MONDO

Il presidente Öcalan, il popolo kurdo, il processo di pace in Turchia

Una ricostruzione storica della figura di Öcalan come speranza di pace per Turchia e Medio Oriente

Nel 18° anniversario del complotto internazionale che portò alla cattura del leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan, la Turchia è sulla strada tra dittatura, autoritarismo e guerra permanente.

[Verso il corteo nazionale di sabato 11 febbraio a Milano: libertà per Öcalan e tutti i prigionieri politici curdi e turchi; pace e giustizia per il Kurdistan]

Il 15 febbraio 1999, Öcalan fu catturato in Kenya da agenti speciali turchi in un’operazione clandestina sostenuta da un’alleanza dei servizi segreti di CIA e Mossad (che all’epoca fu ufficialmente accettata dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti). Fu rapito e consegnato allo Stato turco.

Poco meno di un anno prima, Öcalan fu costretto a lasciare la Siria dove viveva da oltre vent’anni, a causa della pressione della Turchia e dell’inasprirsi dei rapporti che stavano portando i due paesi sull’orlo di un conflitto armato. Dalla seconda metà degli anni 90, le relazioni tra Turchia e Siria hanno vissuto momenti di forte tensione dovute alla strumentalizzazione della questione curda da parte del regime di Hafez al Assad per ottenere dalla Turchia concessioni su questioni strategiche come la gestione delle riserve idriche del Tigri e dell’Eufrate.

Sotto pressioni, ricatti internazionali e dopo l’ultimatum ufficiale che il premier turco Mesut Yilmaz consegnò al governo di Damasco richiedendo la consegna di Öcalan, il governo siriano firmò nel 1998 un trattato di sicurezza, l’accordo di Adana, che sancì la fine dell’appoggio di Damasco al PKK e di fatto costrinse Öcalan a lasciare la Siria, iniziando un lungo viaggio in Europa per promuovere una soluzione politica della questione curda.

Öcalan arrivò in Italia a novembre dello stesso anno, sperando di ottenere in qualche giorno l’asilo politico. Il governo però non glielo concesse anche per le pressioni ricevute dall’estero, in particolare da Turchia e Stati Uniti e per non correre il rischio di ricadute economiche rispetto al boicottaggio delle aziende italiane promesso da Ankara. Dopo poco più di un mese dal suo arrivo in Italia, Massimo D’Alema, durante la conferenza stampa di fine anno, disse: “L’esito più probabile di questa vicenda è che Öcalan se ne vada dal nostro Paese”. Così dopo 65 giorni, il 16 gennaio 1999, Öcalan fu convinto a partire per Nairobi, in Kenya. Un mese dopo, fu catturato dagli agenti del MIT (servizi segreti turchi) e trasferito in Turchia; la destinazione finale era l’isola-prigione di Imrali, dove da 18 anni si trova detenuto in condizione disumane.

Per i primi 11 mesi della detenzione, Öcalan fu l’unico prigioniero di Imrali, sorvegliato da non meno di 1000 soldati, costretto a condizioni di tortura fisica e psicologica, fu privato di ogni contatto sociale, umano (divieto di “strette di mano” per anni) o meno, con addirittura greggi di pecore che furono portati via dall’isola per negare ogni contatto con il mondo circostante. Nel 2007 il CPT (Comitato europeo per la prevenzione della tortura) ha definito la prigione di Irmali come la “Guantanamo Europea”, questo tuttavia non ha portato alcune sanzione pratica contro la Turchia, né miglioramenti nelle condizioni di detenzione di Öcalan.

Dal 2011 gli è stato negato ogni colloquio con i suoi avvocati (che diverse volte sono stati arrestati e detenuti a loro volta) e dal 2014 anche con la sua famiglia. Per 18 mesi le condizioni di isolamento e divieto di qualsivoglia comunicazione sono state irrigidite, ed in particolare dopo il tentativo di golpe dell’estate 2016, la preoccupazione sulla salute di Öcalan ha spinto migliaia di attivisti ad intraprendere le più diverse forme di proteste. La condizione di isolamento sono state interrotte l’11 settembre 2016, quando le centinaia di azioni di guerriglia del PKK che hanno colpito in modo durissimo l’apparato militare di Ankara, hanno costretto il governo turco ha concedere a Mehmet Öcalan di far visita al fratello.

“Sono un democratico ed un rivoluzionario”

Dopo quasi 18 anni di prigionia, milioni di curdi continuano a riconoscere in Öcalan il loro rappresentate politico. La sua liberazione è strettamente collegata ad una risoluzione democratica e pacifica della guerra in Turchia. Non solo Öcalan continua ad essere considerato come la voce politica di milioni di curdi oppressi, ma la sua figura di militante e filosofo, ha avuto un profondo impatto non solo sulla società curda, ma in ogni parte del mondo, ponendolo di fatto come uno dei maggiori intellettuali del passato e del nuovo secolo.

Dalle terribili condizioni di prigionia, Öcalan ha scritto oltre 40 libri. Le sue opinioni, il processo di autocritica interno ed esterno al partito, hanno prodotto un massiccio cambiamento di paradigma da cui oggi diversi movimenti rivoluzionari traggono spunto per portare avanti lotte e processi di autodeterminazione e consapevolezza all’interno della società.

Öcalan si è dedicato allo studio, alla scrittura e all’analisi in termini di sviluppo storico a partire dalle origini della civilizzazione; dalla società naturale al potere, il patriarcato, l’ordine economico globale, la critica allo Stato-nazione e la questione ecologica, fino ad arrivare alla teorizzazione di un un modello sociale che definì “confederalismo democratico”, oggi già realtà in Rojava ed in altre parti del Kurdistan. Öcalan ha realizzato una profonda analisi del patriarcato, dalla famiglia curda al sistema globale, sottolineando che le donne sono la forza più democratica e che la lotta per la libertà sarà guidata dalla rivoluzione delle donne. La liberazione delle donne è fondamentale. Ha invocato una società “democratico-ecologica” in cui il benessere comune viene raggiunto con mezzi di democrazia diretta. Öcalan ha più volte sottolineato come il raggiungimento della libertà del popolo curdo, significa più libertà per tutti.

“Qualsiasi soluzione dovrà comprendere opzioni valide non solo per il popolo curdo, ma per tutte le persone. Il che vuol dire che sto affrontando questi problemi sulla base di un solo umanesimo, una sola umanità, una sola natura ed un solo universo. Il nostro primo compito consiste nello spingere il più possibile per la democratizzazione, per le strutture non statali e l’organizzazione comunitaria”. Di fatto il confederalismo democratico di Öcalan basa la sua idea sul legare la liberazione dei curdi alla liberazione dell’umanità.

L’interruzione del processo di pace

Nel contesto disumano della prigione di Imrali, Öcalan, sin dal suo arresto, si è speso in prima persona per cercare una risoluzione alla questione curda, partendo dal presupposto che la democrazia era la chiave per il futuro della Turchia, dato che la stessa non sarebbe mai potuta diventare una vera democrazia senza i curdi.

Öcalan ha usato il suo processo come caso per articolare una road map verso la pace e la riconciliazione tra turchi e curdi basata sul riconoscimento delle differenze culturali e nazionali dei curdi all’interno di uno Stato unitario. Il processo di pace tra Turchia e PKK si è articolato in diverse fasi: la prima di queste chiamate per la pace è stata nel 1999-2004, quando il PKK ha risposto alla chiamata di Öcalan per un cessate il fuoco.

Successivamente nel 2006-2007, Öcalan è nuovamente intervenuto, chiedendo un altro cessate il fuoco al PKK, rispettato dal partito curdo nonostante non ci fosse stata alcuna risposta da parte dello Stato turco. La terza convocazione di Öcalan relativa ai negoziati di pace e al cessate il fuoco è avvenuta nel 2009, quando furono avviate pubblicamente le note “Riunioni di Oslo”. Lo Stato turco ha sempre sprecato queste opportunità dei colloqui di pace e non ha risposto positivamente prendendo sul serio questi gesti.

Infine, nei primi mesi del 2013, è iniziato un nuovo processo di negoziazione: il cosiddetto “Processo di Imrali”. Il Pkk ha dichiarato il cessate il fuoco e l’inizio del ritiro delle proprie unità armate il 23 marzo 2013 a seguito dello storico annuncio di Öcalan durante i festeggiamenti per il Newroz. Dopo questi primi passi, portati avanti dai curdi, il processo è entrato in una fase di stallo. L’allora primo ministro turco Erdogan ha considerato il cessate il fuoco come un obiettivo in sé, piuttosto che come parte di un processo per affrontare le cause profonde del conflitto. Dal 2013 fino all’inizio del 2015 i colloqui sono andati avanti in modo segreto con incontri tra i rappresentati turchi e Öcalan, fino al 28 febbraio 2015 quando la delegazione di Imralı del Partito dei popoli democratici (HDP) insieme al governo turco, hanno annunciato l’accordo in dieci punti di Dolmabahçe.

In precedenza, tra Öcalan, PKK, AKP e governo si era negoziato su questo per mesi. Nei dieci punti era anche prevista la concessione dell’autonomia democratica per la Turchia come passo per la decentralizzazione. L’HDP aveva quindi concentrato il suo programma elettorale in modo esplicito su diversi punti dell’accordo di Dolmabahçe. La decentralizzazione era una rivendicazione fondamentale per la democratizzazione del paese.

La Turchia pareva trovarsi in un momento storico ed un accordo di pace sembrava essere più vicino che mai. Nonostante i presupposti e la disponibilità da parte del PKK per una risoluzione democratica, a pochi giorni dai festeggiamenti per il Newroz, il presidente Erdogan ha dichiarato a sorpresa: “Che cosa si intende per questione kurda? Non esiste più” (17 marzo 2015). E successivamente: “Non c’è nessun tavolo di trattative nel processo di risoluzione. Se esistesse significherebbe il crollo dello Stato” (28 aprile 2015).

Queste dichiarazioni hanno annunciato il cambio di strategia di Erdogan e dell’AKP e segnato la virata verso la preparazione di una guerra di distruzione contro il Movimento di Liberazione curdo, elemento ciclico nella storia di un Paese che non ha mai realmente tentato la strada della pace, ma esclusivamente adottato soluzione militari. Quando Erdogan ha svoltato in direzione della guerra, l’esercito è diventato l’attore principale. Tayyip Erdogan e l’AKP erano dipendenti dall’esercito nella guerra contro il Movimento di Liberazione Curdo.

Il colpo di Stato fallito e quello riuscito: l’alleanza tra nazionalismo e fondamentalismo in chiave anti-curda

È nell’estate successiva alle elezioni del 7 Giugno 2015 che il meccanismo di deriva autoritaria, fascista e militarista che vediamo chiaramente in atto oggi nella Turchia di Erdogan, si è messo in moto. Erdogan ha perso le elezioni, ha condotto un’operazione anti-democratica sui risultati che pure lasciavano intravedere un cambio di rotta che all’interno del Paese poteva disegnare una nuova fase storica. Infine, ha utilizzato strumentalmente l’attacco che a Suruc ha ucciso 33 militanti della sinistra rivoluzionaria turca, rimettendo l’esercito al centro del comando del Paese.

In quell’occasione, l’AKP ha fatto un’alleanza con tutte le forze di stampo fascista (MHP in testa), con una parte dell’esercito (incluso il capo della difesa), utilizzando come collante il sentimento xenofobo anti-curdo, riprendendo il conflitto armato con il PKK ed iniziando una nuova campagna di guerra e distruzione contro le città ed i villaggi curdi, radendole al suolo, massacrando centinaia di civili ed emanando leggi per invalidare i processi in cui i militari erano coinvolti per i crimini commessi.

[GUARDA: Cizre’de Katliam Var – Il massacro di Cizre]

Quando Erdogan ha deciso di intensificare la guerra e ha mandato l’esercito a distruggere le città curde, il meccanismo del golpe aveva già preso piede. Durante la guerra, l’esercito ha potenziato le sue stesse forze contro Erdogan. Questo perché l’esercito può diventare un attore centrale nella politica turca (e così è già stato) solo durante un’offensiva contro il Movimento di Liberazione curdo.

Così, dopo un periodo in cui l’esercito aveva perso centralità nella politica turca attraverso l’idea di Erdogan “abbiamo vinto la guerra nelle città, abbiamo distrutto il PKK”, l’esercito ancora una volta ha acquisito sicurezza per tentare un golpe. L’ultimo tentativo di colpo di Stato voleva ridisegnare le politiche della Turchia. La dichiarazione dei golpisti lo ha mostrato chiaramente. In breve, il loro approccio è stato. “Chiunque stia combattendo contro il PKK dovrebbe oggi controllare la politica e la stessa Turchia”.

Dopo che il colpo di stato è fallito, l’AKP e il loro alleati hanno dichiarato di essere “la volontà del popolo” e “forze democratiche”. Uno sviluppo decisamente pericoloso, che oggi spiana la strada ad Erdogan nel rafforzare nel Paese il sentimento anti-curdo e le politiche anti-democratiche. Il rafforzamento di questi sentimenti è cementato dall’alleanza tra AKP ed i fascisti dell’MHP, che pure si sono trovati nella situazione di essere “costretti” a marciare insieme dopo che il partito di Erdogan aveva di fatto aumentato il suo consenso adottando come linea proprio quella storicamente gradita all’elettorato MHP. Proprio come questo golpe ha incoraggiato l’AKP, i suoi alleati e i nazionalisti, ha anche radicalizzato i circoli nazionalisti-islamici vicini all’AKP, che sono comunque stati in prima fila a difesa di Erdogan sin dalle prime ore del tentativo di golpe. Tutto ciò sta portando ad una nuova produzione di formazioni turche dell’ISIS. Del resto, un fenomeno di radicalizzazione in salsa fascio-islamica è certamente già presente in Turchia.

Il regime autoritario di Erdogan sta utilizzando questo monopolio di potere per garantire che il suo regno fatto di repressione contro ogni voce dissidente, genocidio fisico e culturale dei curdi, politiche imperialiste e sciovinismo, possa continuare ancora per lungo tempo. La Turchia di oggi è un carcere a cielo aperto con decine di migliaia di persone arrestare in seguito al tentativo di golpe, con HDP (terzo partito del paese) che ha visto 9000 dei suoi membri arrestati e 12 dei suoi parlamentari che si trovano attualmente in carcere proprio alle porte del referendum di aprile, le decine di municipalità sottoposte a commissariamento, oltre cento giornalisti imprigionati e tutti coloro che si oppongono alle politiche AKP-MHP diventati bersagli.

Öcalan aveva previsto quanto sta accadendo oggi: “Se il processo di risoluzione della questione curda si conclude, hanno intenzione di implementare il meccanismo del colpo di Stato. Hanno intenzione di tentare un colpo di stato in Turchia. Il processo di risoluzione democratica è un ostacolo sulla via del colpo di stato”. Öcalan non è ne un oracolo, né predice il futuro, ma conosce profondamente le questioni del medioriente. Ed oggi è colui che più di tutti può contribuire alla pace in Turchia.

Come leader, è riuscito a convincere milioni di persone ad intraprendere la strada della democrazia radicale piuttosto che quella dello Stato-nazione, centrando il discorso sulla liberazione della donna, sulla riconciliazione e la convivenza pacifica con tutti i popoli del medioriente, rendendo l’ecologia pilastro ideologico centrale nella lotta per la libertà. Nonostante tutti i tentativi di isolarlo e silenziare la sua voce, Öcalan rimane una delle più grande minacce per lo Stato turco, per Erdogan e per tutti i nazionalismi, mentre al contrario rappresenta una voce di pace e democrazia reale per la Turchia e tutto il medioriente.

Per questo l’11 Febbraio dobbiamo scendere in migliaia per le strade di Milano: per lui e per gli oltre 10.000 prigionieri politici curdi e turchi detenuti in condizioni terribili nelle carceri del regime. La Turchia non troverà pace né democrazia fin quando Öcalan non sarà liberato, perchè citando Mandela “nessun uomo può negoziare in catene”.