, i voti conseguiti dal partito di maggioranza relativa (FdI) pari al 26% che arrivano circa al 40% con gli alleati, in base a una legge elettorale dall’effetto iper maggioritario, si siano trasformati nel quasi 60% dei seggi parlamentari. Se l’attuale legge elettorale (Rosatellum bis) può essere abrogata o dichiarata incostituzionale, il premio del 55% dei seggi a chi prende un voto in più starebbe in Costituzione.

La terza mistificazione riguarda il ruolo del Capo dello Stato che, nonostante le dichiarazioni di volerne «preservare al massimo le prerogative», sin dal titolo perderà espressamente il potere di nomina dei senatori a vita, così come non nominerà più il Presidente direttamente eletto ma si limiterà a conferirgli l’incarico a formare il governo; anche in caso di dimissioni di costui il potere di nomina presidenziale verrebbe limitato dal punto di vista sia soggettivo (presidente del consiglio eletto o quello c.d. “subentrante”) che oggettivo (stesso indirizzo politico). Analogamente il potere del presidente della Repubblica di scioglimento delle Camere verrebbe ridotto a casi tassativi: oltre a perdere il potere di scioglimento anche di una sola Camera, il Presidente è obbligato a sciogliere il Parlamento qualora il presidente direttamente eletto non ottenga per due volte la fiducia delle Camere o quando il subentrante non riceva la fiducia.

Tanto è significativo il ridimensionamento del ruolo del presidente della Repubblica che lo stesso governo è costretto ad ammettere che andranno riviste quelle che chiama, sminuendole, «prassi costituzionali», vale a dire quelle convenzioni che in settant’anni hanno costruito la presidenza della Repubblica come potere di intermediazione nei momenti di crisi.

La quarta mistificazione travolge il ruolo del Parlamento, vero bersaglio del disegno revisionista che toglie voce non solo alle minoranze, ma financo alla propria maggioranza parlamentare. Per garantire la stabilità di governo si arriva a introdurre l’unica forma di crisi istituzionale che l’Italia non ha ancora vissuto: sciogliere un Parlamento appena eletto, estrema ratio espressamente prevista, visto che il presidente della Repubblica avrebbe le mani legate e non potrebbe ricorrere ai suoi attuali poteri di risoluzione dei conflitti.

La quinta mistificazione è complessivamente riassunta dall’assioma per cui la riforma non altererebbe i principi «costituzionali di democrazia, rappresentatività, separazione dei poteri e con il rispetto delle prerogative degli organi costituzionali». Viceversa la democrazia con centralità parlamentare e, quindi, pluralista diventerebbe «da investitura» e monocratica; la separazione dei poteri verrebbe ridotta a una mera divisione formale visto che per qualunque “caduta” dell’Eletto il Parlamento verrebbe sciolto (c.d. principio del simul simul); con la costituzionalizzazione di questo principio (che certo non può considerarsi soft solo perché è previsto un subentrante in caso di “caduta” dell’Eletto) avremmo un “Presidente legislatore” affiancato da un  Parlamento e un presidente della Repubblica con prerogative meramente serventi il potere monocratico, fino a riverberarsi sulla Corte costituzionale.

Ma è la rappresentatività in sé che sarebbe annichilita dal premierato assoluto ipotizzato, non solo per la già citata costituzionalizzazione del premio di maggioranza, ma anche perché verrebbe affiancata in Costituzione (art. 92, comma 2) da quella «governabilità» che finora è stata mero eventuale obiettivo legittimo del legislatore, non un parametro di costituzionalità.

Così arriviamo alla mistificazione più travolgente: l’elezione diretta di un organo monocratico cui è subordinata la legislatura delle Camere elette in collegamento con il presidente in pectore, senza neanche prevedere limiti di mandato, è ammantata di democraticità perché valorizzerebbe «il ruolo del corpo elettorale nella de­terminazione dell’indirizzo politico della Na­zione». Addirittura l’elezione diretta del presidente del Consiglio viene presentata come panacea di un astensionismo addebitato alla mancanza di certezze da parte dell’elettore su chi guiderà l’esecutivo e sulla sua maggioranza in Parlamento.

Eppure è incontrovertibile che proprio nelle elezioni amministrative, dove l’elezione diretta esiste da decenni, si registrino i tassi di partecipazione al voto più esigui, financo laddove la leadership tanto valorizzata gode d’indiscussa stabilità: a febbraio 2023 all’elezione del presidente della Regione Lombardia ha partecipato soltanto il 42% dell’elettorato, nel Lazio addirittura il solo 37%; alle comunali di maggio 2023 l’affluenza media al primo turno si è attestata al 61%, scendendo al 58% al secondo.

Come dimostra financo il calo di affluenza al ballottaggio, il presunto potere di scegliersi il Capo non convince, non rassicura, non appassiona gli elettori, ancor meno le elettrici e tra queste quelle del Sud; anima viceversa da sempre la fantasia di chi è al governo.

Con l’elezione diretta da parte del popolo di un organo monocratico di indirizzo politico si pretende di attribuire al singolo individuo la capacità di rappresentare la pluralità che struttura la società: si tratta di un Eletto, ma non certo di un rappresentante. Se l’elettività è un elemento indefettibile delle istituzioni rappresentative lo è altrettanto la loro composizione collegiale: solo un organo collegiale può essere proiezione della pluralità del popolo e, quindi, vantare il requisito della rappresentatività; la reductio ad unum della pluralità è, invece, la sua negazione, la sua sublimazione in un ente che pretende di incarnarla, non certo di rappresentarla.

Da quando si è affermata oltre la destra storica l’egemonia della monocrazia, lo scollamento società/istituzioni non è un mero accidente della Storia ma caratteristica strutturale del rapporto “rappresentativo”, ridotto a semplice momento elettorale. Per questo il corpo elettorale preferisce astenersi, disertare le urne perché sa che senza eguaglianza politica non avrà l’eguaglianza e la dignità sociale promessa.

Infatti il premierato è accompagnato dall’attuazione dell’autonomia differenziata: si pretendere di incarnare la Nazione, sempre citata, mentre la si spezzetta tra regioni ricche e povere, contro quella «pari dignità sociale» che spetta a ogni persona a prescindere da quale parte d’Italia abiti.

Sarà la democrazia del contest, forse più pop, ma non più incentrata sulla sovranità popolare con la sua pluralità e i suoi irriducibili conflitti in nome della uguaglianza politica e sociale.

Immagine di copertina: Giorgia Meloni al Budapest Demographic Summit 2023. Foto di Elekes Andor, tratta da commons wikimedia