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Ascanio Celestini racconta via Rasella (23 marzo 1944)

Un estratto da “Guida alla Roma ribelle” (ed. Voland, 2013) in cui Ascanio Celestini racconta l’azione partigiana del ‘44 a cui seguì la rappresaglia nazista dell’eccidio delle Fosse Ardeatine

Pubblichiamo un estratto da “Guida alla Roma ribelle” di Rosa Mordenti, Viola Mordenti, Lorenzo Sansonetti, Giuliano Santoro (Ed. Voland, 2013).  Questo testo è stato raccolto dagli autori in una conversazione con Ascanio Celestini.

A Roma non ne vengono raccontate molte di storie di guerra, e spesso c’è in questi racconti una gran confusione. Per esempio molti romani pensano che a bombardare la città siano stati i tedeschi invece degli americani, perché i tedeschi erano i nemici. A Roma la memoria condivisa delle bombe su San Lorenzo ha superato il problema del chi ha bombardato. Non importa che siano stati gli americani, importa che siano morte tantissime persone, soprattutto civili, affinché la guerra terminasse. Passa questa idea e tutto è a posto: i morti sono nostri, noi siamo le vittime, noi siamo tutti uguali.

Per l’azione partigiana di via Rasella invece le cose cambiano. Qual è la memoria condivisa dalla città per quell’azione? Che lapide metti, a via Rasella? Una lapide per quelli che uccisero i tedeschi, “Qui si ricorda la giusta esecuzione di 33 infami tedeschi?” Come fai, metti “Finalmente qui abbiamo ammazzato 33 tedeschi che opprimevano il popolo italiano”?

Anche intorno all’azione di via Rasella circolano una serie di notizie false che mettono in discussione la possibilità di farne una memoria istituzionale, quindi propagandistica, quindi condivisa: e questo è il motivo per cui su quella strada non c’è nessuna lapide che ricordi l’azione del 23 marzo 1944.

Esiste una vulgata, ad esempio, secondo cui i soldati rimasti uccisi non erano tedeschi ma altoatesini, cioè italiani; però erano altoatesini che avevano aderito alle SS. Qualcuno poi sostiene che fossero vecchi e non lo erano affatto, erano più giovani dei partigiani, e infatti quando vennero colpiti tornavano da un addestramento. Immediatamente dopo c’è stato, per rappresaglia, un eccidio nazista, ma perfino sull’eccidio circolano falsità che vengono considerate vere.

Non tra i tedeschi, ma tra gli italiani e in particolare tra i romani s’è messo in moto un meccanismo attraverso il quale molti, moltissimi – spero qualcuno di meno, dopo il libro di Sandro Portelli e dopo il mio spettacolo – pensano che ci fosse una legge di guerra, accettata da tutti come se fosse stata concordata a Ginevra, la quale prevedeva che per ogni tedesco ucciso dovessero essere uccisi dieci italiani. Si dice addirittura che fossero stati messi dei manifesti, per strada e sui giornali, nei quali i tedeschi comunicavano che se i partigiani non si fossero presentati spontaneamente loro avrebbero ucciso dieci italiani per ogni tedesco morto in via Rasella. Ovviamente non è vero niente, non è vero perché il 23 marzo ’44 ci fu l’azione partigiana e il 24 l’eccidio alle Fosse Ardeatine, e non è vero perché non ci fu né il tempo né la volontà di farla, questa cosa. E infine, se anche ci fosse stato un manifesto del genere per le strade di Roma, i partigiani avrebbero fatto benissimo a non presentarsi. Quella di via Rasella è stata un’azione di guerra, e in nessuna guerra si è mai chiesto a un soldato che abbia sparato al suo nemico, uccidendolo, di presentarsi dall’altra parte della trincea con nove suoi commilitoni per farsi giustiziare.

Ma via Rasella è interessante, per me, soprattutto per un episodio. Una delle prime volte che rappresentai Radio clandestina, all’inizio di dicembre del 2000, lo feci alla libreria del “manifesto” a via Tomacelli, che ora non c’è più. Vennero anche Sasà Bentivegna e Mario Fiorentini. Fiorentini alla fine dello spettacolo mi disse: “Tu dovresti raccontare la storia degli artigiani che fecero parte della Resistenza.” Questo aspetto è molto interessante, perché Roma non era e non è una città industriale. Non accadde come in altre città del nord, ad esempio a Torino, dove i partigiani si organizzarono soprattutto nelle fabbriche. A Roma di fabbriche ce n’erano pochissime. Molti partigiani erano piccoli artigiani, e questo fa sì che la storia della lotta partigiana a Roma sia una storia raccontata nelle case, domestica, piuttosto che una storia vissuta collettivamente nella fabbrica, quindi già in qualche maniera marxista-leninista, e quindi anche con un bisogno oggettivo di mettere in comune delle esperienze.

Fiorentini mi disse: “Molti di noi erano artigiani, Orfeo Mucci per esempio, e tu dovresti raccontare dei partigiani artigiani.” Nello stesso periodo quelli di Radio 3 mi avevano proposto di fare una trasmissione con storie di guerra, e io volevo raccontare quello che non viene mai raccontato, che resta sommerso dalla parte più estrema della guerra, dai morti, dai bombardamenti, dalle rappresaglie. Pensai di prendere spunto proprio dai racconti di Mario Fiorentini, e che il titolo sarebbe stato San Giuseppe partigiano.

Così Mario e io ci incontrammo a piazza Barberini, davanti al cinema. Per raggiungerlo venni giù in motorino da via Barberini contromano. Fiorentini mi disse che era contromano anche negli anni ’40. E mi raccontò un’altra azione partigiana organizzata proprio in quella piazza, perché il giovedì pomeriggio al cinema facevano le proiezioni solo per i tedeschi. “Arrivai,” mi raccontò Fiorentini “scesi dalla bicicletta e la bomba mi cadde a terra. I tedeschi se ne accorsero però non pensarono fosse una bomba, videro solo un pezzo di ferro, per cui la raccolsi, me la rimisi in tasca, ripresi la bicicletta e andai via. Quando Trombadori venne a sapere che avevo fatto un’azione senza chiedergli il permesso, peraltro utilizzando una bomba rimediata dagli anarchici del Verano, be’, questo gli fece un po’ rodere il culo. Mi giustificai dicendo che il comando centrale diceva di colpire tedeschi e fascisti sempre e comunque, che avevo avuto l’occasione e l’avevo fatto, anzi che ci avevo provato.”


Nella foto i gappisti romani, tra cui Carla Capponi e Rosario Bentivegna

La settimana successiva ci riprovò Bentivegna. È un episodio che raccontava spesso e che si trova anche nel suo libro Achtung Banditen. Prima e dopo via Rasella. Bentivegna arriva in piazza Barberini con una bomba in tasca, l’accende nella tasca prima di tirarla fuori in maniera che nessuno veda uno che accende una bomba, ma l’ordigno gli si incastra nel cappotto. In quei pochi secondi pensa: che faccio, mi levo il cappotto e glielo tiro? Oppure mi lancio contro di loro come un kamikaze, che se devo esplodere io almeno esplodo con loro? E in quei sette-otto secondi, che riempiono una pagina e mezzo del libro e durante i quali quindi il pensiero è stato molto più veloce del tempo, in quei pochi secondi riesce a togliersi l’ordigno dalla tasca e a lanciarlo contro i tedeschi.

Chiesi a Fiorentini di continuare a raccontare. Mi disse che la Fontana delle api prima era un po’ spostata, “non stava proprio lì dove sta adesso”. Andammo ancora più giù lungo via del Tritone, e mi portò a via Zucchelli, dove aveva visto arrivare i tedeschi per la prima volta, nel settembre del ’43. Era già fidanzato con Lucia Ottobrini, con cui è sposato ancora adesso. Quel giorno erano insieme. Anche Lucia è stata una partigiana, ha fatto azioni come tutti gli altri e come tutte le donne della lotta partigiana romana, come Maria Teresa Regard, Marisa Musu, Carla Capponi. Dopodiché andammo verso via Rasella, ma la storia di via Rasella Fiorentini me la raccontò prima di arrivarci. Mi è sembrato che quel luogo fosse per lui fisicamente tabù. Era come se Fiorentini mi dicesse: “Te ne parlo perché fa parte della mia vita, ma per me quel luogo è come se non esistesse.”

In quel momento ho pensato che forse è proprio così. Cioè che via Rasella è come se non esistesse più, un po’ come Spina di Borgo, che non c’è più perché al suo posto c’è via della Conciliazione. Esiste una memoria legata a via Rasella che è tutta un’altra cosa, rispetto a ciò che quel luogo è adesso. Perciò la lapide forse sarebbe meglio non mettercela mai. La lapide è nella memoria delle persone che ricordano cosa è successo in quella strada.

Per Fiorentini erano comunicabili i luoghi con i quali aveva una relazione personale, che era la sua e che non era così pesante. Perciò mi aveva parlato di piazza Barberini e della fontana, o di via Zucchelli, che non ha nessuna storia particolare se non la sua personale con Lucia Ottobrini. Ma di via Rasella no. Via Rasella è quella parte della storia della lotta partigiana romana che non appartiene più soltanto ai partigiani e non appartiene più alla lotta di liberazione partigiana nazionale; è un luogo dello scandalo e della contraddizione che la memoria reca in sé.

Al contrario chiunque può dire che San Lorenzo è stato bombardato il 19 luglio 1943. Di più, chiunque può partecipare del bombardamento di San Lorenzo. Mia madre raccontava che quando bombardarono San Lorenzo sua madre, mia nonna Marianna, aveva trovato delle uova e delle zucchine. Vivevano a Torpignattara, in una casa di tre stanze con la cucina in comune con un’altra famiglia, cosa tipica in quegli anni. Mia nonna fa questa frittata di zucchine, dopodiché la sirena che avverte dell’arrivo degli aerei si mette a suonare. Mia nonna e mia madre sono preoccupate soprattutto per la frittata di zucchine, che non se la mangi qualcuno mentre loro stanno al rifugio. Fino a quel giorno Roma non era stata bombardata, per cui ormai nessuno ci andava più nei rifugi. Si pensava che Roma non sarebbe stata toccata dalle bombe, per via dei monumenti, del papa, dell’antiaerea di Mussolini. Invece stavolta bombardano veramente, e mia madre e mia nonna, una volta uscite dal rifugio, vedono da Torpignattara i fumi su San Lorenzo. Il quartiere è raso al suolo, ci sono migliaia di morti. La prima cosa che mia nonna e mia madre decidono di fare è andare a vedere il bombardamento, però arrivano solo fino all’Osteria della Stelletta, a Torpignattara, vicino casa. Era l’osteria dove andava mio nonno. Mia madre ricorda i vetri delle case attorno sfondati, e di aver raccolto un pezzettino di ferro che secondo lei era un pezzo di una bomba, così, come souvenir. Poi tornano a casa, e fortunatamente la frittata di zucchine c’è ancora.


Nella foto i rastrellamenti delle SS per le Fosse Adreatine

Molte storie di guerra sono storie attraverso le quali ci si appropria di un avvenimento che ha coinvolto tutti; quindi anche noi, se si può dire così, stavamo lì. La mia storia personale acquista valore, non è più solo una frittata di zucchine, è la guerra, sono i bombardamenti, i morti, la fame, e siamo anche noi e la nostra frittata di zucchine. Raccontare una storia significa dire questa è la mia storia personale, ma interessa anche te, perché ti sto raccontando la storia di tuo padre, della tua famiglia, del luogo in cui abiti, oppure perché ti voglio far capire che la tua storia non è soltanto tua, ma è parte di una storia collettiva più grande.

Ecco perché i racconti di via Rasella stentano a stare dentro i limiti di una memoria condivisa. Io non credo alla memoria condivisa, la memoria è personale però può essere messa a disposizione degli altri. Perché non si racconta via Rasella? Perché non c’è per quella storia alcuna possibilità di condivisione. Perché morirono dei tedeschi. Però erano soldati. Però fu un attentato. Vennero ammazzate delle persone. Nei giorni immediatamente successivi al fatto “L’Osservatore romano” definì i tedeschi vittime, e i partigiani colpevoli.

Dei partigiani abbiamo un’immagine di persone buone e giovani. Sono quelli che cantano Bella ciao col fazzoletto al collo, quelli che si difendono, non quelli che sparano, non quelli che ammazzano. Non fu così ovviamente, però via Rasella è interessante proprio per questo, perché è un luogo che non può essere un luogo della memoria della città, anche perché è una strada molto defilata. Ma succede una cosa: che questo luogo, e quello che successe in questo luogo, nella testa di qualcuno resta e sedimenta.

L’azione di via Rasella è stata molto importante nella storia della liberazione nazionale. È stata un’azione di svolta, come conferma il fatto che i tedeschi abbiano risposto con una rappresaglia tanto feroce. Di azioni partigiane ce n’erano state una quarantina, prima, ma non così eclatanti. Non se n’era parlato granché e non c’era stata una risposta così violenta da parte dei tedeschi. Mario Fiorentini disse che Kappler era stato diabolico a organizzare l’eccidio tanto rapidamente da impedire qualsiasi tentativo di fermarlo. Gli unici che lo sapevano forse erano in Vaticano, ma il Vaticano aveva scelto ambiguamente e ipocritamente di restarne fuori.

La memoria non è condivisibile. Le lapidi sono dei morti. Ci si mettono sopra nome cognome e due date. Solo su quelle siamo d’accordo, e neanche sempre. Mio padre è nato il 21 settembre ’35 ed è morto il 18 febbraio 2003, c’è scritto sulla lapide. Tutto il resto è il tentativo di nascondere le contraddizioni, la concretezza della vita delle persone. Forse la memoria deve passare attraverso altri canali che non siano le lapidi.