MONDO

Territori e trame comunitarie della resistenza mapuche

A partire dai canti e dalle parole di Soraya Maiconio, artista e voce spirituale della comunità mapuche Pu Lof Cushamen, ci inoltriamo nelle lotte recuperare la memoria e i territori comunitari a fronte dell’offensiva estrattivista e della violenza coloniale nella Patagonia argentina.

Memorie, voci e spiritualità della resistenza mapuche nel canto si Soraya che si alza al suono di un tamburo secondo il ritmo del battito del cuore. Le invocazioni sono canti di sanazione, le melodie di lotta sono parole in difesa del territorio e della spiritualità mapuche.

«Da quindici anni continuo a percorrere comunità, paesi e località in diverse province del sud del Paese, con l’intenzione di recuperare il nostro canto ancestrale, il canto comunitario attraverso il quale trasmettiamo le nostre conoscenze e che oggi ci accompagna nella resistenza all’estrattivismo e alla violenza dello Stato, complice delle imprese nel tentativo di sottrarci i nostri territori per devastarli con miniere, fracking e agrobusiness»: così si presenta Soraya Maiconio, nella sala centrale del Museo Etnografico di Buenos Aires, dopo aver cantato la prima canzone che ha appreso anni addietro da una guardiana dei fiumi e della terra mapuche.

 

Soraya è una artista, cantante, attrice e militante indigena mapuche, fa parte della comunità del Pu Lof in Resistenza Cushamen.

 

Da diverso tempo attraversa il Paese cantando, raccontando storie e condividendo le parole di lotta di un popolo che non si arrende al genocidio, alla miseria e alla violenza coloniale che si continua a perpetuare in forme nuove. Pochi giorni prima, in uno spazio autogestito e comunitario nel quartiere di Flores a Buenos Aires, Soraya aveva incontrato attiviste femministe ed esperienze di autogestione, cooperative di donne ex detenute che si organizzano per trovare collettivamente una uscita dalla condizione di precarietà e marginalità, collettivi migranti che costruiscono reti e cooperative delle economie popolari.

 

Il racconto di Soraya: memoria, territori, canti

L’occasione di questo incontro era stata un’opera teatrale che compone in modo ironico e profondo, divertente e immediato saperi ancestrali e problemi contemporanei, che parla di culture, pratiche e forme di vita rese invisibili dalla colonialità e dal razzismo, dal mito dell’Argentina bianca, europea e moderna, costruito su un genocidio che non sembra finire mai. Alla ricerca di una comprensione dell’orizzonte mapuche, dei saperi comunitari e delle relazioni con gli esseri viventi non umani, con la natura e il territorio, a partire da dialoghi, monologhi e canzoni che restituiscono le inquietudini di una nuova generazione di indigeni in lotta.

A partire dalla metafora della tessitura e dall’atto concreto di apprendere a filare la lana delle pecore che accompagnano le comunità mapuche, Soraya racconta la relazione con la città, l’incontro e la compresenza tra cultura ancestrale e nuove forme di vita urbana, le difficoltà, il gelo dell’inverno e il calore della comunità, le violenze e le fughe, la ricerca di un mondo diverso e la solitudine, le musiche ancestrali e la cumbia, il rock e gli insegnamenti che provengono dagli animali, dalla comunità, dai venti e dai fiumi, incontri che riannodano tessuti, relazioni, memorie nei territori in resistenza.

 

«Stiamo riconstruendo in forma collettiva la nostra memoria, per ricordare quali sono le terre che ci sono state sottratte, per poterle recuperare.»

 

«La storia che abbiamo vissuto ci porta a convivere giorno dopo giorno con tanto dolore, tristezza, rabbia, risentimento, violenza, disamore, assenza di opportunità… non è facile essere un mapuche oggi, con tutta questa tristezza caricata sulle nostre spalle. Ma il lavoro che facciamo a livello comunitario è fondamentale per recuperare quello che siamo e per assumere la responsabilità di recuperare quei territori che sono stati sottratti ai nostri antenati».

Alternando canzoni e parole, al ritmo del tamburo Soraya racconta storie di spossessamenti, di deportazioni, di migrazioni forzate, di comunità distrutte a partire dalla Campagna del deserto, la spedizione militare genocida guidata dal generale Roca a fine Ottocento.

 

Siamo nella sala del Museo Etnografico dedicata al genocidio indigeno, impressionanti le risonanze tra le immagini in bianco e nero sulle pareti e le parole di Soraya.

 

 

 

Soraya ci parla dei dilemmi, delle riflessioni, delle sfide per costruire quello che, parafrasando gli zapatisti, possiamo chiamare un mondo dove possare esistere molti mondi. «Una grande quantità di comunità si sono formate negli ultimi trent’anni, molte sono diventate famose per la lotta contro Benetton e, dopo gli sgomberi, molte sono rientrate».

Soraya racconta esempi concreti, vite e lotte di uomini e donne della Patagonia che resiste: «Per esempio ricordo le nonne e le loro famiglie che sono rientrate nella comunità di Vuelta del Rio, dove i gendarmi hanno distrutto con una ruspa le case e le terre della comunità, poi hanno ucciso e si sono mangiati gli animali della comunità. Eppure la comunità ha resistito, e sono state tre donne anziane quelle che hanno guidato il nuovo recupero delle terre comunitarie. A partire dal recupero delle terre di Pu Lof Cushamen, di cui si era appropriato Benetton, la nostra lotta e il conflitto che sosteniamo è diventato più conosciuto».

In quella comunità infatti, vi è stata una durissima repressione l’11 gennaio 2017 da parte della polizia, con tanto di armi da fuoco, mentre poco dopo, nell’ambito del procedimento volto a chiarire le responsabilità delle forze dell’ordine, parte del territorio della comunità è stato incendiato e distrutto.

Meno di otto mesi dopo, durante un blocco stradale per richiedere la libertà del lonko Facundo Jones Juala, leader spirituale e guida della comunità, la gendarmeria ha attaccato la comunità, in quel tristemente famoso primo di agosto che ha visto la desapariciòn per mano della Gendarmeria per oltre due mesi di Santiago Maldonado, poi ritrovato morto nel fiume Chubut in condizioni ancora non chiarite.

Lo stesso giorno in cui veniva seppellito Santiago, i corpi speciali spararono alle spalle di un giovane mapuche, lavoratore dell’economia popolare, Rafael Nahuel, durante lo sgombero di una comunità recuperata a Villa Mascardi. Soraya ricorda Rafita, come lo chiamavano, chiamando a sostenere le manifestazioni che ogni 25 del mese si svolgono sotto la statua del genocida Roca, a pochi metri dalla casa presidenziale in centro a Buenos Aires, per chiedere verità e giustiza del 22enne  membro della comunità Lafken Winkul Mapu.

«Perché per Santiago c’è stata tutta questa empatia e per Rafita, o per altri indigeni, non si sono state grandi mobilitazioni? Questo ci fa male, è il segno del razzismo profondo che continua a esistere qui in Argentina, dove essere indio, essere mapuche, significa ancora essere inferiori, subire violenza ed espropriazioni, giorno dopo giorno».

 

Foto: La Tinta

Silverio e le lotte del popolo wichi

Sulle pareti, assieme alle foto storiche del museo, le foto di Ismael e Facundo, di nove e tredici anni, uccisi dalla polizia negli scorsi mesi a Tucuman e nel Chaco. Giovanissimi, poveri, indigeni. E quella del dirigente wichi, popolazione indigena del Chaco, Silverio Enriquez, ritrovato morto, dopo essere sparito dal 12 settembre per oltre una settimana, nell’ambito di un conflitto per la terra nel nord del paese che riguarda un’area di diecimila ettari in processo di recupero da parte delle comunità indigene.

Silverio abitava in una terra recuperata dal movimento Wichi e Qom  con il sostegno della Federazione Nazionale dei Contadini e si stava recando nelle terre in via di recupero per incontrare alcune comunità in lotta. Risonanze zapatiste emergono nelle parole dei wichi della sua comunità: “Stiamo costuendo un mondo dove coesistano molti mondi, e stiamo costruendo un nuovo potere dal basso dove si comanda obbedendo” affermano i portavoce della comunità. E’ sparito nel tragitto che lo portava in questi territori, ed è stato ritrovato morto dopo più di una settimana dai compagni che lo hanno cercato lanciando a livello nazionale una campagna per l’apparizione in vita del dirigente contadino. La famiglia, gli amici e le comunità in via di recupero delle terre hanno denunciato l’operato della polizia e l’assenza di ricerche effettive.

Soraya mostra i volti che appaiono nelle foto esposte dietro di lei, volti che si rispecchiano nelle immagini del museo, nelle fotografie delle deportazioni e dei massacri, sovrapponendo temporalità, storie e luoghi di un massacro infame.

 

 

Canti di vita, di lotta, di resistenza

Soraya alterna una dolce ninna nanna per bambini con una canzone che trova la sua forza dallo spirito e dalla potenza femminile, una canzone che, racconta Soraya, ha imparato da una autorità spirituale anziana che ha incontrato durante la sua ricerca della cultura ancestrale. Una canzone che parla del potere femminile, della forza delle donne, per cui dopo le ultime note e gli ultimi battiti del tamburo sacro afferma: «come donna mapuche vivo l’oppressione patriarcale assieme all’oppressione coloniale, quest’anno per la prima volta parteciperò all’incontro nazionale delle donne, che si terrà a metà ottobre a Trelew, nella Patagonia, e richiederemo, assieme a tante altre sorelle indigene, che da oggi in poi si riconoscano le differenti nazionalità indigene e che l’incontro nazionale diventi Incontro Plurinazionale delle donne», racconta Soraya.

 

Soraya torna a cantare, questa volta una canzone di sanazione, un canto mapuche alla lotta e alla vita.

 

Perché, spiega, noi come indigeni «non vogliamo essere vinti e sopraffatti dalla violenza, dalla rabbia, dobbiamo trovare la forza per connetterci con le nostre comunità e il nostro territorio, le montagne, i fiumi, i venti, gli animali, le piante. Noi non abbiamo idea di come la società bianca possa risolvere i suoi conflitti, ma noi ne soffriamo l’oppressione, anche se sappiamo che abbiamo dalla nostra la forza spirituale che ci sostiene. Quando vediamo i nostri figli soffrire violenze, quando vediamo indifferenza ci sentiamo male, perché vediamo come spesso molti oppressi diventano complici degli oppressori», afferma ancora Soraya.

«Noi viviamo una grande contraddizione, viviamo in due mondi opposti, come accade a tanti popoli indigeni, perché viviamo in un mondo capitalista, consumista, individualista, e al tempo stesso stiamo cercando di recuperare e appropriarci di un cammino comunitario, spirituale, d’accordo con la cosmovisione che appartiene alla nostra cultura. Diventa difficile trovare le risposte su come portare avanti un processo di recupero, su come portare avanti l’autodifesa, su come vivere spazi come questo di oggi, perché stiamo cercando di trovare il modo di vivere questi due mondi, dove uno opprime l’altro».

 

Foto di Santiago Zaninelli. Revista Anfibia

Territori contesi

L’oppressione e la spoliazione delle risorse e del territorio, che si accompagna con incendi dolosi, aggressioni, minacce, distruzioni dell case e furti di animali, sono scene quotidiane per molte comunità, mentre nuovi sgomberi sono in arrivo nei territori della Patagonia, comprese molte comunità che avevano ottenuto negli scorsi anni la legalizzazione della propria situazione.

«A noi, come molte altre comunità, non interessa il riconoscimento statale, noi siamo mapuche e sappiamo che quei territori sono nostri e per questo ce li riprendiamo. Ma altre comunità che hanno recuperato i propri territori hanno scelto di essere compresi nel rilevamento delle comunità portato avanti dallo Stato e hanno ottenuto una personalità giuridica, una certa stabilità, tenere le carte a posto faceva sentire più sicure queste comunità.

 

Ma oggi sono stati scoperti giacimenti minerari sotto quei territori assegnati alle comunità, per cui lo Stato sta cercando di trovare il modo per sgomberarli.

 

È appena arrivato un nuovo ordine di sgombero ieri, in una comunità in Chubut. Con le nuove tecnologie si riesce a scoprire la presenza di oro, argento, petrolio nei territori e appena si trovano queste risorse lo Stato e le imprese cercano in tutti i modi di cacciare le comunità per appropriarsi delle risorse. Sono tempi molto, molto difficili», conclude Soraya.

Pochi giorni dopo la sua conferenza, sei comunità mapuche che avevano ricevuto lo statuto giuridico da quindici anni lo hanno perso grazie all’intervento della Corte Suprema che ha dichiarato nullo quanto stabilito nel 2002.

 

Dietro questa decisione, l’interesse delle imprese multinazionali e del governo per le risorse dell’area Vaca Muerta, uno delle aree dove si sta aprendo un grande fronte di conflitto contro l’estrattivismo.

 

L’applauso finale che segue ad un lungo dibattito è denso di commozione, di rabbia, degno di un incontro che permette uno spazio di comprensione, di empatia, di relazione e di connessione con un mondo che per molti appartiene al passato e che invece mostra la sua straordinaria attualità e potenza per pensare una trasformazione delle nostre società.

L’importanza di ripensare la relazione con la pachamama, con la terra, con i mondi viventi non umani e, al tempo stesso, la possibilità di immaginare altri territori, di resistere alla devastazione e al saccheggio capitalistico in forme differenti, a partire da spiritualità, saperi e orizzonti molteplici emerge come questione aperta, come possibilità, come pratica e come orizzonte presente.

Come possibilità che ci interpella tutti, indigeni o no, fuori da ogni essenzialismo culturalista, piuttosto ripensando a partire dalla prospettiva indigena il mondo che viviamo, ma ci interpella anche perché ci permette di ripensar-ci, di ripensare un divenire indio della resistenza, la ricerca di una autonomia nei diversi territori che trasformi la stessa concezione di territorio e di mondo che viviamo, così come ci interpella sulla costruzione di relazioni differenti, di visioni ed immaginazioni politiche che reiventano spazi e tempi del conflitto, aprendoci a nuove possibilità e sperimentazioni di vita in comune e relazione con la terra.

 

L’estradizione del lonko Facundo Jones Huala

In queste ultime settimane, le persecuzioni giudiziarie e repressive stanno colpendo molti leader indigeni: la scorsa settimana, a partire da un accordo tra Macri e Bachelet presidenti di Cile ed Argentina, stabilito alcuni mesi fa e nonostante l’opposizione dell’Onu, il leader Facundo Jones Huala è stata estradato in Cile nel carcere di massima sicurezza di Valdivia, tristemente famoso per le torture e le violenze. Un procedimento illegale che dimostra l’assenza di garanzie democratiche e la violenza della persecuzione politica che colpisce i giovani indigeni in lotta, perché Jones Huala era già stato assolto per lo stesso processo in cui era  accusato di terrorismo per avere, secondo l’accusa, partecipato a un’azione terminata con  un incendio. L’illegalità del procedimento, come denuncia in una intervista esclusiva su “Notas” prima dell’estradizione, è parte di un piano che pretende eliminare gli indigeni dalle loro terre.

 

La continuità coloniale è evidente rispetto alla situazione del conflitto per il territorio nella Patagonia.

 

Così ha scritto Florencia Trentini  : «dopo la cosiddetta “Conquista del deserto” la terra “vinta” e strappata all’“indio” è stata suddivisa tra poche mani, e gli indigeni sono stati confinati a zone non adatte e funzionali solo al modello agroesportatore del tempo, confinati in quelle terre che fino a pochi anni fa non erano considerate “utili”. Oggi queste terre valgono molti soldi e quindi i “nessuno” diventano visibili, perché si trasformano in un ostacolo per il modello economico che si vuole imporre».

I padroni della Patagonia, le famiglie coloniali di fine ottocento (i cui rampolli occupano posti chiave dei ministeri del governo di Macri) e i miliardari occidentali (Benetton, Lewis e poche decine di altri imprenditori del nord del mondo) hanno oggi nuovi interessi per quelle terre che si trovano al centro di una nuova conquista, vincolata al turismo, alle grandi miniere, all’agrobusiness.

 

La persecuzione contro chi resiste avviene attraverso la costruzione di un nemico interno.

 

Il dispiegamento delle forze repressive per “cacciare indigeni” colpisce con violenza le comunità mapuche, ma anche qom, wichi, guarani e altre dei 36 popoli originari riconosciuti dalla Costituzione argentina. Non è un caso che il Comando Sud delle forze militari statunitensi, che ha da poco, grazie a Macri, installato le sue forze nella Terra del Fuoco, considerino i mapuche nientemeno che una minaccia per la pace e la stabilità del continente.

 

Persecuzione contro le donne indigene, guardiane della terra

Moira Millan è weichafe – guardiana della terra – della comunità mapuche di Pillan Mahuiza, una terra recuperadata dal 1999. «Stiamo difendendo il territorio da una aggressione violenta, portata avanti dal modello estrattivista», denuncia Moira Millan che lo scorso anno, ai microfoni di DINAMOpress aveva ricordato la desaparición di Cañulef, dipendente di Benetton, che scomparve nel 1996 dopo aver rivendicato aumenti salariali.

 

Moira è sotto processo per l’occupazione pacifica del tribunale di Esquel, quando i mapuche avevano denunciato l’agire fazioso del giudice Otranto, poi destituito per assenza di imparzialità.

 

Si trattava del giudice a carico della prima indagine sulla desaparición di Santiago Maldonado, che ha messo sotto controllo la famiglia Maldonado invece di indagare tra i gendarmi responsabili della repressione che ha portato all’invasione illegale dei territori comunitari e alla desaparición e morte del giovane solidale con i mapuche.

Ma la persecuzione dell’attivista della Rete di Donne per il Buen Vivir, comincia quando Moira, sulla base di una  decisione della comunità, perquisisce e controlla gli agenti di polizia che stavano entrando per la perquisizione in una comunità per assicurarsi che non portassero con sé armi da fuoco.

Si è tenuta a Buenos Aires una prima mobilitazione in solidarietà, rilanciata da Ni Una Menos e da altre organizzazioni nella capitale e in altre città, nel giorno di inizio del processo. Millan denuncia il ministro della sicurezza Patricia Bullrich definendola una «irresponsabile, delirante, con una immaginazione degna di Hollywood, perché vuole creare scenari di guerra laddove la nostra è una rivoluzione pacifica».

 

«Noi siamo tutt’uno con il nostro territorio, non siamo terroristi».

 

Così afferma infine Ivana Huenelaf, della comunità Pu Lof Cushamen, processata per i fatti di gennaio 2017, quando la polizia iniziò la persecuzione repressiva con arresti illegali e caccia all’indigeno nella comunità, sei mesi prima dei fatti che portarono alla desaparición e morte di Santiago Maldonado.

«Sono venuti a cacciare mapuche, così dicevano mentre sparavano e ci reprimevano. Queste erano le parole esatte che hanno detto. Mi accusano di aver sparato, tirato pietre e bottiglie molotov, ma niente di questo è vero», afferma la donna, «mi hanno sequestrato e desaparecido (“fatto sparire”) per diverse ore, la mia famiglia non sapeva dove fossi, solo dopo mi hanno rilasciato. Ci voglio togliere il nostro territorio, per questo ci reprimono e ci denunciano».

Alla persecuzione e al genocidio si comincia a rispondere costruendo solidarietà tra le lotte, nuove alleanze, nuove forme di organizzazione intersezionali e molteplici, capaci di relazionarsi con queste pratiche concrete e specifiche che non possiamo relegare ad una idea culturalista e folklorista di ancestralità, ma che piuttosto mostrano una grande capacità di reiventare il mondo a partire dalla memoria dei popoli originari. Esperienze che mostrano l’eterogeneità delle forme di resistenza all’oppressione capitalista a partire da pratiche, lotte e forme di organizzazione che aprono spazi di immaginazione e di connessione con le lotte femministe, quelle delle economie popolari e dei molteplici modi di vita che ridefiscono la pratica anticapitalista.

 

Tutte le foto sono tratte da Revista Anfibia. (tranne la seconda e l’ultima, a cura dell’autore).