DIRITTI

Hotspot di Taranto: chi viene dal Marocco non ha diritto alla protezione

Ancora ombre sull’hotspot di Taranto: dopo le denunce di Amnesty International, i rapporti della Commissione diritti umani del Senato, due ricorsi pendenti davanti alla CEDU, ora avvocati e attivisti denunciano i respingimenti collettivi. L’ultimo è avvenuto nei confronti di 70 migranti marocchini

Abdelaziz (il nome è di fantasia) ha ventisei anni ed è nato a Casablanca, in Marocco. È arrivato in Italia il 5 novembre scorso, proveniente dalla Libia. Soccorso al limite delle acque territoriali libiche dalla nave “Zeffiro” della Marina italiana, l’uomo è giunto al porto di Taranto insieme ad altri quattrocentocinquanta migranti ed è stato subito condotto nel centro hotspot della città pugliese, per le successive operazioni di identificazione e foto-segnalamento. Qui, dopo un breve colloquio, Abdelaziz ha ricevuto dai poliziotti dell’ufficio immigrazione un decreto di respingimento differito, con l’ordine di lasciare il territorio italiano entro sette giorni, e uscire dall’hotspot immediatamente (l’hotspot di Taranto è una struttura composta da una decina di tende e container e si trova all’interno della zona industriale tarantina, una delle aree più inquinate in Italia).

Così, Abdelaziz, insieme ad altri settanta connazionali – tutti destinatari di un provvedimento di respingimento – hanno raggiunto la vicina stazione. Alcuni di loro hanno passato lì la notte. Altri sono scomparsi. C’è chi ha deciso di raggiungere autonomamente altre città, chi ha chiesto aiuto ai trafficanti che, nei giorni in cui ci sono arrivi o sbarchi, in città si vedono spuntare come funghi. C’è chi è rimasto in stazione, come Abdelaziz, appunto.

Imma Bucci è un’attivista di Campagna Welcome Taranto, rete associativa che, da quando l’hotspot è stato istituito anche a Taranto (nel febbraio 2016) ha portato avanti diverse denunce contro la classificazione arbitraria tra richiedenti asilo e migranti economici che è alla base dell’approccio hotspot. Così racconta: «Abbiamo incontrato Abdelaziz e altre decine di ragazzi marocchini in stazione insieme alle associazioni Babele e Ohana, mentre distribuivamo opuscoli in lingua araba contenente l’informativa sulla protezione internazionale ». Spiega Bucci: «Abbiamo ascoltato il racconto del viaggio dell’uomo verso l’Italia e lo abbiamo rassicurato in merito alla possibilità che, a seguito della permanenza nell’hotspot, potesse essere privato della libertà personale. In questo senso, era molto spaventato ». E ancora: « Ci è stato riferito che non aveva compreso quanto gli era stato comunicato dal personale di polizia presente all’interno dell’hotspot, anche in ragione del fatto che si trovava in uno stato di confusione e di paura causato dal lungo viaggio in mare».

Provvedimenti illegittimi. Per queste ragioni, l’uomo, attraverso l’avvocato Cristina Leone, ha presentato un’istanza alla questura locale chiedendo l’annullamento in autotutela del provvedimento di respingimento. In sostanza, che la sua posizione sia riesaminata e che gli sia concessa la possibilità di chiedere asilo politico in Italia. Perché «Il decreto di respingimento notificato al ricorrente risulta perfettamente identico a quello notificato nella stessa giornata ad altre decine di cittadini marocchini, le cui posizioni non sono state mai oggetto di approfondimento né di valutazione individuale» si legge così nel ricorso presentato dall’avvocato Leone, che dice: «È forte il dubbio che si sia proceduto a un respingimento collettivo decretato sulla base della nazionalità dei migranti ».

L’ombra di respingimenti collettivi è più di un sospetto, un’ipotesi suffragata dalle dichiarazioni rilasciate a un quotidiano locale, lo scorso 7 novembre, dal direttore dell’hotspot di Taranto, Michele Matichecchia, il quale ha detto sic et simpliciter: «I soggetti in questione trovati in stazione non avevano i requisiti per avanzare istanza di protezione internazionale». Affermazioni giudicate gravi dagli attivisti di Campagna Welcome, che proprio per questo avevano convocato qualche giorno fa una conferenza stampa alla stazione di Taranto.

Nel comunicato di lancio dell’iniziativa, gli attivisti si sono scagliati contro le parole pronunciate da Matichecchia (che è anche a capo dei vigili urbani della città ionica, oltre che, fino a qualche mese fa, dirigente comunale del servizio appalti e contratti). Così scrivono: «Segnaliamo che ancora una volta questi provvedimenti vengono emessi nei confronti di appartenenti ad alcune nazionalità specifiche, ritenute arbitrariamente non bisognose di protezione». Dunque, affondano gli attivisti: «È bene precisare che in nessun modo la valutazione su chi abbia diritto a chiedere (ed eventualmente ottenere) la protezione internazionale, può essere effettuata dalle autorità che gestiscono l’hotspot». In effetti, come è ampiamente noto, la verifica della presenza di tali requisiti spetta unicamente alle Commissioni Territoriali o, nel caso di ricorso giurisdizionale, al Tribunale civile territorialmente competente».

Violazioni continue. Non è la prima volta che si addensano nubi e ombre sull’hotspot di Taranto. Già un rapporto di Amnesty International pubblicato la scorsa estate e la relazione della Commissione Parlamentare per la promozione dei diritti umani del Senato presieduta da Luigi Manconi, avevano puntato il faro sul rispetto di diritti e procedure. Per quanto riguarda la prassi dei respingimenti collettivi, invece, già alla fine di marzo del 2016 era successo che duecento ragazzi marocchini avevano ricevuto tutti insieme, lo stesso giorno, il provvedimento di respingimento differito. Una decina di loro, poi, avevano presentato ricorso. Ora si trovano ancora a Taranto, dove alcune parrocchie e associazioni come Ohana, si sono fatte carico dell’ospitalità e dell’orientamento legale.

La CEDU chiamata a giudicare. La mattina del 4 Novembre scorso, tra i 450 migranti sbarcati, c’erano anche cinquantatre minori stranieri non accompagnati. Da subito l’assessore ai servizi sociali del Comune di Taranto, Simona Scarpati, si era affrettata a dichiarare: «I minori stranieri non accompagnati, dopo i prescritti controlli medico sanitari, saranno tutti accompagnati nelle apposite strutture educative presenti sul territorio provinciale, in ottemperanza alle prescrizioni di legge».

Questo non sempre è avvenuto in passato, dato che sulla questione del trattenimento dei MSNA è in piedi un ricorso davanti alla Corte Europea Dei Diritti Dell’Uomo. A presentarlo è stato Dario Belluccio, avvocato che fa parte del direttivo nazionale dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sulle migrazioni, che ha spiegato: «Abbiamo potuto visitare il centro di Taranto soltanto perché accompagnati da una parlamentare, Annalisa Pannarale. Quel giorno erano presenti nell’hotspot 84 minori e 420 adulti, anche se la capienza massima del centro è di 400 posti. Per quattordici di loro, minori soli, abbiamo deciso di presentare ricorso alla Cedu».

Perché, come ha raccontato Belluccio: «Per diverse settimane gli è stato persino vietato di mettersi in contatto con i parenti, oltre che essere stati trattenuti in una struttura non idonea per l’accoglienza ai minorenni». Non solo. Secondo il legale: «La libertà personale dei ricorrenti è stata violata in quanto l’hotspot non è, comunque, un luogo deputato al trattenimento amministrativo delle persone». E, soprattutto, ha spiegato ancora Belluccio: «Lì dentro non possono essere ospitate persone minorenni, addirittura senza un provvedimento scritto che ne giustifichi un trattenimento così prolungato». In seguito è stato chiesto il trasferimento dei minori in una delle comunità deputate alla presa in carico. Cosa che effettivamente poi è avvenuta.

Anche se il procedimento davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è rimasto. E non l’unico ancora in piedi che riguarda l’hotspot di Taranto. Ne esiste un altro, che è stato presentato qualche mese fa, dallo stesso Belluccio insieme all’altro avvocato del direttivo di Asgi, Salvatore Fachile, e riguarda il noto caso dei quaranta cittadini sudanesi rimpatriati dall’Italia nell’agosto del 2016. Cinque di loro, rintracciati in Sudan dagli stessi avvocati, hanno scelto di ricorrere alla Cedu. Come ha detto lo stesso Fachile: « Anche la loro storia era cominciata a Taranto, in quella fabbrica di esclusione e di violazione dei diritti umani chiamata hotspot».

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