OPINIONI

Capire la differenziazione del capitale. L’eredità di Pablo Levin

Un ricordo dell’economista argentino autore di “Il capitale tecnologico”, in cui si descrive come la differenziazione del capitale porti anche alla differenziazione degli Stati, delle monete, delle persone, del mondo

È morto lo scorso mese Pablo Levín, economista argentino praticamente sconosciuto nel panorama internazionale, ma che ha avuto un impatto su generazioni di argentini con la potenza teorica e politica del suo progetto. “Pablo era uno che incarnava e viveva la teoria, era qualcosa che andava molto al di là delle aule universitarie. Incarnava un modello di università che oggi fatica a sopravvivere, e forse potrà solo esistere in nuove istituzioni”, ricorda Pilar Piqué, sua allieva e ricercatrice del Ceplad (Centro di Studi per la Pianificazione dello Sviluppo). Ricorda le discussioni interminabili che si protraevano per ore dopo le sue lezioni, così come le sperimentazioni portate avanti dal centro in vista dello sviluppo di una “pianificazione operaia e democratica”.

Pablo Levín ricopriva la cattedra di Economia marxista e di Storia del pensiero economico all’Università di Buenos Aires, e dirigeva il seminario Pianificazione cooperativa e socialismo. Il suo progetto ha una forte ambizione filosofica: guardare oltre le diatribe che oppongono “economisti ortodossi” e “eterodossi”, ossia da un lato i paladini di una teoria economica (del libero scambio e dell’uguaglianza formale) sfasata rispetto alla realtà (della disuguaglianza e della dominazione), e dall’altro i partigiani dell’empirismo per cui quella teoria non è che una forma di mistificazione.

Per lui, bisogna recuperare il progetto critico di Marx e farlo uscire dal vicolo cieco in cui è rimasto arenato, supponendo che l’unica forma di accumulazione del capitale consista nello sfruttamento dei lavoratori, che il capitale sia indifferenziato, unico nella sua natura, e che la storia opporrà l’uno di fronte all’altro i due blocchi antagonisti dei lavoratori e dei capitalisti.

Quello di Levín è un tentativo di comprendere la differenziazione del capitale, con la logica ferrea della teoria e non sulla base di spiegazioni circostanziali come viene fatto di solito; perché la differenziazione del capitale, fenomeno necessario e non circostanziale, porta con sé la differenziazione degli Stati, delle monete, delle persone, del mondo. È a questo che dedica il suo libro più importante, Il capitale tecnologico (1997).


Levín propone una sintesi dello sviluppo (inconcluso) della teoria economica, scandito in tre momenti che richiamano a loro volta tre ambiti del sistema economico globale e tre fasi dello sviluppo storico del capitalismo. Il primo momento è quello del mercato, della legge dell’equilibrio tra la domanda e l’offerta: l’equilibrio fa sì che “nello scambio non c’è guadagno”, trattandosi di un gioco a somma zero.

È per questo che nel capitalismo mercantile, che ha preceduto la rivoluzione industriale, non c’è accumulazione se non attraverso la spoliazione, la razzia coloniale, il ricorso a forme di sfruttamento tributarie e precapitaliste. Nella teoria del mercato, però, l’esistenza delle merci si dà per scontata, non importa da dove vengono: cadono come la manna dal cielo e da lì si incominciano a negoziare i prezzi.


Perciò, questo primo momento della teoria doveva essere inglobato in un secondo momento più ampio, quello della produzione delle merci e della teoria del valore, introdotta da Adam Smith e David Ricardo.

Un prodotto – che nel capitalismo diventa merce – ha valore in funzione del dispendio di lavoro umano necessario alla sua riproduzione. L’abbandono del concetto di valore nell’economia mainstream è per Levín una delle perdite principali della disciplina – di cui però sono responsabili anche gli economisti classici e marxisti, nel non aver esplicitato come la legge del valore operi concretamente, mediata dal meccanismo del mercato e dei prezzi.

(da commons.wikimedia.org)

La legge del valore veniva alla luce nell’epoca della rivoluzione industriale, ma come già aveva capito Ricardo, questa legge vale solo per i beni riproducibili: non si può dire di un quadro di Picasso che il suo prezzo è determinato dal suo valore, dal tempo di lavoro che gli si è dedicato. Tale seconda teoria dell’economia politica, fondata sul valore e perciò sul lavoro di riproduzione delle merci da immettere nel mercato, lascia nell’ombra il processo che governa il sistema di riproduzione, la conoscenza che organizza il lavoro.

Anche se Marx vedeva i capitalisti affannati nella ricerca di innovazioni per battere i loro concorrenti e per sfuggire alla caduta tendenziale – suppostamente inesorabile – del tasso di profitto, l’innovazione, in quanto bene non riproducibile – una volta che è riprodotta non conta più come innovazione, non è più nuova – non ha spazio in questa teoria: anche le invenzioni discendono come la manna dal cielo.


E qui sopraggiunge il terzo momento della teoria, quello del capitale differenziato, che è la teoria del sistema di produzione nella sua totalità, che include i beni sia riproducibili che irriproducibili: e quindi, l’innovazione, la cultura, la scienza, la stessa teoria. La riproduzione dei beni è governata da imprese che, alla fine di un lungo processo storico di accumulazione, sono riuscite a concentrare la capacità di creare e di innovare, e poiché innovare è una necessità vitale in un’economia competitiva, tutte le imprese tecnologicamente subalterne dipendono dalle prime.

Il valore – prodotto per definizione dal lavoro riproduttivo, non dall’istante irriproducibile della creazione – fluisce perciò dalle imprese subalterne e meno innovative a quelle creatrici. Questa tendenza, presente fin dagli albori della rivoluzione industriale, matura e diventa palese nell’era di Google e di Monsanto. Ormai non è tanto l’espropriazione dei mezzi di produzione, come credeva Marx, a fare la differenza: si possono avere i propri mezzi di produzione ed essere sfruttati – vedasi Uber.

Il capitalismo contemporaneo si fonda sull’appropriazione della capacità produttiva e creativa. È questo, in ultima istanza, che determina chi pianifica chi: l’emancipazione e la maturazione di una pianificazione democratica non può che passare per la riappropriazione di questa capacità.

I dibattiti sulle patenti, i vaccini, sul diritto di proprietà intellettuale contro i commons e la salute pubblica, sul ruolo delle università e delle imprese nella produzione dell’innovazione, colgono aspetti di queste contraddizioni contemporanee, ma ci stiamo ancora muovendo in un orizzonte teorico confuso. La strada aperta da Levín è lunga da percorrere, ma fondamentale per raccogliere consapevolmente le sfide del presente. Le attività del Ceplad, il centro da lui fondato, continuano a muoversi in questa direzione, ma credo che il suo lascito intellettuale e umano potrebbe essere fonte di ispirazione e rinnovamento per una fascia ben più ampia della sinistra internazionale.