DIRITTI

Lampedusa. Le violazioni dell’approccio hotspot istituzionalizzate dal Decreto Salvini

Lampedusa. Le violazioni dell’approccio hotspot istituzionalizzate dal Decreto Salvini

A Lampedusa le violazioni dei diritti umani sono diventate quotidiane e sistematiche, soprattutto a causa del decreto Salvini

Rami – il nome è di fantasia, ma la sua storia è vera – è un cittadino tunisino di poco più di vent’anni. È arrivato in Italia lo scorso agosto, dopo una traversata in mare su una piccola imbarcazione da pesca durata 24 ore, da Zarzis a Lampedusa. È fuggito da un contesto Paese caratterizzato da gravi violazioni dei diritti civili e sociali, da violenze, detenzioni e arresti arbitrari da parte della polizia, quale è oggi la Tunisia.  Eppure a Rami, al suo arrivo in Italia, dopo essere stato accompagnato dalla guardia costiera nel centro hotspot dell’isola, è stato riferito dalla polizia che «può presentare domanda di asilo soltanto chi si occupa di politica», senza poi ricevere nessun’altra informazione. Centinaia di cittadini tunisini, oggi, tra coloro che arrivano in Italia, temono che «la presentazione della domanda d’asilo possa essere immediatamente comunicata al governo del proprio Paese». Che la sola manifestazione di tale volontà precluda per sempre il ritorno nel Paese d’origine, o, che, addirittura, «il diritto d’asilo sia appannaggio di specifiche nazionalità». La storia di Rami è solo uno delle tante raccolte dal progetto In Limine, il programma di monitoraggio dell’hotspot di Lampedusa nato la scorsa primavera da una collaborazione tra la Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild) la Ong Action Aid e le associazioni Asgi e Indiewatch, i cui primi risultati sono stati presentati ieri in una conferenza stampa che si è tenuta a Roma nella sede della Federazione nazionale della stampa.

«Trattenimenti informali e forti limitazioni della libertà personale, applicazione parziale delle garanzie poste a tutela dei minori, differenziazione arbitraria tra richiedenti asilo e migranti economici», queste sono alcune delle violazioni riscontrate a Lampedusa dagli operatori legali per la protezione internazionale, Adelaide Massimi e Francesco Ferri, che hanno lavorato in loco al programma In Limine per tutta l’estate insieme ai mediatori di origini araba Sami Aidoudi e Zaineb Belaaouej, registrando 60 interviste con i migranti, le organizzazioni e internazionali e le istituzioni attive sull’isola, denunciando significative violazioni della normativa vigente, e ora finite dentro il report “Scenari di frontiera: l’approccio hotspot e le sue possibili evoluzioni alla luce del caso Lampedusa

Dalla lettura del rapporto emergono, in particolare, violazioni molto rilevanti in tema di limitazione della libertà personali, dato che, ad esempio, «prima del completamento delle operazioni di foto-segnalamento i migranti non avevano la possibilità di uscire dall’hotspot, in aperto contrasto con la normativa vigente che non prevedeva la possibilità di trattenere i migranti per più giorni in tali strutture».

Raccontano gli operatori: «i cittadini stranieri condotti a Lampedusa sono nei fatti trattenuti nell’isola, nell’impossibilità di acquistare un titolo di viaggio e abbandonarla, in assenza di un riconoscimento valido per tale fine». E ancora: «Siamo di fronte a una violazione geografica della libertà di movimento, che, in alcuni periodi, si è protratta anche per alcuni mesi, configurando violazioni gravissime, in particolare, dell’art.13 della Costituzione, e dell’art.5 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo». Lampedusa, dunque, è un’isola confine, dove è attivo dal settembre 2015 uno dei cinque hotspot italiani, e in cui solo nell’ultimo anno sono transitate 2914 persone, molte delle quali sono state esposte a una profonda contrazione dei diritti. Una situazione che diviene ancor più preoccupante alla luce della prossima approvazione anche alla Camera, dopo quella avvenuta al Senato lo scorso 7 novembre del Decreto legge n.113/2018 immigrazione e sicurezza pubblica, il così detto Decreto Salvini, che, tra le altre cose, disciplina, normalizzandole, diverse prassi illegittime osservate negli ultimi tre anni a Lampedusa e negli altri hotspot italiani, quelli di Taranto, Messina, Trapani, Pozzallo.

Secondo quanto denunciato dagli avvocati dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, infatti, alcune norme contenute nel decreto sembrano destinate a ridefinire il funzionamento dell’hotspot e tre profili in particolare: «il trattenimento esteso fino a 30 giorni, ai soli fini dell’identificazione, del richiedente, l’applicazione accelerata e in frontiera delle procedure di valutazione della domanda, il trattenimento in luoghi impropri dei cittadini stranieri destinatari di provvedimenti di espulsione». La compresenza di questi elementi, dunque, sostengono gli avvocati: «suggerisce un possibile sviluppo su larga scala della limitazione all’esercizio del diritto d’asilo», con tutto ciò che consegue – aggiungiamo noi – in termini di abusi e violazioni nei confronti delle persone. Non solo. La lista di «paesi di origine sicuri», introdotta attraverso il comma 2 bis all’art.7, all’interno del maxiemendamento governativo al testo già firmato dal Presidente della Repubblica, insieme alla predisposizione di una procedura accelerata di valutazione in frontiera della domanda d’asilo, preoccupano in tal senso, perché riportano alla mente le numerose violazioni che hanno colpito, da quando l’approccio hotspot è stato attivato, soprattutto, ancora qui, i cittadini di nazionalità tunisina.

Una discriminazione per nazionalità, dunque. Come ha raccontato la ricercatrice di Arci, Sara Prestianni, all’interno di un rapporto pubblicato la scorsa estate, «per i tunisini arrivati in Sicilia nel 2017 la procedura attivata è stata un po’ per tutti simile. Dopo essere stati detenuti per settimane nell’hotspot sull’isola, venivano poi rimpatriati, passando per l’aeroporto di Palermo, dove erano sommariamente identificati da un console». Continua Prestianni: «Tra le violazioni subite, in particolare, vi è quella della detenzione illegale senza convalida del giudice all’interno di una struttura, l’hotspot, che fino a qualche mese fa mancava di base giuridica nella legislazione italiana». Nel report, poi, Prestianni fa riferimento anche ai trattamenti degradanti subiti dai cittadini tunisini nel corso delle operazioni di rimpatrio. Sono stati 5306, dall’inizio del 2018, i cittadini rimpatriati; tunisini, la maggior parte, ma anche tanti di origine nigeriana, rispediti a casa con voli di linea o charter dedicati. I dati forniti dalla direzione centrale dell’immigrazione e polizia delle frontiere, aggiornati al 31 ottobre di quest’anno, in questo senso, ci parlano di un numero di cittadini rimpatriati che si attesta, per ogni anno considerato dal 2015, attorno alla cifra media di seimila persone.

Il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà, organismo introdotto nell’ordinamento italiano con il decreto legge n. 146 del 23 dicembre 2013,, dal maggio 2016 a oggi ha monitorato 22 voli nazionali di rimpatrio forzato, salendo a bordo dei voli organizzati tramite charter, di cui 15 per la Tunisia e 7 per la Nigeria, raccomandando all’autorità italiana di pubblica sicurezza, in particolare, «che sia fatto ricorso all’uso della forza solo come misura di ultima istanza»; ricordando, inoltre, «che tali misure possono essere applicate solo in casi di stretta necessità nei confronti di rimpatriandi che si rifiutano o si oppongono all’allontanamento, o in caso di serio o immediato rischio di fuga, o di danno all’integrità fisica dello stesso straniero, cioè in presenza di episodi di autolesionismo».