POTERI

Di crisi in crisi

Il montismo dopo Monti e la sfida costituente dei movimenti.

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Lo scenario è molto incerto, ma è utile avanzare qualche ipotesi. Incerto, perché per quanto prevedibile non si è ancora dispiegata l’offensiva dei mercati finanziari contro l’Italia e suoi Btp. C’è da attendere poche ore per capire quale sarà l’impennata dello spread, ma possiamo già esser certi di una cosa: i mercati tifano Monti e, se non Monti, la continuità delle sue politiche. Stesso desiderio, stesso tifo, quelli della BCE e del FMI. Meglio, dal World Policy Conference di Cannes, l’FMI si chiede per quale motivo l’Italia non abbia fatto ancora richiesta degli aiuti del Fondo salva-spread, sottoscrivendo quel patto sulle «nuove condizionalità» che sarebbe sufficiente a commissariare i governi italiani per i prossimi 10 anni.

Monti sa di essere l’oggetto del desiderio di molti, soprattutto di quelli che contano nel mondo, per questo di ritorno da Cannes ha rotto gli indugi, ha rassegnato le dimissione a Napolitano e si è detto «libero» di giocare la sua partita politica. Se come è probabile sarà il leader del nuovo centro moderato (quello che va da Riccardi a Fini, passando per Casini, Passera e Montezemolo), la strada del Patto di legislatura tra Progressisti e Moderati sarà spianata. Se questo non dovesse accadere, con l’aria che tira e il rischio-Caimano dietro l’angolo, non possiamo escludere che Bersani e Casini raggiungano l’accordo prima della tornata elettorale. La nuova rimozione del veto nei confronti di Casini da parte di Vendola, la prima volta era accaduto lo scorso luglio, lascia pochi dubbi a riguardo.

Comunque vada è altamente probabile che Bersani sarà il nuovo premier e lo sarà all’interno di una scena politica che ripercorre i passi della Grosse Koalition tedesca del 2005-2009 e di quella greca guidata da Samaras. Non stupisce che nel suo ultimo libro, scritto con la europarlamentare Sylvie Goulard e dedicato – c’è da non crederci – alla democrazia in Europa (La democrazia in Europa. Guardare lontano, Rizzoli), Monti erga a modello politico per il presente proprio quello nordico delle «larghe intese», l’unico capace di garantire il primato della tecnica sulla politica, le riforme strutturali (o neoliberali), la docilità neo-corporativa dei sindacati. Nella scena assai probabile in cui Bersani sarà premier, e magari Vendola strapperà un ministero “debole di portafoglio”, Monti sarà super ministro dell’Economia. Paradosso italiano, inoltre, vorrà che fuori dal recinto costituito dal montismo, assieme a Grillo, ci siano Mr B con la Lega di Maroni.

È dal paradosso italico che occorre partire per comprendere il rapporto tra le robuste mobilitazioni autunnali, europee oltre che italiane, e la crisi di governo. Fino a settembre Monti era sembrato imbattibile: l’unico leader europeo schiettamente neoliberale amato visceralmente dalla sinistra, l’unico capace di fare in pezzi il sistema previdenziale pubblico, il contratto collettivo nazionale, la sanità e la scuola, più in generale i precari e i giovani senza che il maggior sindacato italiano, la CGIL, battesse ciglio. Ci sono voluti la mobilitazione della CES e gli scioperi generali indetti dai maggiori sindacati in Spagna, Portogallo e Grecia per imporre a Susanna Camusso l’indizione, colpevolmente tardiva, di 4 ore di sciopero. Sciopero, quello del 14 novembre, che solo i movimenti studenteschi e giovanili hanno saputo generalizzare con forza senza pari. Ma è proprio la rottura del 14N che ha definito l’apertura di una nuova fase: il governo tecnico non piace più agli italiani, alle mobilitazioni giovanili si stanno già aggiungendo o si aggiungeranno quelle dei meccanici e del comparto della sanità pubblica (sciopero generale dell’11 dicembre) e di molti altri, ci vuole un pieno coinvolgimento dei Progressisti e della CGIL, che ambisce al ministero del Lavoro (Epifani?), nel governo del Paese, nella gestione neoliberale della crisi dei debiti sovrani. Inutile dire che i Progressisti non aspettavano altro, tronfi dei risultati delle primarie – che segnalano che il 40% dell’elettorato del PD è ultraliberista – si candidano a svolgere il ruolo di sempre, quello dei «responsabili». Amen.

È proprio in un quadro di questo genere che la sfida costituente ed europea dei movimenti si fa più ambiziosa e nello stesso tempo più necessaria. Con intelligenza occorre impedire che l’inverno italiano si faccia gelido nel gorgo elettorale, rilanciare subito l’iniziativa politica continentale (a metà marzo a Bruxelles e in tutta Europa), qualificare l’accumulo dei tumulti giovanili appena trascorsi e prepararne di nuovi. Tra tumulto e istituzionalità autonoma il rapporto non può non essere immanente e ricorsivo nello stesso tempo, questo è il piano ontologico su cui si inscrive l’anticapitalismo del nostro tempo. La carsicità costitutiva dei movimenti non può rappresentare un blocco, ma deve essere occasione per radicare territorialmente i conflitti (le nuove occupazioni procedono in questa direzione, ma anche le prime forme di autorganizzazione del lavoro cognitivo declassato, dei free-lance, dell’imprenditoria indipendente) e, nello stesso tempo, estendere le relazioni sociali e politiche oltre i confini nazionali. Dalle metropoli all’Europa, andata e ritorno, è questa la “transizione permanente” (fitta di traduzione dei linguaggi, delle pratiche, delle forme organizzative) che dobbiamo riuscire a giocare in questa fase, consapevoli che l’offensiva padronale sarà dura, in molti casi, e il 14N romano ce lo ha dimostrato, molto violenta. Consapevoli, infine, che la crisi europea e mondiale non può che approfondirsi e alla barbarie dell’accumulazione originaria della nostra epoca occorre contrapporre una rivolta che sappia, in ogni suo istante, essere costituente.