POTERI

Workfare “integrato” per migranti e italiani

Tra resa dei conti europea e crisi trumpiana della globalizzazione, il renzismo dopo Renzi non promette nulla di buono .
Per una logica perversa, imputabile alla debolezza di un’alternativa politica, l’emarginazione di Renzi e la prosecuzione meno urlata della sua politica nelle difficili condizioni di una resa dei conti europea e della crisi trumpiana della globalizzazione si compie con una serie di atti negativi. Spieghiamoci.

Emarginare Renzi vuol dire oggi allontanare le elezioni e tenere a galla il governo fotocopia del conte Paolo, fotocopia che però comincia a discostarsi parecchio dall’originale, per la scarsa incidenza di figure-simbolo (Boschi e Lotti), l’autonomizzazione di altre (Franceschini, Delrio, Orlando) e l’ascesa del mai-renziano Minniti.

Le mosse decisive di questa proroga al 2018 sono state lo svuotamento dei referendum Cgil, da completarsi con qualche intervento sui voucher, e la forte iniziativa di Minniti sui migranti. Un bell’esempio di populismo di centro su modello renziano, ma volto anche contro Renzi, perché non fatto dall’ex-decisore massimo e perché volto a disinnescare il populismo di Salvini, l’unico che converge sulle elezioni anticipate.

Lo stesso disastroso bilancio finanziario di Renzi, aggravato dalla sua polemica anti-europeista, diventa un argomento contro le elezioni e dunque per il prolungamento dell’esilio a Pontassieve. Come azzardarsi al voto in presenza di una manovra, imposta da Bruxelles, di 3 miliardi di euro e rotti , cioè con Iva al 25% e tagli a spesa pubblica e mance? Tira un vento greco. Per non parlare dell’altra eredità letale del Giglio Magico, lo sfacelo di Mps e banche venete, che costano (per ora) oltre 100 € a testa agli italiani? Perfino Renzi comincia a nutrire qualche dubbio su una campagna elettorale a breve sotto tali nefasti auspici e con una diffusa propensione verso l’adozione del proporzionale.

Tuttavia la mossa più eccitante con cui il governo Gentiloni ha “mostrato le palle” è stata l’anticipazione del disegno di legge Minniti sui migranti, accompagnata da un improbabile tour promozionale del suddetto in Africa, nel corso del quale è riuscito a inguaiare il già compromesso governo libico di Serraj, riaprendo l’ambasciata di Tripoli, scatenando un colpetto di stato abortito e soprattutto rompendo fragorosamente con il governo antagonista di Tobruk, spalleggiato da egiziani e russi, che ha accusato l’Italia di una “seconda occupazione”. Il penoso ripristino del vecchio trattato berlusconiano con Gheddafi (alcuni fantomatici miliardi in cambio di campi di sterminio per trattenere i profughi in Libia) era, oltre che obbrobrioso, del tutto fasullo, data la notoria mancanza di controllo delle autorità locali sui confini meridionali e sulle coste.

Il piano Minniti consiste di tre parti, una peggio dell’altra. Alla sua base sta la divisione arbitraria dei migranti fra profughi di guerra e profughi per fame, dissesto ambientale e persecuzioni – come se l’art. 10 della Costituzione non recitasse che «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica» e la libertà dal bisogno non facesse parte del pacchetto dei diritti universali almeno dal discorso di Roosevelt del 6 gennaio 1941. Il cuore del piano è dunque il “doppio binario” fra regolari e irregolari, la separazione funzionale tra asilanti legittimati per origine e utilità e “clandestini” da gettare in pasto alle paure populiste convalidate dall’alto proprio da misure come queste. Gettati in pasto – specifichiamo – in minima percentuale ai respingimenti simbolici, raddoppiati, triplicati ma sempre difficili e costosi, in massima parte al mercato nero delle braccia e al reclutamento da parte della criminalità organizzata. Caporali e camorra ringraziano sentitamente.

Vediamo le tre parti.

1) Respingimenti tramite identificazione forzosa e accordi bilaterali con i riluttanti stati di provenienza. Per ora c’è un accordo precario con la Tunisia e il “liberale” Egitto, mentre di recente si sono aggiunti il Mali e il Sudan di Bashir, criminale internazionale ufficiale. La trattativa con la Libia naviga nel surreale. In via di principio dovremmo rispedire gli asilanti nel “pacifico” Afghanistan o nello Yemen o in paesi africani travagliati da conflitti e massacri: solo che forse non ne abbiamo la possibilità tecnica. Così come restano velleitarie le proteste contro il Trattato di Dublino e le invocazioni all’Europa per la redistribuzione dei migranti arrivati per il corridoio mediterraneo. Quelli del corridoio balcanico che muoiano pure sotto la neve.

2) Chi non ha i requisiti ed è in attesa di espulsione deve essere internato nei Cie, uno per regione, con un massimo di 100 “ospiti”, vigilati all’esterno da militari e all’interno da poliziotti incaricati della cernita, ben separati dalla popolazione e in prossimità degli aeroporti per il rimpatrio (versione moderna dei lager attestati lungo le linee ferroviarie ai tempi di Eichmann). Per stare tranquilli viene eliminato un grado d’appello contro il provvedimento che nega l’asilo, per «snellire le procedure, evitando inutili lungaggini che impediscono di far tornare nel proprio Paese chi non ha titolo per rimanere». Quando è in gioco la nuda vita, mica si possono adottare le procedure garantiste in uso per una controversia condominiale sul lastrico solare o per un risarcimento infortuni. In ogni caso tali misure sono specchietti per le allodole, buone per la marmaglia razzista, che è pure stupida: infatti il grosso dei “clandestini” è destinato ad alimentare il lavoro nero o a filtrare oltre le Alpi, chiudendo un occhio.

3) Dopo la breve panoramica sull’inferno, veniamo al purgatorio dei “regolari” o meglio dei “regolarizzabili” sub condicione. Un po’ di profughi di guerra indiscutibili ci saranno pure, malgrado le maglie strette. Maledetta Siria, maledetta Eritrea, maledetto Onu. Ci sono pure i maschioni falsi gay, Lgbt in autotutela e minorenni fasulli, che ve lo dico a fare!

Vediamo la nuova procedura secondo le agenzie di stampa: «Due mesi dopo la presentazione della richiesta di asilo, ai migranti, distribuiti negli Sprar, viene rilasciato un documento in cui vengono indicati come “sedicenti” rispetto alle generalità che hanno fornito al momento dell’arrivo. Basterà quel foglio per inserirli nel circuito dei lavori socialmente utili che diventerà uno dei requisiti privilegiati per ottenere lo status di rifugiato. Proprio come il corso di italiano obbligatorio per chi vuole ottenere la cittadinanza. Si faranno convenzioni anche con le aziende per stage che potranno essere frequentati da chi ha diplomi o specializzazioni, nell’ottica di inserire gli stranieri nel sistema di accoglienza avendo la loro disponibilità a volersi davvero integrare».

Dunque i canali di riconoscimento sono due: a) che proprio siano dei maledetti rifugiati con cicatrici di guerra e mandati di cattura, b) che siano “sedicenti” ma volenterosi a impegnarsi in Lsu e stage, dimostrando con lo studio e il lavoro di volersi veramente integrare. Per lo studio, ok, ma cosa si intendete per “lavoro”? Cioè quale grado di sfruttamento è loro richiesto per mettersi alla pari con gli altri cittadini italiani sfruttati?

Sia Minniti che il prefetto Morcone (già dall’agosto) hanno specificato che l’accesso al lavoro socialmente utile è obbligatorio e non volontario. Resta uno “scoglio”, come scrivono le agenzie, la retribuzione. Eh, già. Nella sua anticipazione agostana, il prefetto Morcone, capo del dipartimento immigrazione del Ministero degli Interni, parlava di «una retribuzione ridotta: la decurtazione servirebbe per recuperare i costi dell’accoglienza», cioè a ripagare le cooperative di comodo. A chi mostra buona volontà e capacità d’inserirsi nel nostro contesto sociale – aggiungeva Morcone – potrebbe darsi qualcosa di più dell’accoglienza: «un permesso umanitario, come quello che attualmente viene dato per motivi di vulnerabilità ai bambini e ai malati. Dopo un anno la verifica servirebbe da incentivo a comportamenti virtuosi». In altre parole: lavorare aggratis o comunque a sottosalario in cambio di una patente di profugo anche se vieni da località tranquille come Herat o Mosul. La stessa logica che presiede all’impiego gratuito in servizi comunitari per scontare una sanzione amministrativa (tipo la guida in stato d’ebbrezza) o per compensare tasse comunali non pagate, come da recenti decretazioni nazionali e locali. Se poi si vanno vedere i settori di questi Lsu, Minniti e Morcone elencano «l’agricoltura, le costruzioni, l’assistenza agli anziani», cioè i classici lavori in chiaro e in nero per migranti. Solo che dovrebbero essere prestati obbligatoriamente e sotto i prezzi di mercato – forse per ripagare i costi di salvataggio in mare, detenzione in orride istituzioni e registrazione coatta…

L’esistenza di posti di volontariato significa che c’è una determinata richiesta ma semplicemente si “preferisce” non retribuirle. Si introduce inoltre un esplicito elemento di condizionalità, analogo, che so, all’assegno di ricollocazione per disoccupati o a future politiche attive di lavoro. In questi casi il workfare ricatta l’occupazione, per i migranti il rimpatrio. Il meccanismo però è lo stesso e “integra” precari nazionali e migranti in una comune condizione di “vulnerabilità taglieggiata”, dove accoglienza e assistenza sono intercambiabili e fenomeni epocali (la disoccupazione giovanile o le migrazioni) sono ridotte alla dimensione individuale della buona volontà e del suo rovescio in caso di fallimento: la colpevolizzazione.

Il “sedicente” rifugiato a punti è l’estrema incarnazione dell’imprenditore di se stesso.

NON IN MIO NOME

LA VITA VALE MOLTO DI PIÙ DI UNA FRONTIERA

La rete “Roma accoglie” nata lo scorso anno a Roma, che tiene dentro diverse realtà che da anni si attivano in favore dei diritti dei migranti partendo dal tentativo dell’elaborazione di un’altra idea di accoglienza, lancia un presidio al Pantheon (Piazza della Rotonda) in occasione della conferenza stampa del Ministro Minniti sul nuovo piano immigrazione, il 19 gennaio 2017 alle ore 15.