ITALIA

Meglio un rave che i RAV

Siate imprenditori di voi stessi – attenti però, se siete merde, sarete imprenditori di merda. Le autovalutazioni scolastiche e la fraseologia burocratica avviluppano un maleodorante odio per i poveri, i diversi e le minoranze

L’autovalutazione è una delle  best practices che il neoliberismo ha infiltrato nel campo strategico dell’educazione, cominciando secondo i protocolli con la sperimentazione animale, cioè nel belante gregge dei dipartimenti accademici, e poi passando alla più vasta platea dell’istruzione secondaria, in primo luogo ai licei, con i RAV o Rapporti di autovalutazione che ogni anno gli istituti devono compilare, mescolando dati statistici, buoni propositi e offerte pubblicitarie per accalappiare i pargoli dei genitori più benestanti. La dimensione pubblicitaria e promozionale è essenziale, perché tale pratica coincide con il calo dei finanziamenti alle università e alle scuole e bisogna pure che qualcuno contribuisca all’acquisto di toner, carta igienica, gasolio, cattedre sovvenzionate (nelle strutture di prestigio) e corvées per pittare i muri e riparare le finestre (nelle strutture di massa).

Sul valore scientifico di un’autovalutazione non spendiamo parole. Lo stesso Miur, che promuove i RAV, non classificherebbe mai di serie A una rivista che non adottasse la peer review, cioè la valutazione di una terza persona, e la sospettosa ANVUR ricorre per le idoneità anche a docenti stranieri. Invece il valore ideologico dei RAV in house è assai elevato e si sposa benissimo con le odiose verifiche esterne INVALSI: entrambe imprimono, da dentro e da fuori, il principio di concorrenza sul mercato del sapere e delle iscrizioni di clienti facoltosi. Con il vantaggio che i RAV interiorizzano quella logica e avvicinano offerta e domanda città per città, quartiere per quartiere.

La funzione degli apparati ideologici di stato, la scuola in prima battuta, è stata sempre quella di cementare il consenso, anche se a volte può trasformarsi in terreno di scontro e di contro-egemonia. Oggi trasmette verso il basso selezione, imprenditorialità, obbedienza. Fin quando si produrrà una sufficiente resistenza.

Distinguiamo due piani su cui opera la ragione neoliberale rispetto ai processi educativi. In generale e in concreto al centro degli imperi, dove vengono messi soldi in ricerca e istruzione, si cerca di sostituire obiettivi di qualità formativa con misure orientate al ritorno degli investimenti, all’adescamento di investitori privati e all’aggiustamento fra aspettative e richieste del mercato del lavoro; a questo servono il rating ossessivo, la svalutazione delle arti liberali a favore di tecnologie esecutive immediatamente redditizie e alla preparazione di an adequately remunerated skilled workforce (cfr. Wendy Brown, Zone Books 2015, Undoing the Demos, pp. 23-26). Più ancora delle varie metrics (pseudo)oggettive definite da terze parti, l’autovalutazione è importante per soggettivare la distruzione della vita pubblica e la privatizzazione della sfera politica conferendo carattere manageriale alla cultura e all’educazione.

Ai margini degli imperi, invece, dove soldi per l’istruzione non se ne mettono e ovunque si promuovono gig jobs se non addirittura il lavoro gratuito, l’impulso all’imprenditorialità assume i tratti proverbiali delle nozze con i fichi secchi e dunque l’autopromozione sul mercato deve ricorrere a criteri che in qualsiasi istituzione americana sarebbero visti con orrore e porterebbero all’immediata destituzione di presidi, amministratori e docenti.

La retorica neoliberale statunitense, infatti e per fortuna, è stata costretta da dinamiche conflittuali interne di etnia e di genere ad assorbire un certo grado di pluralismo, dunque a esibire come fattori di successo culturale ed economico una composizione mista sia per partecipazione endogena sia per afflusso di studenti dall’estero. Il mosaico di colori, orientamenti sessuali e opzioni ideologiche attrae cultura e iscrizioni – anche se poi la linea del colore e del censo pesa nelle istituzioni più prestigiose, per quanto alleviata da un’oculata distribuzione di borse di studio. Il razzismo sta in tutti i pori della società americana, ma non viene inoculato da università, scuole e istituzioni culturali – si guardi il meraviglioso Ex libris di Frederick Wiseman, che documenta le attività comunitarie e multiculturali della New York Public Library, magari ce ne avessimo noi una così!

In Italia, al posto di soldi e pluralismo, le nostre istituzioni spacciano invece droga tagliata male, ovvero traducono i paterni suggerimenti ministeriali di inclusione controllata in rozzi privilegi di classe e di razza. Le Domande guida ministeriali– «Qual è l’incidenza degli studenti provenienti da famiglie svantaggiate [sic!]», «Ci sono gruppi di studenti che presentano caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza sociale?» –tirano invero pruriginose risposte e altrettanto poco innocente è l’insistenza sui requisiti di “imprenditorialità” auspicati per  scuole e studenti. Ma anche laddove il MIUR sollecita (senza fornire finanziamenti) l’inclusione di «studenti con disabilità e bisogni educativi speciali nel gruppo dei pari» supportati da insegnanti curriculari e di sostegno oppure «attività di accoglienza per gli studenti stranieri da poco in Italia» (minori migranti), volti ad apprendere la lingua e a favorire il successo scolastico, come rispondono gli istituti, nella loro indigente autonomia e spocchiosa autopromozione?

Molti lettori della “Repubblica” e frequentatori del web si sono stupiti dei dati e delle citazioni di un’eccellente inchiesta di C. Zunino sui Rav, cioè le schede di autovalutazione redatte dai presidi-manager e approvate dai docenti. Quindi usiamo gli originali, reperibili in rete.

Cominciamo dal liceo Ennio Quirino Visconti, roccaforte di ceti privilegiati in una delle due zone di Roma (l’altra è Parioli-Trieste) in cui il Pd ha resistito nelle elezioni comunali e ha vinto il Sì referendario. Il liceo classico più antico della Capitale, vero, con conseguente fama, prestigio e alunni illustri. I dettagli censitari sono però imbarazzanti. L’illustrazione orgogliosa si addentra nei primi dettagli di censo: «Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alto borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi, richiamati dalla fama del liceo… Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana o europea e nessuno è diversamente abile… La percentuale di alunni svantaggiati per condizione familiare è pressoché inesistente» (in realtà senza cittadinanza sono lo 0,75%, cioè 5, mentre gli “svantaggiati” salgono allo 0,8% e c’è pure una minuscola quota di afflitti da Disturbi specifici di apprendimento. Che sarà mai. Siffatta immacolata bianchezza «favorisce il processo di apprendimento», anche se poi i genitori altolocati, e generosamente contribuenti alle spese, rompono le palle ai docenti sulla didattica. Costoro, In compenso, sono disponibili a fare supplenze «senza oneri per l’Amministrazione».

Va detto che assai più sobri e oggettivi sono programmi e autovalutazioni di altri stimati licei quali il Tasso o il Giulio Cesare e che, man mano che ci si sposta verso la periferia, i problemi reali sono descritti senza enfasi e sproloqui di classe. Idem e a maggior ragione per gli istituti professionali – da cui prosegue la grande fuga verso licei e tecnici.

Parecchi studenti del Visconti hanno protestato per quella presentazione ed esposto striscioni, mentre la Preside, Clara Rech, davanti alla bufera suscitata dall’articolo di Zunino, ha rettificato: «Credo che tutti gli studenti, ricchi e poveri, debbano crescere insieme e credo nella multiculturalità». Possiamo dormire tranquilli.

Un caso a parte è il Virgilio che, oltre a grossi problemi di edilizia e agibilità, lamenta l’impossibilità di tenere le prove INVALSI e in genere che «la comunità scolastica del Liceo è caratterizzata da un attivismo politico che si accende, con rilevanti conseguenze sulla regolarità delle lezioni e delle attività della scuola, durante le “stagioni” delle proteste promosse a livello nazionale», con episodi di insubordinazione, vandalismo, bullismo, «esercizio non pienamente democratico della rappresentanza», imprenditorialità carente, la «mission e la carica identitaria» dell’Istituto ne soffrono, vabbè, la sua turbolenza è un dato notorio di cronaca, così come la scarsa compatibilità della Preside con molti docenti, studenti e genitori.

I parificati romani non hanno un pedigree così illustre e devono arrabattarsi. Possono però permettersi un linguaggio ancora più sfrontato. Nel RAV del Giuliana Falconieri, Roma Parioli (elettorato di cui sopra, gestione della Congregazione delle Mantellate Serve di Maria, la cui missione educativa si esprime nell’umile servizio ad imitazione di Maria): «Gli studenti del nostro istituto appartengono prevalentemente alla medio-alta borghesia romana. La spiccata omogeneità socio- economica e territoriale dell’utenza facilita l’interazione sociale». I rari stranieri sono figli del personale d’ambasciata e quindi si resta fra pari grado, tanto più che «non sono presenti né studenti nomadi né provenienti da zone particolarmente svantaggiate». Non crediate però che sia l’Eden e del resto anche lì si era insinuato un serpente: «negli anni sono stati iscritti figli di portieri e/o custodi di edifici del quartiere. Data la prevalenza quasi esclusiva di studenti provenienti da famiglie benestanti, la presenza seppur minima di alunni provenienti da famiglie di portieri o di custodi comporta difficoltà di convivenza dati gli stili di vita molto diversi».  Che sfiga, in un quartiere residenziale sopravvivono tenaci i portieri, altrove sfrattati dai citofoni, e figliano peggio dei conigli. Pensi che ambiente ne può venir fuori, non c’è più morale, contessa…

Il liceo parificato Massimo (Roma-Eur), appartenente alla rete Gesuiti/Educazione, in mancanza di brillanti risultati Invalsi, vanta un «contesto socio economico e culturale alto di provenienza» e per di più si situa in un’area «museale e molto verde». Non lucra adeguati finanziamenti statali e sottopaga i suoi docenti, cui peraltro garantisce la regolare partecipazione «a corsi di formazione pedagogica e spirituale proposti dall’Istituto», avendo (in allegato) una Vision e una Mission. Spiritualità visionaria che tuttavia non ha impedito spiacevoli episodi per eccesso di premura nelle ripetizioni, situazione risoltasi con gli arresti domiciliari in convento del colpevole e l’installazione di telecamere nelle aule.

Fuori Roma le cose non vanno molto meglio. Nell’autovalutazione del liceo D’Oria di Genova, si constata con soddisfazione che «ll contesto socio-economico e culturale complessivamente di medio-alto livello e l’assenza di gruppi di studenti con caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza culturale (come, ad esempio nomadi o studenti provenienti da zone particolarmente svantaggiate) costituiscono un background favorevole alla collaborazione e al dialogo fra scuola e famiglia», nonché un incentivo a una didattica personalizzata, tanto più che «il contributo economico delle famiglie sostiene adeguatamente l’ampliamento dell’offerta formativa». Purtroppo gli studenti di origine straniera stanno aumentando e pongono problemi di inclusione, che però vengono con grazia bypassati: «dato il numero molto esiguo di studenti stranieri che avrebbero bisogno di corsi di lingua italiana, la realizzazione di percorsi di lingua italiana L2 non può essere annoverata tra le priorità della scuola viste le limitate risorse a disposizione». Prima gli italiani!

Il Parini, scuola di eccellenza che ha ancora da farsi perdonare il ruolo svolto nell’innesto del 1968 milanese, si presenta così: «Il contesto socio-economico di provenienza degli studenti è medio-alto. Scarsamente significativa l’incidenza di alunni con cittadinanza non italiana (11). Non risultano alunni provenienti da zone particolarmente svantaggiate o di condizione socioeconomica e culturale non elevata. Gli studenti del liceo classico in genere hanno, per tradizione, una provenienza socio-economica e culturale più elevata rispetto alla media. Questo è particolarmente avvertito nella nostra scuola. A partire da questa situazione favorevole, la scuola ha il compito (obbligo) di contribuire a elevare il livello culturale dei suoi allievi». Millanteria di classe e rapida correzione, siamo pur sempre nella Milano illuminista; si riconoscono alcune “criticità” nelle attività di inclusione, così come per l’edilizia, e si enuncia la volontà di «potenziare la riflessione su temi interculturali e sulla valorizzazione delle diversità».

Secondo Vanni Santoni, la stagione d’oro del rave è finita. Ma non credete che sarebbe rieducativo se i nostri “educatori” frequentassero certi capannoni in disuso piuttosto che redigere RAV diseducativi?