ROMA

Perché Tor Pignattara non può essere Molenbeek

Un’intervista sul quartiere di Roma, contro allarmismi e pregiudizi

Il Corriere della sera ha sparato la notizia in cronaca di Roma: un «anglo-pakistano» è stato arrestato con un documento falso nel quartiere multietnico di Tor Pignattara ed è subito scattata l’associazione del «terrorismo».
Torpignabeek, Roma Est

La persona giusta con cui parlarne è l’antropologo Andrea Priori, che studia da anni la collettività bangladese a Roma. Sono andato a trovarlo per capire quanto ci sia di vero nel rischio fondamentalista individuato dai mass media all’indomani delle stragi di Bruxelles. Per capire se davvero un quartiere come Tor Pignattatara, o come altre periferie nelle nostre città, con una forte presenza di migranti, soprattutto bangladesi, possa diventare una «Molenbeek italiana». «L’assioma è che i migranti abbiano sempre qualcosa da nascondere – dice Priori – Con questo preconcetto, le reti sociali costruite da loro non possono che esprimere forme di ostilità nei confronti della società italiana. Dunque, a Tor Pignattara siccome ci sono tanti stranieri ci deve essere anche il pericolo».

E invece? Che relazione c’è tra religione e terrorismo nelle comunità che vivono il quartiere?

L’Islam whaabita si è interessato molto poco a Tor Pignattara, che è caratterizzata dalla presenza pakistana e bangladese. L’approccio pakistano contiene degli elementi di ortodossia, anche se nella maggior parte dei casi siamo di fronte ad una forma di religiosità popolare vissuta in maniera semplice. L’uso “politico” dell’Islam pakistano ha relazioni con gli afghani e i sauditi. L’Islam politico bangladese, invece, ha una storia più particolare. Il Bangladesh è stato fino alla Seconda guerra mondiale una colonia inglese. Nel 1947 prende il nome di Pakistan Orientale e si viene a trovare in una situazione di fatto sovrapponibile a quella di una colonia. È una posizione paradossale nella quale vige un regime di sudditanza nei confronti del Pakistan. Prima di questa dominazione, la società bangladese era laica, pagana, tollerante. La convivenza religiosa era molto serena e non esisteva un uso politico della religione. Si può quasi dire che la religione apparteneva alla sfera personale, possiamo dire che non aveva nelle interazioni sociali l’importanza che avrà nel periodo pakistano. È in questa fase che si verifica una sorta di tentativo teocratico. Il Pakistan nasce con una vocazione teocratica. Dunque in Bangladesh si trasferisce una élite pakistana che si allea con una élite bangladese che si converte ad un Islam un po’ più ortodosso. L’Islam bangladese, al contrario, è sempre stato sincretico. L’Islam bangladese ha avuto molti scambi con le altre religioni locali, innanzitutto l’induismo. Non è un Islam ortodosso, è molto spurio, sia nelle pratiche che nella sua ideologia. In questo senso è quanto di più lontano possa esserci dall’integralismo che arma i terroristi e sviluppa un rapporto conflittuale con l’ortodossia dei pakistani, che è a sua volta espressione solo di una parte di quella società.

Che rapporto si crea tra religione e politica con l’indipendenza del Bangladesh?

Nel 1970-’71 la società locale decide di combattere per l’indipendenza, di ribellarsi al gioco pakistano. L’esercito pakistano in alleanza coi partiti della destra islamica bangladese, emanazione di quelli pakistani, danno vita ad una vera e propria caccia all’uomo, cercando di eliminare l’intellighenzia della possibile indipendenza bangladese. Pare siano state uccise due milioni di persone. Benché il numero delle vittime sia dibattuto, alcuni storici parlano di un vero e proprio genocidio. Gli indipendentisti vincono però la guerra, anche con l’aiuto dell’esercito indiano e con il sostengo diplomatico di paesi come la Gran Bretagna. Ciò determina un grosso trauma. In un paese già laico di per sé assistiamo ad un ulteriore rigetto dell’ortodossia religiosa e di quell’ortodossia punjabi che oggi si esprime nell’integralismo whaabita. Addirittura, con la Costituzione della neonata Repubblica popolare del Bangladesh, che era abbastanza socialisteggiante, viene sancito il divieto di formare partiti su base religiosa. Questo divieto regge per pochi anni. La legalizzazione dei partiti islamici avviene nel 1975, subito dopo il primo colpo di stato. Negli anni Novanta si registrano anche alcuni attentati di radice islamica e la repressione del governo tramite i ferocissimi Rapid Action Battalion è durissima e, bisogna dire, molto efficace. In barba ai diritti umani, il problema viene risolto alla radice senza troppi scrupoli da parte di una società ancora fortemente laica e disponibile a riconoscere mano libera al governo, anche in virtù di una concezione autoritaria del potere politico.

Dunque il tentativo di portare l’ortodossia in Bangladesh è fallito?

L’ortodossia islamica nella collettività bangladese è sicuramente marginale. Il posto in cui questa componente ha avuto un qualche rilievo è Londra, da dove arrivano soprattutto bangladesi della regione del Sylhet. Anche questo è un caso anomalo, tuttavia. Qui la religione islamica è stata portata dai monaci sufi, dunque parliamo di una tendenza lontanissima da quelle ortodosse. I bangladesi dunque incontrano l’ortodossia islamica a Londra e da lì magari fondano madrasse in patria, magari coi finanziamenti che vengono dalle centrali inglesi. Ma anche qui il fenomeno è recente: fino agli anni Ottanta i bangladesi esprimevano associazioni laiche, alcune di tendenza socialista che avevano rapporti sia con il Labour Party che con la sinistra più radicale. Questa relativa diffusione dell’Islam, anzi del New Islam, non è un fenomeno grassroots, non si sviluppa dal basso. Paradossalmente, questa diffusione in passato è stata anche favorita dalle amministrazioni locali. Nell’idea del multiculturalismo inglese, infatti, ogni nazionalità, ogni “etnia” doveva avere una sorta di piramide comunitaria, finanziata dalle istituzioni. Ad un certo punto le amministrazioni locali decisero che le “comunità” più rappresentative erano quelle islamiche, perché si erano munite di una struttura più coerente, più efficiente anche, ci sono meno litigi. Nelle organizzazioni laiche, al contrario, c’era più dialettica politica e anche più disordine. Dunque, in Gran Bretagna l’Islam bangladese è da una parte sovrarappresentato, dall’altra è stato in passato favorito dai finanziamenti pubblici. Ma la gran parte dei bangladesi, anche a Londra, sono laici. A Roma ancora di più.

La comunità bangladese non è attraversata da differenze?

Certo che sì. Dunque, a Roma sono presenti anche organizzazioni bangladesi della destra islamica. Tutti i partiti bangladesi hanno una rappresentanza a Roma. Il partito Jamaat-e-Islami è l’avatar politico delle tendenze del New Islam bangladese. Alcune moschee sono più vicine a questo partito. Ma da qui al terrorismo ci sono ancora molti gradi di separazione. Stiamo parlando di una formazione che in patria orbita nell’area di governo, come alleato del centrodestra. Ma fino a prova contraria avere una posizione religiosa ortodossa non configura un reato. Persino gli Usa definiscono quei partiti religiosi come “moderati”.Se qualcuno poi sa qualcosa, se ci sono elementi inediti di relazione con l’Isis, li tirino fuori. Altrimenti possiamo escludere qualsiasi contiguità col terrorismo. Per quanto mi riguarda, assegnare alla religione – non parlo solo di integralismo, ma di religione tout court – un ruolo centrale nella collettività bangladese significa affermare il falso. Ci sono famiglie in cui le strategie di distinzione passano per il velo o per la frequentazione della moschea. Ma si tratta di una minoranza. La maggior parte delle persone porta avanti un’idea di mutamento attraverso l’emigrazione. A voler essere eurocentrici diremmo che si stanno occidentalizzando, ma in realtà sviluppano la matrice laica della cultura bangladese di cui parlavo prima. La cultura bangladese è come una corda che intreccia molti tessuti, molte fibre. La maggior parte di queste trame è di natura strettamente laica. I leader delle associazioni bangladesi spesso partecipano controvoglia alle funzioni religiose, hanno persino in antipatia le strutture religiose, perché hanno alle spalle esperienze di militanza nella sinistra, magari sono stati maoisti o piuttosto perché sono semplicemente laici. Ma non bisogna confondere il livello della religione popolare con quello della religione politica. Se c’è da festeggiare la fine dell’Eid si organizza una festa all’aperto, per stare insieme, mangiare, bere anche qualche birra di nascosto. Non ci sono forme di ortodossia in questi riti, cui non partecipa neanche tutta la collettività. È come per noi la Pasquetta. È come se dicessimo che la signora che ha il ritratto di Padre Pio in cucina è integralista. I bangladesi pregano in maniera sbagliata secondo i musulmani ortodossi, praticano l’Islam in maniera sbagliata, non rispettano abbastanza le regole. Praticamente tutti gli alimentari bangladesi vendono soprattutto alcolici. Una violazione enorme delle regole religiose! Eppure lo stereotipo vuole che dietro questi negozi si nasconda qualcosa, che dietro il frigo delle birre ci sia un arsenale, che chissà come riescano ad andare avanti quando è sotto gli occhi di tutti che lavorano quindici ore al giorno.

Come si rapporta questa componente dell’Islam con le altre?

Ho fatto ricerca per un periodo nella moschea di Centocelle, in via dei Frassini, dove si dice che ci siano componenti integraliste. Ho fatto ricerca accademica, non indagini poliziesche. Ma posso dire di aver trovato degli interlocutori molto attenti e disponibili al dialogo. Sono stato in Bangladesh per due volte, per lunghi periodi. Ho visto i tentativi degli islamici ortodossi di costruire consenso che si è trovato di fronte ad un quadro che non possiamo definire neppure “secolarizzato”, perché per essere secolarizzati dovrebbero avere avuto un passato teocratico che non esiste nella loro storia.

Cosa c’entra tutto ciò con Molenbeek?

Con gli attentati di Bruxelles veniamo a scoprire che nella ricca Europa in cui i giovani crescono senza nessuna prospettiva. Qui i terroristi pescano facilmente. Non siamo di fronte ad un problema di mancata integrazione, ma di esclusione sociale. Abbiamo un intero quartiere in cui le giovani generazioni vivono in un limbo perfetto. Ripeto, ci dovremmo preoccupare della marginalità sociale e non della estraneità culturale.

Dunque siamo fuori pericolo?

Se qualcuno vorrà, ci metterà i soldi, qualsiasi quartiere diventerà la “nuova Molenbeek”. È soltanto questione di logistica. È come quando ci fu il salto di qualità nella strategia della tensione. Bastano i soldi per fare un passaggio di livello. Se poi vogliamo sostenere che ci deve essere una congruità del territorio perché si sviluppino fenomeni del genere, non penserei per prima cosa al territorio di Tor Pignattara. Guarderei ai quartieri in cui è forte il disagio sociale, dove non ci sono meccanismi di reciproco controllo tra cittadini. La popolazione bangladese a Tor Pignattara non vive una situazione di emarginazione sociale. Ciò non perché si sia creata una sorta di comunità interculturale, ma grazie alle cosiddette reti etniche e ai regimi di reciproco aiuto.

Prima parlavi della situazione inglese. Parlando dell’Italia, invece, utilizzi l’espressione “multiculturalismo povero”. Ci spieghi meglio?

Il modello italiano che definirei il “cugino povero” del multiculturalismo britannico. In quel modello, come dicevo prima, si è spinto perché le varie “etnie” si dotassero di un’organizzazione comunitaria. Magari con un’organizzazione-ombrello che conteneva le altre. A partire da questo meccanismo sono stati gestiti i flussi di finanziamento verso il basso, la gestione dei flussi migratori, la politica locale. In Italia, la legge Martelli del 1990, che fu il primo tentativo di normare il fenomeno, conteneva una serie di articoli che decretavano che le varie nazionalità dovevano dotarsi di un’organizzazione comunitaria, in modo da fornire alle amministrazioni locali, il governo nazionale, gli uffici preposti al rilascio dei permessi, potessero dotarsi di referenti che facessero da garante. A differenza della Gran Bretagna, in Italia tutto ciò è avvenuto senza erogare fondi, senza sostenere un tessuto associativo. Ciò è avvenuto perché all’epoca anche i meccanismi di finanziamento dell’associazionismo autoctono erano in rodaggio. E per il razzismo istituzionale, che non contemplava che si dessero soldi agli stranieri. Questo aspetto del denaro è importante: agli stranieri si può dare tutto, ma si cerca sempre di non dare soldi. La legge Turco-Napolitano, ad esempio, sanciva per il welfare l’equiparazione tra lo straniero in regola e l’italiano. E tuttavia, ogni anno la legge finanziaria ha tagliato pezzi di questa equiparazione, togliendo gli assegni per il secondo figlio ai migranti, eliminando il sostegno ai disabili migranti e così via. Si tendeva anno dopo anno a fare in modo che ai migranti si dessero al massimo servizi ma mai soldi. Mettere soldi in mano ai migranti è ritenuto un tradimento alla lealtà patria. Visto che lo straniero non ama la nazione, dargli dei quattrini significa tradirla. Il risultato di questo retaggio è che produciamo multiculturalismo povero. Dieci anni fa cominciai a studiare Tor Pignattara, mi colpì moltissimo scoprire che le varie associazioni, le moschee, le scuole di lingua come la Bangla Academy, non erano minimamente intercettate dalle istituzioni. Quei soggetti che poi dovevano rispondere all’opinione pubblica di una presunta situazione di “degrado” del quartiere non avevano idea di cosa si muovesse nel territorio che amministravano.

È come se le reti migranti costituissero una società parallela. E questo fa sospettare chissà quali trame oscure…

Il multiculturalismo classico contiene un’idea di estraneità. Io sono autorizzato ad occupare la mia nicchia, faccio le mie cose e non me lo impedisci purché non dia fastidio agli altri. Questa idea in Italia viene portata all’ennesima potenza, perché si ignorano del tutto le “nicchie”. In Gran Bretagna il tramite sociale sono gli operatori di strada. Le amministrazioni locali spendevano soldi per fare animazione territoriale. A Roma, e in Italia, non è stato fatto niente di tutto questo. I bangladesi oscillano tra il cinismo e il qualunquismo, ricordano un po’ il “familismo amorale” di cui parlava Banfield a proposito della società meridionale, e una componente anarchica, che tende a far da sé. Sono riusciti a sviluppare, con l’indipendenza, una bella idea di Repubblica popolare e di democrazia locale ma in quarant’anni hanno subito anche diversi colpi di stato e un’alternanza politica pessima. Anche per questo, il loro rapporto con la politica e con la religione è simile a quello di noi italiani. Una o due volte all’anno vanno in moschea, soprattutto quando tornano al loro paese e devono far vedere che non si sono smarriti, stando lontani. È un modo per far vedere che si mantengono le tradizioni, nonostante tutto. Ma in molti dicono apertamente che considerano una scocciatura rispettare le tradizioni.

Altro motivo di turbamento è la condizione femminile. Qui si interroga la nostra coscienza laica.

Sì, ma non ci sono veli da strappare, come farebbe la Santanché per intenderci. Si tratta piuttosto di creare i presupposti perché le persone possano scegliere, anche di agire liberamente i propri spazi di ribellione verso la famiglia. Le figlie litigano coi genitori per tre motivi: per l’abbigliamento, per poter uscire e per tornare tardi quando si esce. Bisogna stare attenti a non fare comparazioni troppo facili, si rischia di banalizzare. Ma non possiamo dimenticare che fino a qualche anno fa capitava anche alle ragazze italiane. Quando ero più giovane mi succedeva di conoscere ragazze italiane che avevano problemi coi genitori per via del rossetto, del ritorno a casa, della minigonna. A Tor Pignattara ci sono tre associazioni di donne migranti bangladesi. Se chiedi loro del velo ti dicono che è uno strumento come un altro. Noi vogliamo liberarle, ma al tempo stesso non possiamo imporre loro cosa devono essere. Forse dovremmo ascoltarle un po’ di più, invece che insegnare a tavolino un’emancipazione che corrisponde alla nostra idea di emancipazione..

Che ruolo giocano i mass-media?

Attorno all’Islam c’è stata una mobilitazione politica che non ha pari, agita dai media e indotta da alcune formazioni politiche, come la Lega. È stato fatto un lavoro politico perché la gente fosse investita dall’idea che ci fosse un Islam che stava mettendo radici. I media erano già pronti ad accogliere una cosa del genere. Bisogna anche dire che l’Islam è una religione più militante di altre, tende a darsi delle organizzazioni. È una religione che tende alla proliferazione delle sale da preghiera, per una ragione anche strutturale. Nell’Islam non c’è una gerarchia. Uno degli elementi caratterizzanti di un governo come quello di Gheddafi in Libia, ad esempio, era proprio quello di inventare una gerarchia politico-religiosa. Ogni giorno Gheddafi e gli uffici della presidenza stilavano la predica del giorno e tutte le sale di preghiera vi si dovevano attenere. È un esempio di un tentativo di centralizzazione, violento e dall’alto, di una religione che invece prevede che ogni Imam faccia la sua predica e costruisca le sue alleanze. Questo vuol dire che invece di costruire un’unica grande moschea, come è avvenuto a partire di iniziative di governi esteri ad esempio per la moschea monumentale ai Parioli, frequentata dall’élite politica ma non vissuta dai migranti. Non esiste un’autorità centrale, il titolo di Imam è abbastanza auto-attribuito, almeno così dicono i bangladesi stessi descrivendo le loro sale da preghiera. Questa proliferazione di posti mette paura a molti, ma è frutto esattamente del contrario di quello che si teme: della mancanza di centralizzazione, non di una strategia oscura. Molte di queste sale durano un paio di anni, poi chiudono. Sono poche quelle che mantengono la loro presenza. La sala di preghiera di via Serbelloni, a Tor Pignattara, fa paura perché la gente si accalca fino a fuori per pregare. Ma dentro c’è pochissimo spazio. Quello che voglio dire è che questi posti non sono frequentati come si pensa. Il rapporto tra le sale di preghiera e il numero di migranti che vive nei territori è molto basso.