ITALIA

La transizione è drammatica, serve un’alternativa di società

Dobbiamo iniziare a immaginare la possibilità di un orizzonte diverso dove collocare le lotte, le esperienze e le pratiche, mentre il Paese attraversa una drammatica crisi ecologica, sociale e democratica con la guerra alle porte. Un Paese incatenato a politiche di austerità che hanno frantumato i diritti sociali e del lavoro e privatizzato beni comuni e servizi pubblici

Una transizione drammatica

Come già accaduto nella storia del capitalismo, siamo entrati in una fase di transizione. Sta giungendo infatti a conclusione il ciclo capitalistico della finanziarizzazione basato sulla globalizzazione dei mercati, che ha attraversato il pianeta nell’ultimo mezzo secolo.

Semplificando, potremmo dire che, mentre nei secoli dal XVI al XVIII il capitalismo si è caratterizzato come mercantile, nel XIX secolo e fino alla Seconda Guerra Mondiale la sua cifra è stata specificamente coloniale; a questa, nel dopoguerra si è sostituita la fase del capitalismo di Stato, basata sul compromesso capitale-lavoro, travolta infine dal capitalismo finanziarizzato e dalla globalizzazione liberista.

Oggi, anche quest’ultimo ciclo arranca, dentro le plurime crisi che lo attanagliano, giunte al pettine contemporaneamente: siamo, infatti, nel pieno di una drammatica crisi ecologica e climatica, nel perdurare di una crisi economico-finanziaria, immersi in una disuguaglianza sociale che non ha precedenti e dentro una crisi verticale della democrazia

«La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati», scriveva Gramsci nel 1930 dal carcere. Ed è esattamente la fase di transizione in cui ci troviamo, nella quale, non a caso, è stata rimessa al centro la guerra come dimensione ordinaria nell’esistenza delle persone, nell’organizzazione della società e nelle relazioni internazionali, fino alla possibilità, oggi molto meno remota, di una terza guerra mondiale.

Un dato è incontrovertibile: se in precedenti fasi, il capitalismo tendeva al consenso, ovvero mirava a dare di sé l’immagine del “migliore dei mondi possibili” (quantomeno nei confronti delle opinioni pubbliche dell’Occidente), oggi, abbandonata ogni retorica, cerca di affermare se stesso come “l’unico mondo possibile” e, dentro un contesto di finitezza delle risorse, a legittimare come “naturale” la disuguaglianza sociale, ecologica e relazionale che ne definisce l’agire.

Europa al capolinea

Un dato inoppugnabile, all’interno di questa analisi, è la fine dell’Europa per come l’abbiamo conosciuta e sotto diversi aspetti. L’Unione europea, nata da sempre dentro un profilo liberale, portava tuttavia con sé alcune caratteristiche di originalità, dovute, da una parte, alla propria collocazione geopolitica e dall’altra ai cicli di lotte sociali che l’avevano attraversata.

L’essere al confine della guerra fredda e al centro dello scontro ideologico fra capitalismo e socialismo reale ha contribuito in Europa a “moderare” le spinte selvagge del primo, per attenuare l’attrattività delle “suggestioni” del secondo (purtroppo, rivelatesi nel tempo quasi solo illusioni). Mentre il conflitto sociale che ha attraversato i decenni ’60-’70 del secolo scorso ha espanso notevolmente l’area dei redditi, dei diritti sociali e della democrazia in tutte le fasce della popolazione.

In conseguenza di questi fattori, è stata proprio l’Europa a divenire il continente del compromesso fra capitale e lavoro, del welfare come diritto e dell’ipotesi politica della socialdemocrazia, come “terza via” rispetto alle alternative esistenti sul campo

L’Unione europea, con tutte le ambiguità e contraddizioni possibili, era nata anche come anelito (per quanto astratto) alla pace e alla convivenza fra i popoli europei, tragicamente attraversati da due devastanti guerre mondiali.

Con l’avvento delle politiche neoliberali, l’Europa ha smarrito sé stessa in maniera probabilmente irreversibile.

Se la prospettiva della pace era stata già compromessa dai bombardamenti su Belgrado nel 1999, oggi la situazione è precipitata dentro una guerra infinita all’interno dell’Europa e dentro il genocidio in Palestina, entrambi conflitti che vedono l’Europa priva di una autonoma posizione e con una politica estera interamente delegata alla Nato, la quale sta spingendo il continente verso un’economia di guerra, una cultura bellicista e la repressione di ogni conflitto sociale.

Le politiche di austerità, attivate grazie alla ideologica narrazione sul debito pubblico, hanno fatto macerie di ogni welfare, consegnando diritti del lavoro, diritti sociali, beni comuni e servizi pubblici all’assalto dei grandi interessi finanziari

La prosperità di un’Europa unita si è tradotta in 95,3 milioni di persone che vivono a rischio povertà o esclusione sociale, pari al 21,6% dell’intera popolazione.

E persino le timide posizioni in materia ambientale si ritrovano progressivamente triturate dentro una narrazione che sembra non poter fare a meno della divinità una e trina di “crescita-competitività-concorrenza”, in un contesto dove il profitto pare l’unico motore sociale e la solitudine l’unica dimensione esistenziale.

Persa la propria originalità di modello sociale, poteva l’Europa mantenere intatto l’altro versante di quel modello, ovvero la democrazia? Già, perché la crisi della democrazia è andata ben oltre le naturali critiche alla sua imperfezione, alla sua non sostanzialità, alla parzialità della sua inclusione: oggi la democrazia ha persino smesso di essere desiderabile, aprendo la strada a populismi, sovranismi e nuovi fascismi dentro la politica, la cultura e la società.

Siamo ormai un’Europa fortezza, debole con i forti e feroce contro i deboli, lasciati naufragare nei barconi delle loro speranze o imprigionati nei nuovi lager disseminati sui territori europei e mediterranei.

Italia, dove la crisi è più profonda

È il nostro Paese quello che, all’interno dell’Europa, manifesta maggiormente la profondità della crisi in atto. D’altronde è il Paese dove la crisi della soggettività politica, sociale e culturale è emersa con più imponente forza, dall’avvento del “berlusconismo” in poi, con una penetrazione senza precedenti della narrazione dell’individuo autonomo, artefice del proprio destino, dell’”uomo che non deve chiedere mai” come unica dimensione della libertà individuale e della solitudine competitiva come unico orizzonte sociale.

Un Paese incatenato dentro la trappola artificiale della narrazione sul debito pubblico come problema prioritario e dentro le conseguenti politiche di austerità che hanno frantumato i diritti sociali e del lavoro e privatizzato beni comuni e servizi pubblici

I risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti.

Come certificato dai più recenti rapporti dell’Istat abbiamo raggiunto il massimo storico delle famiglie in povertà assoluta, che oggi sono l’8,5% delle famiglie residenti, pari a 5,7 milioni di persone, delle quali 1,3 milioni minorenni; non solo, anche tra chi dispone di un reddito si è verificata una contrazione pesante delle capacità di risparmio, che nel 2023 ha raggiunto il livello più basso degli ultimi ventotto anni.

Siamo il Paese che sulla sanità, dopo le lacrime di coccodrillo durante la pandemia sui tagli effettuati nell’ultimo decennio, nel 2022 ha investito risorse pari a 131 mld, nettamente inferiori a quelle della Germania (423 mld) e della Francia (271 mld), e con un rapporto spesa sanitaria/Pil che, se nel nostro Paese era pari al 6,8%, in Spagna raggiungeva il 7,3%, mentre volava in Francia (10,3%) e in Germania (10,9%)

Come se non bastasse, il Governo Meloni sta ulteriormente facendo crollare il dato al 6,2% del Pil per il prossimo triennio, mentre l’appello recentemente promosso da un gruppo di 14 scienziati per la salvezza del Servizio Sanitario nazionale chiede che la spesa sanitaria si attesti almeno all’8% del Pil (servirebbero 37 miliardi per ciascuno dei prossimi due anni).

Spesa sanitaria oltretutto sempre più indirizzata verso il privato, che ha ormai raggiunto quota 26,2 mld, pari al 20,3% della spesa complessiva, e con alcune Regioni nelle quali si avvicina al 30% (Lazio 29,3%; Molise 27,7% e Lombardia 27%).

E siamo il Paese ultimo in Europa per investimenti sull’istruzione, per la quale viene destinato l’8% della spesa pubblica contro una media Ue27 pari al 10%

Nonostante questo quadro drammatico, il Governo Meloni è riuscito a impostare una politica dei sussidiche ha drasticamente tagliato il Reddito di Cittadinanza alle persone, ma ha garantito alle imprese una somma pari a 7 volte la spesa per il RdC (23,8 mld di contributi alla produzione e 31,4 mld di contributi agli investimenti) per un totale annuo di 55 mld di euro.

Inoltre, ha messo in campo una riforma fiscale che, in linea di continuità con tutte le riforme dal 1974 ad oggi, ribalta la scala del peso della contribuzione sulle classi popolari, favorendo i ceti medio-alti, che corrispondono al 6% della popolazione.

E ha annunciato l’ennesimo piano di privatizzazioni, a partire da Poste Italiane, che dovrebbe raschiare il fondo del barile della proprietà collettiva per metterla a disposizione dei grandi capitali finanziari e di rendita.

Davvero i soldi non ci sono?

I soldi ci sono, sono tanti, persino troppi. Il problema è che sono tutti nelle mani sbagliate o indirizzati a interessi di tipo privatistico. Come altrimenti spiegare l’impossibilità di una tassa patrimoniale progressiva per le ricchezze superiori ai 500.000 euro, che da sola produrrebbe 25 miliardi di euro? O di una tassa straordinaria del 3% su tutti i portafogli finanziari con valore superiore a 880.000 euro che frutterebbe 10 miliardi? O una seria web-tax che farebbe entrare nelle casse pubbliche almeno 8 miliardi? O, infine, una tassa su tutte le transazioni finanziarie che farebbe incamerare 4 miliardi di euro? Quattro misure, in attesa di una vera riforma progressiva della fiscalità, accompagnata da una reale lotta all’evasione e all’elusione fiscale, che da sole produrrebbero un gettito di 47 miliardi!

Senza dimenticare come Cassa Depositi e Prestiti gestisca a fini totalmente privatistici un risparmio postale pari a 280 miliardi, che potrebbe essere indirizzato a sostenere i Comuni e le comunità territoriali nella costruzione di un altro modello ecologico, sociale e relazionale a partire dai territori.

Che i soldi ci siano lo dimostra un settore che non ha mai subito restrizioni, né spending reviews: le spese militari. Se già nel 2023 vi era stato un aumento di 1,8 miliardi, nel 2024 vi è stato un ulteriore balzo di 1,4 mld, con un innalzamento complessivo nel biennio del 12,5%, che ha portato per la prima volta nella storia il bilancio del Ministero della Difesa a superare i 29 miliardi. Sempre per la prima volta nella storia, ben 10 di questi 29 mld sono destinati all’acquisizione diretta di armamenti

Bastano questi pochi dati a smascherare l’ideologia del debito e delle politiche di austerità: i soldi ci sono e sono tanti, ma le scelte politiche li destinano all’economia di guerra e agli interessi dei pochi contro il resto della società. 

I movimenti sociali hanno un problema

Siamo dentro una drammatica fase di transizione, della quale è impossibile prevedere l’esito. Il capitalismo sta cercando di aprire un nuovo ciclo, da una parte riorganizzando i rapporti di forza geopolitici attraverso le guerre attualmente in corso e/o in preparazione; dall’altra, aprendo una nuova fase di accumulazione basata ancora sul primato della finanza, ma questa volta innestata sull’innovazione tecnologica digitale e su una narrazione mercatista come “soluzione” alla crisi climatica.

È  questo il significato della “ripresa e resilienza” che sottende i piani di investimento economico e sociale: “ripresa” come timone dell’economia basata sul mercato e sull’innovazione tecnologica “digital” e “green”, senza soluzione di continuità; “resilienza” come rassegnazione attraverso la quale le persone dovrebbero accettarne l’impatto e adattarvisi

Tuttavia, dalla pandemia in avanti, si è resa evidente la strutturale insostenibilità del modello dominante, nonché la sua incapacità di rispondere alle crisi da esso stesso determinate.

Ma pur nella proliferazione delle lotte, delle vertenze e delle pratiche messe in campo dai movimenti, fatica a prendere anima e corpo la necessità di un’alternativa di società.

E’ come se le decine di migliaia di attiviste e attivisti in campo, tutte e tutti sapienti e radicali nel loro agire “specifico”, fossero immobilizzati dentro lotte e pratiche (pur fondamentali) senza riuscire a ricondurle nell’orizzonte di un cambiamento generale, in mancanza del quale si giunge al paradosso di come sia più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.

Ed è come se tutte le realtà in campo avessero chiara la necessità della convergenza, ma non riuscissero a uscire dalla trappola delle “convergenze parallele”, dove ogni esperienza chiama le altre alla propria lotta, ma rimanendo ancorata all’autoreferenzialità della stessa, senza riconoscere l’indispensabilità di ogni apporto specifico nel contrastare la pervasività del capitalismo sull’economia, la società, la natura e la vita stessa delle persone.

Eppure oggi abbiamo l’urgente necessità di costruire spazi ampi di convergenza reale, per modificare i rapporti di forza dentro la società, almeno su quattro nodi strutturali:

  1. La pace: per costruire una mobilitazione ampia e inclusiva contro la guerra, che, oltre a chiedere l’immediato cessate il fuoco per tutti i conflitti in corso, sappia opporsi alla penetrazione della guerra nell’economia, nella società, nella cultura e nella democrazia
  2. La trappola del debito: per costruire una mobilitazione ampia e inclusiva contro le politiche di austerità, il patto di stabilità e il Trattato di Maastricht, che hanno di fatto costituzionalizzato il neoliberismo a livello continentale
  3. La conversione ecologica: per costruire un fronte comune fra tutte le battaglie ecologiste in campo per farle convergere dentro un orizzonte altro rispetto all’ideologia della crescita, al fideismo della concorrenza, al diktat della competizione
  4. Lo spazio della democrazia: per costruire mobilitazioni diffuse che sappiano riappropriarsi a tutti i livelli di una democrazia basata sulla partecipazione dal basso e sull’inclusione, a partire da comunità territoriali capaci di cura e di trasformazione.

Perché tutto questo sia possibile, occorre tuttavia un ulteriore salto di qualità: iniziare a immaginare la possibilità di un orizzonte diverso e collocare le lotte, le esperienze e le pratiche dentro quell’orizzonte.

Non è più tempo di profitti e di guerre: oggi è tempo di cura di sé, delle altre e degli altri, del vivente e del pianeta e di lotta collettiva e senza quartiere contro coloro che tutto questo impediscono

Dobbiamo tornare a immaginare la fine del capitalismo, invece di rimanere sgomenti ad aspettare la fine del mondo.

Immagine di copertina di Christoph F. Siekermann da Commons wikimedia