DIRITTI

Dalla parte dell’ideologia gender

Nella società post-ideologica “ideologia” suona come una parolaccia ed è chiaro a tutti che viene brandita come un randello retorico sulla nuca degli avversari. Dovremmo capire se suona come una parolaccia anche a noi.

L’ideologia gender esiste e io la sostengo.

Quando scoprii la sua esistenza, in Italia non se ne parlava. Ero adolescente e lessi un libro degli anni ‘70, “Dalla parte delle bambine” di Elena Giannini Belotti. In quella pietra miliare del femminismo italiano non si parla mai esplicitamente di genere, ma questo non è importante. Fu una lettura importante perché mise in ordine una serie di riflessioni confuse che portavo avanti in solitudine, mostrandomi chiaramente almeno un paio di cose: le identità maschili e femminili comunemente conosciute sono costruite socialmente attraverso l’educazione e questa ripartizione di ruoli è funzionale, o meglio, fonda l’oppressione degli uomini nei confronti delle donne, un sistema che chiamiamo patriarcato. Mi iniziai interessare ai gender studies e all’epoca, alla fine del decennio scorso, al di fuori dell’accademia nessuno conosceva questo “gender”.

La situazione odierna è altresì nota: l’ideologia o teoria gender è il bersaglio polemico che tiene uniti tutti i reazionari della penisola e li porta a migliaia in piazza nella recente riedizione del Family Day: cattolici, leghisti, nuove destre, vecchie destre, ali destre del PD e persino gli ideologi di Putin. A quest’assalto coordinato la maggior parte delle compagne dei compagni, delle attiviste, degli attivisti e dei semplici simpatizzanti che rifiutano la violenza retrograda di Adinolfi e Fusaro, hanno scelto di rispondere in modo secco: non esiste nessuna teoria del gender, né tanto meno un’ideologia. Una posizione ripetuta ogni volta che si è dovuto rispondere alle critiche dei sessisti e degli omofobi, la si può leggere su tutti i giornali di sinistra (posso dire che esiste la sinistra? Tra poco ci arriviamo). Gli ultimi in ordine di tempo: l’Espresso, Internazionale, Wired . La contraddittorietà di questa posizione emerge nello sviluppo degli articoli stessi quando, sostenendo che non c’è la teoria del gender ma esistono gli studi di genere, prendono ad elencare cosa affermano questi studi genere. Già, perché affermano qualcosa, e sarebbe strano il contrario; sarebbe ben strano, cioè, uno studio che prosegue da quarant’anni senza giungere a nessuna conclusione. Invece gli studi di genere le loro conclusioni le hanno tratte e rivendicate, e sono alla base di quell’insieme di movimenti che ha preso il nome di femminismo della terza ondata.

Affermando che il sesso biologico non determina il genere, cioè il ruolo sociale, della persona, gli studi di genere prendono parte e si schierano in un dibattito antico e nobilissimo che nasce con la teorizzazione del soggetto moderno e si infuoca con lo sviluppo delle scienze sociali: i rispettivi pesi della natura e della cultura nello sviluppo dell’essere umano. Cosa fa di una persona una persona? L’antropologia e la sociologia hanno relativizzato tutte le certezze delle società tradizionali, gli studi di genere si inseriscono in quest’ambito disciplinare e decostruiscono anche l’ultima identità che si voleva evidente, rigida e immutabile: quella sessuale.

Un percorso iniziato almeno nel 1949, quando uscì “Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir, nel quale si può leggere che “bisogna ripetere ancora una volta che nella collettività umana niente è naturale e che, tra gli altri, la donna è un prodotto elaborato dalla civiltà”. Una frase che sciocca per la sua contemporaneità e per la sua distanza dalla narrazione che vorrebbe il femminismo delle origini ancorato a visioni essenzialiste e a pratiche separatiste, deciso nell’impugnare una femminilità mistica e conservatrice contro il dominio dei maschi. Judith Butler, in “Gender Trouble”, testo del 1990 che è sbrigativamente considerato l’atto di fondazione degli studi di genere, interroga proprio il discorso di De Beauvoir e indaga le possibilità di un agire politico che faccia a meno dell’identità, di qualsiasi identità, compresa quella femminile. Sì, perché gli studi di genere non sono “solo” degli studi anche, e soprattutto, perché implicano una postura politica.

Gli studi di genere riconoscono un’oppressione, quella del sistema patriarcale e la decostruzione dei generi è, nella sua essenza, un’operazione politica perché, come ogni operazione politica, mira al cambiamento della realtà esistente. È quindi un’ideologia? Una teoria?

Nella società post-ideologica “ideologia” suona come una parolaccia ed è chiaro a tutti che viene brandita come un randello retorico sulla nuca degli avversari. Non ce lo nascondiamo, loro la usano come un insulto davanti a persone che lo riconoscono come tale, ma dobbiamo capire se è una parolaccia anche per noi. Dopo sette o otto ondate di marxismi, deposte le pretese ingenue di scientificità, bisognerebbe riconoscere che siamo tutti informati da una o più ideologie e che esserne consapevoli è il primo modo per acquisire una coscienza politica. Ancor meno attriti dovrebbe causare il termine teoria, visto che la queer theory, ambito disciplinare affine ai gender studies, non ha mai avuto problemi a proclamarsi tale. C’è forse un’organicità, una sistematicità, un’omologazione, tra gli autori che si occupano di studi di genere per la quale tutti pensano e vogliono le esattamente le stesse cose? Ovviamente no, ma nessuna ideologia mette d’accordo tutti coloro che la sostengono (casomai è storicamente vero il contrario) e ogni teoria è uno strumento nelle mani di chi la abbraccia e la usa. E tuttavia quello che affermano gli studi di genere è una visione del mondo, di un mondo non presente, una visione rivoluzionaria di un mondo a venire. Non dobbiamo credere alle paranoie delle maggioranze accerchiate, questa immagine è falsa e offensiva. È terribilmente offensiva perché i nazisti, che sul tema erano sicuramente più vicini alle posizioni di Miriano e delle Sentinelle in piedi rispetto a quelle dei movimenti LGBT, hanno sterminato migliaia di omosessuali. È palesemente falsa perché la società occidentale è ancora dominata dal maschio bianco eterosessuale e le sue categorie strutturano le menti delle donne e degli uomini. La maggior parte delle persone crede che ci sia qualcosa di naturalmente maschile come la determinazione, l’aggressività e la passione per gli sport e qualcosa di naturalmente femminile come la dolcezza, la remissività e la mania dello shopping. Quello che De Beauvoir, Belotti e Butler, pensano delle donne e degli uomini, e di conseguenza quello che Chiara Lalli, Pasquale Videtta e Simona Regina riassumono nei loro articoli, è tutt’oggi enormemente distante da ciò che ne pensano le donne e gli uomini comuni.

Se tante compagne e compagni negano la radicalità di assunti tanto libertari in un mondo tanto oppressivo, non è perché sono ciechi, mi dico, ma perché mentono, cioè perché stanno facendo una mossa tattica. Lungi da me fare un’apologia dell’onestà intellettuale: chi difende i propri privilegi sulla pelle dei discriminati non si merita il fair play. Ma se sono delle tattiche bisogna capire se funzionano, se raggiungono gli obiettivi. Forse localmente questa tattica è vincente, forse negare la propria radicalità per entrare nelle scuole, nei festival, negli ospedali, nelle istituzioni è efficace; ma ho dubbi sulla bontà strategica di questa ritirata nella non-esistenza. Mi ricorda una delle mosse che ha fatto la sinistra italiana per raggiungere la propria estinzione negli ultimi vent’anni. Per vent’anni si è ridicolizzato Berlusconi perché vedeva comunisti ovunque e, piano piano, con uno slittamento continuo, si è ridicolizzato il comunismo stesso. “Cosa siamo, dei pericolosi comunisti, se vogliamo solo un po’ di Stato sociale?”, “non stiamo dicendo che… ma solo che…”; solo, solo, solo. Un discorso che chiede solo poche cose, rincorrendo le accuse del nemico, rintanandosi ai limiti del suo spettro politico, cercando di farsi accettare e di non spaventare i moderati. La mia generazione (sono nato l’anno della caduta del muro di Berlino) è cresciuta ridendo dei comunisti in quanto fantasmi paranoici di Berlusconi. Intanto la generazione precedente alla mia, che si è formata in questo clima da cabaret specchiato, è salita al potere, a sinistra, per fare cose di destra. Forse sarebbe stato meglio dichiararsi pericolosi comunisti.

Questo non vuol dire che bisogna accettare tutte le distorsioni che infettano il dibattito pubblico, anzi. È chiaro che il nemico ci deforma, che presenta l’adozione per coppie omosessuali come lo sdoganamento della pedofilia o che dipinge un mondo post-umano di individui tutti uguali. Alain de Benoist, in “Oltre l’uomo e la donna, Contro l’ideologia Gender”, edito quest’anno dal Circolo Proudhon, scrive che “L’aspirazione alla de-differenziazione tradisce un egualitarismo ideologico che confonde l’uguaglianza con l’identicità. La sua colpa più grande consiste nel ridurre l’Altro all’Identico”. Questo non è vero, è una deduzione arbitraria: l’abolizione di due gabbie comportamentali non ne crea una che le comprende entrambe, un’ipotetica gabbia che conterrebbe individui letteralmente impensabili giacché le qualità che dovrebbero possedere, cioè tutte, entrerebbero in contraddizione tra loro. Rompere quelle due gabbie apre piuttosto al molteplice, una meravigliosa molteplicità di caratteri che ci auguriamo si riversino nel mondo. Questo spauracchio dell’individuo unico e omologato è la deformazione retorica che va a confutata. Ma tante altre affermazioni contenute in questo saggio, quando l’autore, riassumendo le tesi dell’ideologia gender, scrive che “le differenze tra i sessi sono “costruite” socialmente”, sono condivisibili e andrebbero rivendicate. Somigliano molto alla sintesi che la quarta di copertina dell’edizione del ’73 di Feltrinelli, dava del pensiero di Belotti: “In realtà non esistono qualità “maschili” e qualità “femminili” ma solo qualità umane”. Suonava rivoluzionario nel ‘73 e suona rivoluzionario oggi. Questa rivoluzione dobbiamo avere il coraggio di affermare.

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