TERRITORI

L’America sul litorale

Settant’anni dopo lo sbarco alleato ad Anzio un viaggio lungo il litorale a sud di Roma

Lo scorso 22 gennaio ricorreva il settantesimo anniversario dello sbarco di Anzio. Cerimonie con Zingaretti, la ministra Kyenge, rappresentanze diplomatiche e militari d’oltremanica e oltreoceano, una dozzina di reduci, picchetto d’onore, banda musicale e alcune centinaia di persone ad applaudire. Poi nel weekend schiere di figuranti in divisa invadono la spiaggia tra jeep e carri armati d’epoca, accampamenti, trincee scavate nella sabbia e una folla di curiosi. C’è di tutto: rangers americani e marines inglesi, SS e repubblichini, scozzesi con la cornamusa e un ultranovantenne in tuta bianca, pluridecorato paracadutista della Folgore ad El Alamein. L’altoparlante di uno stabilimento balneare manda canzoni d’altri tempi. Sullo sfondo, l’ex-casinò, splendido esempio di architettura liberty miracolosamente scampato ai bombardamenti e straordinariamente aperto al pubblico. Che ci trova bancarelle zeppe di cimeli del Ventennio, informazioni sulle prossime rievocazioni in costume (c’è pure la “scuola legionari”, quelli con la tunica) e sul collocamento dei volontari in congedo (quelli veri) e una distesa di libri su Nettunia (così Mussolini ribattezzò Anzio e Nettuno). I titoli: Nettunia, una città fascista, I legionari (arieccoli) di Netunia ecc. L’autore è Pietro Castellari, trentanovenne di Latina, pardon, Littoria, riser-vista dell’Esercito e ideologo di Casa Pound. Sua la lista dei caduti militari – conquista d’Etiopia, intervento fascista in Spagna e resistenza repubblichina allo sbarco alleato compresi – assieme a quella delle vittime civili sulla stele scoperta in piazza ad Anzio.

Il giorno prima, all’apertura delle commemorazioni, il sindaco (rieletto dopo un ballottaggio interno al centrodestra) celebra la “liberazione della nostra patria occupata”, dai nazisti intende. Sul Fascismo neanche una parola. Con lui però c’è Mario Fiorentini, GAP nella capitale “città aperta”, tra gli artefici dell’attacco di Via Rasella, che parla dei partigiani – se ne parlerà di nuovo alla presentazione di un libro sulla Battaglia di Roma, ma sono eccezioni, anche perché l’antifascismo armato da queste parti è stata poca cosa (su questo Cappellari non ha tutti i torti). Ci sono pure gli alunni delle elementari e un vegliardo con quattro medaglie al petto, le stesse che il governo degli Stati Uniti ha dato ai veterani dello sbarco. All’epoca aveva quindici anni e fece da mascotte alla V armata, ora ha tre foto-ricordo nel portafoglio con Bush Sr., Bush Jr. e Dick Cheney. Poi parte l’inno di Mameli e i bambini in coro son “pronti alla morte”. Nel frattempo al Campo della memoria di Nettuno, sacrario della RSI, un’altra cerimonia di cui non c’è traccia sul programma ufficiale, sebbene vi partecipino l’assessore all’edilizia del comune di Anzio e una delegazione dei Carabinieri, oltre a una comitiva di reduci, parenti e nostalgici. Molti di loro, come da tradizione, si rivedranno il 25 aprile.

Vanno rispettati i morti ammazzati, che ognuno pianga i suoi. Non stupiscono le ambiguità che la trita retorica sulla pacificazione tra vinti e vincitori si porta dietro. Colpisce tuttavia la prossimità tra effettivi ed ex delle forze armate e il minestrone di simbologia fascista, revisionismo d’accatto e immaginario bellico a buon mercato. Si sa che la patria di simili spettacolari rievocazioni sono proprio gli Stati Uniti ma il fenomeno è in rapida espansione anche in Italia. Lì come da noi attraggono genuini appassionati di storia al pari di bambocceschi maniaci delle armi e scivolano agevolmente in una discutibile banalizzazione della guerra. C’è troppa fierezza negli occhi dei figuranti per riconoscere alla parata di Anzio un’aura di verosimiglianza ed escludere sgradevoli strumentalizzazioni. E figuriamoci se qualcuno coglie l’occasione per riflettere ad alta voce sui conflitti attuali. Unico accento polemico, la disputa da campanile tra il sindaco Pd di Nettuno e quello di Anzio sul luogo esatto dello sbarco.

Quest’americanizzazione all’amatriciana comunque ha curiose radici sul tratto di costa interessato da una delle più importanti operazioni anfibie della seconda guerra mondiale, lanciata tra le antiche fortificazioni di Torre Astura e Tor San Lorenzo. Dopo oltre quattro mesi di sanguinosi scontri gli alleati entravano a Roma, lasciandosi dietro cumuli di macerie e migliaia di morti oggi nei vari cimiteri militari della zona. Poi la ricostruzione. Come in altri punti d’attacco della guerra, si consolida la presenza di installazioni strategiche e personale in uniforme, mentre non lontano dalle rive su cui un tempo approdò Enea e Nerone volle una delle sue più grandiose dimore sorgono località di villeggiatura dai toponimi classici e idilliaci: Lavinio, Lido dei Pini. È ancora turismo d’elite, da Cinecittà vengono in gita le star hollywoodiane, al poligono di Torre Astura si gira il kolossal Cleopatra. E a Nettuno è di casa il baseball.

Sede della più blasonata squadra d’Italia, Nettuno è nota come “città del baseball”. C’è persino un romanzo di viaggio, Baseballissimo, pubblicato qualche anno fa da un canadese di origini italiane, che traccia un parallelo sorprendente tra i costumi sportivi d’oltreoceano e quelli dei “peones” nettunesi, come li chiama. Il cosiddetto “passatempo degli americani” è diffuso in diverse aree del pianeta che hanno subito una dominazione a stelle strisce, ad esempio Giappone, Cuba (anche se poi Castro ne ha fatto un vanto della Rivoluzione). A Nettuno sbarca con le truppe alleate e nel dopoguerra diventa un vero e proprio tratto identitario. Sono gli anni di Carosone (tu abball’ o’ rocchenroll/tu giochi a baisiboll), dell’americano a Roma di Sordi, delle strombazzate vacanze in Italia del campione Joe Di Maggio, della stampa comunista che disputa di “mazze” e “manganelli”. Perché il baseball, ironie a parte, assume un preciso significato politico. È un ufficiale di Polizia ad avviare la prima scalcinata formazione nettunese tra gli allievi della locale scuola di addestramento. Poco dopo se ne aggiunge un’altra di lavoratori al cantiere del cimitero militare americano allenati da un tenente yankee. All’epoca si gioca sulla tenuta del principe Steno Borghese, su cui sorgerà il primo impianto regolamentare nel nostro paese. Borghese, membro dell’aristocrazia nera e sindaco sotto l’occupazione alleata, fu il primo presidente della Federazione italiana palla a base, come si diceva allora. A lui è intitolato lo stadio cittadino, il più grande d’Italia.

Con l’avvento della cultura di massa, mentre il baseball a Nettuno assume un carattere schiettamente popolare, i toni da guerra fredda si stemperano e a nessuno passa più per la testa di dire “palla a base”. Da un paio d’anni a questa parte poi la squadra è in crisi, gli sponsor scarseggiano, addirittura l’iscrizione al prossimo campionato è stata in forse fino all’ultimo momento. Nel frattempo però un altro sport è letteralmente approdato: il surf.

Siamo negli anni Ottanta, la mutazione antropologica di pasoliniana memoria è compiuta e i voli transoceanici non costano più un occhio. S’importano nuovi stili di vita e discipline sportive. Sulle coste laziali fanno la loro comparsa gli amanti della tavola (quella da surf naturalmente) e a pochi metri dal porto di Anzio c’è uno “spot” niente male. Attorno gli cresce un gruppo nutrito di gente tosta, che sfida onde e correnti in ogni condizione atmosferica, mastica ovviamente idiomi forestieri e organizza gare come il King of Anzio e il Triple Crown Open Surf and Bodyboard Contest. E qui una domanda sorge spontanea e non se la prenderanno gli amici surfisti. Ma quante volte, osservando i cavalloni abbattersi sulla testa di ponte dello sbarco, hanno abbozzato lo stesso identico ghigno del colonnello Bill Kilgore in Apocalypse Now? Vabbè, forse il carburante degli aliscafi non sa di vittoria come il napalm…

A proposito di inquinamento, c’è da dire che i surfisti locali dimostrano una certa sensibilità per l’ambiente e infatti contribuiscono regolarmente alla pulizia della spiaggia di Tor Caldara, piccola riserva naturale vicino Lavinio. Ci tengono al mare, che poi è la principale risorsa pubblica in un’area ormai a discreta densità demografica, dove gli spazi sono più ampi e spesso attraenti di quelli nella metropoli, ma meno che in passato. Non si gioca più a baseball sulla sabbia o nei campetti sterrati come un tempo. Da allora sono cambiate non solo le mode ma anche il territorio, meta estiva di famiglie romane piccolo-borghesi, vacanzieri squattrinati e da ultimo pallidi nuovi ricchi russi richiamati da un paio di bandiere blu, zona residenziale in continua espansione durante il resto dell’anno. Perché sono in molti, soprattutto sotto la crisi, a lasciare il caos metropolitano per una vita un po’ più salubre ed economica. I villini spuntano come funghi tra concessioni edilizie facili e il solito abusivismo. A poca distanza, tra Ardea e Torvaianica, sorge un’intera comunità di recente costruzione che, abbandonati gli echi latini per improbabili suggestioni esotiche, si chiama Nuova Florida. Si moltiplicano centri commerciali in postmoderne città-replica tipo Anzio 2 e Aprilia 2.

Nell’ultimo decennio, i residenti nei comuni a sud di Roma, tra il litorale, i Castelli e l’Agro Pontino, sono cresciuti in media di oltre il 16 percento. Sono 870,000 a fronte dei 2.640.000 nella capitale, dove la crescita è stata meno del 4. Proprio il litorale, da Torvaianica a Nettuno e all’interno fino a Pomezia e Aprilia, ha registrato le percentuali maggiori. Cresce la complessità e con essa il conflitto. È in progetto il raddoppiamento della superstrada Pontina, contestato da comitati ambientalisti che chiedono invece un potenziamento del trasporto pubblico. La recessione si fa sentire nelle fabbriche dell’entroterra e fioccano le vertenze sindacali. A dispetto della massiccia presenza di forze armate e polizia, inoltre, forte è l’infiltrazione della malavita orga-nizzata dal Basso Lazio. Non sono affatto una rarità le intimidazioni a rappresentanti politici, cui hanno recentemente risposto con fiaccolate i cittadini di Ardea e Aprilia. Neppure il museo archeologico di Anzio è risparmiato dai furti. Poi c’è l’immigrazione: uno stuolo di est-europei, qualche cinese e molti indiani sikh a lavorare i campi, tra i pochi a usare la bici, gli unici a farlo col turbante in testa. Cominciano a fiorire i negozietti etnici, pochi ancora i ristoranti. Prove di multiculturalismo, tanta marginalità e un po’ di tensione sotto la pelle che leggi sui volti alla Ta-rantino nel Samoa di Lido dei Pini, noto locale dove si gioca a bowling, si balla il liscio e il bar-tabacchi è sempre aperto, come la metropolitana di New York.

Apparentemente la politica locale è frammentata come nel resto del paese ma il vento soffia più che altro a destra. A Nettuno il sindaco è Pd con aria vagamente renziana, a Pomezia 5Stelle, ad Aprilia l’espressione di una serie di liste civiche. Saldamente in mano al centrodestra Anzio, Ar-dea e chiaramente Latina, nei dintorni della quale è nata una specie di jacquerie sot-to l’insegna dei “forconi”. Sigle partitiche e costellazione di liste civiche a parte, l’impressione è che un moderatismo affaristico di vecchia data sia il tratto prevalente in quelli che furono feudi della destra democristiana, con frange neofasciste cospicue e sacche residuali di sinistra storica, per esempio a Tor San Lorenzo, dove forse anche per questo c’è, in assoluta controtendenza, un inaspettato Alimentari Unione Sovietica, supermarket etnico a conduzione russo-rumena e prezzi stracciati. Eppure questo territorio, in cui convivono solide concentrazioni di ricchezza e dilagante povertà, dove alla fine dell’estate si apre un vuoto e la difesa del diritto allo spazio non va granché oltre la realizzazione di opere pubbliche pre-elettorali come lo sfavillante Skate Park i-naugurato un anno e mezzo fa a Lavinio – questo territorio, dicevo, è un serbatoio di voti in au-mento.

Ci vorrebbe David Harvey per capire cosa stia fermentando in quest’emergente conglomerato globalizzato di persone e feticci, sebbene le sue Città ribelli non coincidano con tali realtà suburbane ed extraurbane. Ripensando alla messa in scena marziale di Anzio, viene in mente anche un altro bel libro, però di qualche anno fa e mai tradotto: Suburban Warriors, caposaldo della storiografia sulla destra americana del dopoguerra. L’autrice, Lisa McGirr, ne traccia le origini a Orange County, California, dove il Pentagono ha una fitta rete di basi, i liceali praticano il surf nelle ore di educazioni fisica e i “guerrieri suburbani” tirarono la volata al movimento conservatore che portò Reagan alla Casa Bianca. Mutatis mutandis, nonostante i settemila kilometri e passa di distanza (e la diversa altezza delle onde, penseranno i surfisti), le differenze tra i luoghi dello sbarco e l’opulenta Orange County – set di uno dei tanti telefilm stereotipati i cui protagonisti sono tutti ricchi, belli e bianchi, e che però dopo trent’anni di ricette liberiste è tra le prime dieci contee negli Stati Uniti per tasso di denutrizione infantile – sono forse meno di quanto si pensi.