MONDO

La resistenza dei mapuche in difesa della vita e del territorio

Genealogia e attualità di una lotta indigena che riguarda tutto il modello di sviluppo estrattivista in America Latina

Lo smisurato aumento della violenza statale e parastatale che combina elementi coloniali, razzisti e patriarcali in America Latina si inscrive in una offensiva che compone criminalizzazione mediatico-politica e molteplici violenze contro le popolazioni che resistono allo spossessamento neoliberale nei territori ancestrali, urbani e rurali. La denuncia degli interessi di Benetton e la storia di un lavoratore dell’impresa desaparecido per aver richiesto aumenti salariali.

Abbiamo incontrato a Buenos Aires le portavoci mapuche Moira Millán de Puelmapu (Argentina) e Ingrid Conejeros de Wulumapu (Chile) impegnate in un seminario all’università e nel lancio della manifestazione transnazionale del popolo mapuche che si terrà il prossimo 9 di dicembre in Cile e in Argentina. Intanto aumenta la tensione nel paese dopo che pochi giorni fa le forze speciali hanno ucciso con un colpo di arma da fuoco il giovane Rafel Nahuel a Villa Mascardi durante una rappresaglia nelle terre recuperate dalle comunità mapuche.

Ingrid Conejeros e Moira Millán

Territori, lotte e violenza neoliberale

Da diversi anni i processi di resistenza popolare e indigena in difesa della terra sono diventati uno spazio strategico delle lotte anticapitaliste in tutta l’America Latina, a fronte dell’espansione delle frontiere dello sfruttamento dell’ambiente, delle mega miniere, dell’agrobusiness e delle molteplici forme di saccheggio finanziario dei territori e della vita stessa. Da tale punto di vista, emergono tratti comuni di queste lotte con i movimenti urbani, le lotte femministe e quelle delle economie popolari in relazione alla capacità di immaginare e praticare modi di vita differenti e alla sfida di tessere nuove alleanze per fermare l’offensiva neoliberale, sfidare l’invisibilizzazione e resistere alle nuove ondate di violenza dispiegate sui corpi-territori. Come afferma Veronica Gago, infatti, queste lotte contro la privatizzazione di spazi e risorse connettono “il corpo e il territorio come corpo-territorio: per questo ci permettono di comprendere la concatenazione tra violenze contro i corpi femminizzati e contro i territori che sostengono altre forme di vita, altre autonomie”.

Effettivamente assistiamo a un dispiegamento di violenze estremamente intense che si iscrivono in quello che l’antropologa Rita Segato ha chiamato “pedagogia della crudeltà”: si moltiplicano nei territori urbani e rurali il femminicidio, le desapariciones, le torture e gli attacchi paramilitari che costituiscono scene di ordinaria quotidianità di questa guerra che articola violenze sui corpi e sui territori per sottomettere alla logica neoliberale chi resiste all’imposizione del comando e dell’obbedienza al capitale. Nell’ambito di una crescente “opacità strategica del potere”, secondo la definizione di Raquel Gutiérrez Aguilar, i territori diventano scenario di violenze in cui agiscono agenti statali e parastatali, paramilitari e narcotrafficanti segnando la vita quotidiana di moltissimi abitanti poveri e impoveriti in America Latina. Si tratta di un insieme di violenze che punta a scomporre le resistenze dispiegate da eterogenee trame di soggettività, pratiche, conflitti, processi sociali e modi di vita comunitaria che contendono la ricchezza socialmente prodotta mettendo in crisi l’autorità e l’impunità delle imprese multinazionali, degli Stati e dei suoi corpi polizieschi, militari e (narco)paramilitari.

Questi processi di lotta, che Raquel Gutiérrez Aguilar definisce comunitari-popolari, mostrano una grande potenza di trasformazione e una significativa capacità di render sfocati i confini tra politico e sociale, economico e culturale, urbano e rurale, mettendo in tensione le gerarchie di genere, razza e classe a partire da nuove forme di organizzazione sociale e in un continuo conflitto, ambivalente, articolato e complesso con la logica di accumulazione del capitale. Per questi motivi la lotta degli indigeni nella crisi si configura come parte integrante e per nulla marginale di un orizzonte di trasformazione anticapitalista dell’esistente, proprio per la potente capacità di creare progetti di vita collettiva, di modi altri di costruire relazioni con la terra e la natura, di comunalità, reciprocità e interrelazione che mettono in tensione le logiche di sfruttamento, competizione, consumo e individualismo. Ben lungi dall’essenzializzare o romanticizzare queste lotte, ci preme segnalarne tanto gli aspetti comuni con gli altri processi di conflitto sociale quanto le sue specificità, la potenza decolonizzatrice, la radicalità, la capacità di tessere mondi altri e il contributo a disegnare una mappa delle resistenze al capitalismo contemporaneo a partire dai corpi razzializzati di uomini, bambini e soprattutto donne, della loro capacità creatrice di socialità e modi di vita nella crisi.

Il recupero delle terre ancestrali mapuche e le rivendicazioni dei popili indigeni, così come le eterogenee lotte delle popolazioni afro, delle donne, dei migranti, dei lavoratori e delle lavoratrici delle economie popolari, costituiscono spazi di nuove strategie di resistenza collettiva (combinate con saperi e pratiche culturali ancestrali), che si oppongono ad un progetto di società basato nella sottomissione del territorio e della vita alle logiche di acumulazione del capitale delle grandi imprese.

Risulta fondamentale situare queste nuove resistenze indigene in tale contesto, in quanto articolazioni di pratiche, immaginari e lotte materiali di fronte all’avanzata neoliberale al saccheggio del territorio e dei beni comuni. Negli ultimi mesi, specialmente in Argentina, stiamo assistendo ad un aumento smisurato della violenza coloniale, statale e parastatale contro le comunità mapuche nell’ambito di una intensificazione di quel modello che al tempo stesso, come afferma Darío Aranda, si è andato configurando negli ultimi decenni come “politica di Stato che accomuna i differenti governi: violare i diritti indigeni a beneficio delle imprese petrolifere, dell’agro business e delle miniere”. Una trama di resistenze a un modello di accumulazione che combina finanza, estrattivismo e militarizzazione dei territori, rendita e speculazione immobiliaria che in Patagonia è frequentemente associata al turismo, attività che garantisce una intensa estrazione di valore e accumulazione di capitali.

Cronaca di un genocidio (annunciato)

È in atto una campagna, portata avanti tanto dallo Stato cileno che da quello argentino, di criminalizzazione, “caccia” e deterritorializzazione del popolo mapuche. In Cile è aumentata significativamente la quantità di prigionieri politici mapuche, in carcere grazie alla Legge Antiterrorismo che risale alla dittatura e permette che molti di loro restino a lungo in carcere senza alcuna condanna. Ingrid Conejeros, portavoce della Machi Francisca Linconao, ci ha raccontato che a Temuco esiste un carcere per soli uomini mapuche. Lo scenario politico attuale, definito dalla continuità del colonialismo interno e del genocidio, si compone con nuovi modi di territorializzazione della finanza: questi tre assi centrali ci permettono di comprendere sia la genealogia dell’oppressione e della violenza statale contro i settori popolari e particolarmente dei popoli indigeni, quanto l’importanza strategica di queste lotte per tutti i movimenti anticapitalisti. Dalla fine dell’Ottocento l’espansione verso sud dello Stato argentino è avvenuta attraverso una conquista ed appropriazione dei territori indigeni dal sud della provincia di Buenos Aires fino alla Terra del Fuoco attraverso la violenza militare genocida della Campagna del Deserto guidata dal generale Roca. Sono passati più di cento anni e non si è fermata la resistenza di tutti quelli che, come afferma Moira Millan durante il seminario all’università di San Martin, “vivono ed esistono in queste terre da ben prima della formazione degli Stati Nazione di Cile e Argentina”. Durante gli anni Novanta, imprenditori come l’inglese Lewis e l’italiano Benetton, si sono appropriati di migliaia e migliaia di ettari di territorio indigeno che oggi è conteso dalle comunità.

Il 10 gennaio del 2017, la Gendarmeria ha effettuato un’operazione repressiva nel Lof Cushamen finita con un furto di greggi, case distrutte, donne e bambine picchiate, tre uomini arrestati. Ivana Huenelaf e altri compagni che sono accorsi in aiuto di questa comunità hanno subito persecuzioni da parte della polizia e sono stati seguiti per giorni da macchine senza targa. Ivana ricorda: “ci torturavano, ci hanno detto che era finalmente la stagione della caccia, che ci avrebbero ammazzati tutti… ci hanno incappucciati e hanno continuato a torturarci…” Il discorso della caccia al mapuche, che ricorda la Campagna del Deserto che si è conclusa con la distruzione di centinaia di villaggi indigeni, torna in azione. Durante tutto l’anno, diverse comunità mapuche sono state perquisite con queste stesse modalità di azione poliziesco-militare che ci permenttono di comprendere bene lo scenario e le forme della violenza che hanno portato alla desaparición e alla morte di Santiago Maldonado durante un operativo della Gendarmeria nel Lof Cushamen.

Anche altre comunità sono state perquisite nel mese di settembre, come quella di Vuelta del Río, dove sono state incendiate le case dei comuneros che avevano denunciato le violenze subite e si erano mobilitati per reclamare la sostituzione del giudice incaricato delle indagini sul Santiago Maldonado. La weychafe Moira Millán, guardiana, protettrice e guerriera del popolo mapuche, che ha accompagnato il reclamo della comunità Vuelta del Rio, ha negoziato con il consenso della comunità di impedire l’entrata di poliziotti armati nel loro territorio: “con le armi no”, ha detto, prendendosi l’incarico di perquisire i poliziotti per assicurarsi che nessuno entrasse armato nella zona abitata dalla comunità. Una decisione comune a molti altri territori indigeni che assumono questa come modalità per proteggersi dalle violenze, dato che le forze di polizia non costituiscono alcune fonte di sicurezza, soprattutto se armate. Pochi giorni dopo, Moira Millan ha ricevuto violente minacce di morte per telefono e a casa.

Il 23 novembre è stata perquisita e sgomberata la Lof Lafken Winkul Mapu a Villa Mascardi, trentacinque chilometri da Bariloche, un territorio in via di recupero. Il giorno successivo allo sgombero si sarebbe dovuto tenere un tavolo di negoziazione tra la comunità e il governo locale. Interessi turistici e il prossimo meeting preparatorio del G20 che si terrà in Patagonia sono le ragioni che motivano l’operazione militare contro la comunità. Inoltre, proprio in questo Lof, era prevista la celebrazione e l’investitura di una machi, una saggia autorità spirituale indigena: si trattava di un fatto storico dato che a seguito dell’avanzata genocida sono rimaste ben poche le machi nel Puelmapu, come i mapuche chiamano la parte argentina del loro territorio situata al di qua delle Ande. Quando i poliziotti hanno sentito la giovane machi parlare in mapuzungun, la lingua mapuche, le hanno detto “Ti piace la terra? Mangiala” costringendo l’adolescente a ingoiare terra e inginocchiarsi di fronte all’autorità, per poi infine picchiarla. Le donne che sono state violentemente cacciate dalle proprie case, ammanettate e arrestate con i loro figli e le loro figlie al seguito, hanno denunciato che nell’operativo erano stai impiegati diverse centinaia di poliziotti. Ancora una volta, colpiscono le donne che difendono il territorio e la vita.

Il 25 novembre, due giorni dopo, mentre nella città 25 de Mayo della provincia di Buenos Aires migliaia di persone accompagnavano la famiglia ai funerali di Santiago Maldonado, ancora a Villa Mascardi i corpi speciali aprivano il fuoco contro i mapuche colpendo alle spalle ed uccidendo il giovane Rafael Nahuel, lavoratore dell’economia popolare di soli 22 anni. Una coincidenza paradigmatica che dimostra il livello di crudeltà della violenza che colpisce oggi gli indigeni e chi esprime solidarietà con le loro lotte, come Santiago e come lo stesso Rafael, giovane mapuche che abitava nei quartieri popolari di Bariloche e che per solidarietà stava sostenendo la lotta della comunità Lafken Winkul Mapu dove si trovavano alcuni suoi familiari. Sono tre le persone della comunità colpite da armi da fuoco (una giovane donna e un altro uomo) mentre i due testimoni dell’assassinio del giovane Rafita, come lo chiamavano gli amici, Lautaro González y Fausto Jones Huala (fratello di Facundo Jones Huala) sono state poi arrestate dopo averlo soccorso e liberate solamente dopo uno sciopero della fame diversi giorni dopo.

Senza dubbio, questa campagna del terrore degli Stati di Cile e Argentina avanza sui territori mapuche cercando di criminalizzare di volta in volta più duramente le sue popolazioni, come parte di una campagna razzista che ha l’obiettivo di distruggere culturalmente il popolo mapuche, perché in questo caso la difesa del territorio coincide con la difesa di un modo di vita e della sua dimensione spirituale. Perciò si compongono differenti strategie, l’invasione statale e repressiva dei territori non è separata dalla ridicolizzazione e criminalizzazione del popolo mapuche, giustificando la violenza e, come diversi autori hanno sottolineato, cercando di costruire un nemico interno estraneo ai progetti di Stato nazione cileno e argentino, laddove il suo attuale modello di democrazia non è compatibile con i modi di vivere e abitare il mondo che le comunità mapuche propongono. Il razzismo non è solamente prodotto dai media e dalle dichiarazioni dei funzionari del governo, ma si esprime e si incanala attraverso l’odio presente in certi ambiti della società. Una avanzata razzista che agisce in connessione con gli interessi corporativi delle grandi multinazionali, dei latifondisti stranieri e della brama di un controllo disumano delle risorse naturali.

Ivana Huenelaf con Mirta Lavalle

Le parole di Ingrid Conejeros werken de la Machi Francisca Linconao e Moira Millán weychafe della comunità Pillán Mahuiza

Lo scorso 14 novembre all’Universidad Nacional de San Martín diversi studenti, ricercatori e docenti abbiamo potuto incontrare e ascoltare le parole di due donne mapuche arrivate dai due lati della Cordigliera andina (Puelmapu y Wulumapu) di cui difficilmente potremo dimenticare la determinazione, la chiarezza e la forza espressa dai loro occhi, dalle parole e dai gesti. Moira Millán, weychafe mapuche dllla comunità Pillán Mahuiza de Chubut e Ingrid Conejeros werken (portavoce) della Machi Linconao, hanno participato al Colloquio Sud Sud assieme a diversi antropologi e a una sempre commovente Nora Cortiñas della Madres de Plaza de Mayo Línea Fundadora. Abbiamo potuto ascoltare le loro testimonianze, le storie di vita e di lotta delle comunità criminalizzate e violentemente attaccate dagli Stati, dai media e da parte della società.

Moira, a partire da una conversazione che ha avuto un paio di anni fa con un saggio kinche, ha parlato della possibilità di un incontro tra culture diverse dopo secoli di discordia tra i popoli, della necessità che il popolo argentino possa comprendere e sostenere le lotte mapuche. Con queste parole spiega che cosa difendono le comunità quando resistono nei territori contro l’intervento dello Stato: “il popolo mapuche sta affrontando la sfida di poter ripensare la nostra civiltà e la sua crisi, quella che subiamo non è solo un attacco ai nostri diritti ma alla possibilità stessa che rimanga viva la speranza di un mondo diverso. Questo è quello che sta accandendo nei nostri territori”. Moira afferma che recuperare un territorio comporta anche un rafforzamento della dimensione spirituale che compone il mondo mapuche, una questione che emerge chiaramente durante lo sgombero del Lof Lafken Winkul dove oltre alla repressione della comunità si è messo in campo un dispositivo di umiliazione della machi che stava per essere investita del suo ruolo. Non è un caso che l’azione colonizzatrice e patriarcale dello Stato si concentri sulla machi e sulla forza spirituale femminile che rappresenta.

Ha preso poi la parola Ingrid Conejeros spiegando che a differenza dell’Argentina in Cile non è in atto una negazione dell’esistenza dei mapuche. Quel che è accaduto con Santiago Maldonado, afferma, è che molte persone si sono rese contro per la prima volta che esistono i mapuche in Argentina, mentre in Cile nonostante si continui a negare le loro radici “l’opinione pubblica ci riconosce, anche se i media ci descrivono come violenti, terroristi, tutti sanno che esistiamo qui da ben prima dello Stato, non viene negata la storia”. Quel che hanno in comune i due Stati sono però le risorse destinate alla militarizzazione dei territori nell’ambito di una “guerra diseguale contro un popolo che non ha armi, una guerra che punta allo sterminio, perché non vogliono stabilirsi nei nostri territori, dato che già li occupano, ma piuttosto sterminarci”. Ingrid ci racconta di tre casi di adolescenti e giovani assassinati dallo Stato cileno e del caso della machi Francisca Linconao, una saggia autorità ancestrale che ha dedicato tutta la sua vita alla comunità, ingiustamente ed illegalmente arrestata per il caso di Luxinger Makcay.

Ingrid contestualizza i fatti raccontando delle lotte della machi contro uno dei più grandi latifondisti cileni per la protezione ambientale di una montagna dove lei raccoglieva le erbe medicinali, il lahuen, fondamentali per la salute della comunità dato che non fanno uso di prodotti chimici ma usano solo piante e acque montane. La machi ha denunciato il tentativo di disboscare il monte e alla fine ha vinto la causa legale grazie alla legge 169 della OIT, ma questo trionfo è diventato presto una specie di condanna e una vera e propria persecuzione per Francisca Liconao. Ingrid racconta che “da quel momento la machi era diventata pericolosa per gli interessi capitalistici nella zona di Wulunmapu essendosi scontrata con gli interessi di una famiglia potente, Alejandro Taradil era stato presidente della Confederazione degli imprenditori del settore del turismo, della gestione delle zone forestali e delle imprese idrolettriche della zona”. Così le forze di polizia hanno arrestato la machi “spogliandola dei suoi vestiti tradizionali, il fazzoletto, le trecce e i gioielli, esponendola vestita con una lunga vestaglia con i capelli sciolti ritratta come se fosse una pazza. Le hanno scattato delle foto mandandole ai media e accusandola di responsabilità nel caso di Luxinger Mackay in base alla legge antiterrorismo”.

Dopo nove mesi di carcere, la machi Francisca Linconao è stata assolta lo scorso 25 di ottobre: un’importante vittoria che alimenta la speranza di tutte le comunità indigene. Vediamo quindi come l’impunità repressiva delle forze di polizia provoca una situazione in cui alla popolazione mapuche risulta impossibile accedere ai più basilari diritti umani, perchè non solo i diritti di queste persone risultano invisibilizzati, ma di fatto vengono negati e annullati. Le strategie di queste campagne politico-militari ricordano per molti aspetti le avanzate coloniali del secolo scorso quando il furto delle greggi, l’incendio delle case e dei beni degli indigeni, la distruzione dei loro mezzi di sussistenza, la repressione, la violenza e gli stupri erano all’ordine del giorno. Come vediamo, queste pratiche avvengono ancora oggi. E se le colonizzazioni passate avevano come obiettivo distruggere la spiritualità e colpire le autorità femminili, non è un caso che questo sia avvenuto ancora una volta tanto nella comunità Lof Lafken Winkul in Argentina quanto con la persecuzione della Machi Francisca Liconao in Cile.

Verso la mobilitazione mapuche transnazionale del 9 dicembre

Le due portavoci hanno tenuto lo scorso 15 novembre una conferenza stampa a Buenos Aires partecipati da alcuni giornalisti, ricercatori ed attivisti di fronte alla statua del genocida Roca a pochi metri dalla Plaza de Mayo, un luogo simbolico scelto da Moira Millán e Ingrid Conejeros per invitare il popolo cileno, argentino e mapuche a partecipare alla prima manifestazione transfrontaliera che si terrà il prossimo 9 dicembre nell’ambito delle contro manifestazioni al vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio che si terrà in quei giorni a Buenos Aires. Dando le spalle alla statua del genocida Roca, poco dopo mezzogiorno Moira Millán ha affermato che “in meno di due secoli di dominio lo Stato argentino ha commesso un genocidio, ha saccheggiato e inquinato i territori. Per questo noi non abbiamo fiducia, non crediamo e non vogliamo l’oppressione schiavista dello Stato argentino”. Moira ha poi invitato alla comprensione e al sostegno dei mapuche: “noi non siamo terroristi, non andiamo contro gli interessi di nessun altro popolo, noi stiamo con la vita. Questo governo sta creando un montaggio di falsità e mezogne”, ha continuato Moira denunciando la volontà del governo Macri di creare un nemico interno funzionale ai propri interessi sulle terre indigene.

A una domanda su Benertton, Moira ha rivelato che “l’imprenditore multimilionario italiano ha avuto altri casi di desapariciòn nei suoi territori, Santiago Maldonado non è stato il primo. Eduardo Cañulef, lavoratrore rurale della Estancia Leleque, proprietà di Benetton, è stato fatto sparire nel 1996 e non è mai più riapparso, dopo aver richiesto miglioramenti salariali. Benetton ha sempre avuto il pieno sostegno e la complicità del governo di turno per poter fare i suoi affari, che non riguardano solamente le sterminate greggi di pecore nelle nostre terre, ma anche interessi milionari legati alle mega miniere, mentre tra le sue tante azioni c’è anche l’Autostrada del Sole. L’avanzata di Benetton su un milione e 900mila ettari del territorio mapuche significa la devastazione di un’area enorme che che sarà riempita di dinamite per l’estrazione dell’oro. Capite bene che per permettere a Benetton di poter essere padrone di tutti questi beni e risorse c’è un popolo che soffre sulla propia carne il dolore della spoliazione dei propri beni e territori e questo popolo siamo noi, i mapuche”. Con queste parole Moira Millán ha concluso la conferenza stampa: “Marichiweu, per ognuno che cade, dieci nuovi si alzeranno nella lotta, possono ucciderci a migliaia ma la battaglia della nazione mapuche non finirà mai. Siamo la speranza dell’umanità. Ci solleviamo nel pieno di questa crisi di civiltà e diciamo al mondo che è possibile un buen vivir come diritto di tutti, che è possibile creare società dove possiamo rispettarci l’un l’altro non solamente tra popoli diversi ma anche con la natura. Non c’è moneta, non c’è dollaro o altro vile metallo che possa comprare lo spirito della Terra”.

Il 9 dicembre sarà un giorno in più di una resistenza che continua da oltre cento anni e che oggi tesse nuove alleanze politiche e umane, solidali e anticapitaliste per costruire, come dicevano gli zapatisti, un mondo dove possano estitere molti mondi.

In copertina: Fotografía Colectiva Quilomba para Marcha de Mujeres Originarias por el Buen Vivir.