ITALIA

Dove va Alitalia? Un racconto dall’interno

Romina Fabretti, assistente di volo e sindacalista Usb ci ha portato nel corso di un lungo colloquio dentro le viscere del trasporto aereo italiano. Se il progetto di nazionalizzazione di Alitalia previsto da parte del governo Conte e il conseguente piano industriale prevederà licenziamenti ed esuberi, ci sarà «l’autunno caldo del settore»

Piazza San Giovanni, Roma

«Non ero ancora stata assunta in Alitalia che già ero in piazza per pretendere la dignità nel lavoro». Appena un mese fa gli Stati Popolari irrompevano nella scena politica italiana, e tra i tanti interventi di attivisti, lavoratori e sindacalisti di base che si susseguivano dal palco di Piazza San Giovanni, raccontando storie di precarietà e sfruttamento lavorativo dalle campagne alle industrie, l’assistente di volo per Alitalia e sindacalista Usb Romina Fabretti così denunciava dal palco: «Ho visto negli ultimi vent’anni tanti miei colleghi licenziati con una mail. Ho attraversato la stagione della privatizzazione della compagnia aerea con l’avvento dei “capitani coraggiosi”. La cessione durante il governo Renzi a una multinazionale degli Emirati Arabi che poi è scappata via». E ancora: «Ho visto negli ultimi 20 anni le cose andare sempre peggio per il personale di volo e di terra del trasporto aereo italiano». Diceva Fabretti: «Ora mi aspetto che con la nazionalizzazione da parte dello Stato e gli investimenti di tre miliardi pubblici promessi attraverso il decreto “Rilancio”, le cose cambino».

Oggi, nel corso di una lunga conversazione sul presente e il futuro dei dipendenti di una delle più grandi industrie strategiche italiane, Alitalia, appunto, società in profondo rosso (secondo alcuni dati non pubblici che risalgono a qualche mese fa e nonostante la mole di aiuti pubblici ricevuti) Romina Fabretti si racconta a Dinamopress.

 

Piazza San Callisto, Trastevere

«Dopo i medici e gli infermieri siamo stati la categoria più esposta al virus durante il lockdown. Già diverse fonti autorevoli hanno confermato che gli assistenti di volo, avendo continuato a lavorare a stretto contatto con i passeggeri anche durante il lockdown, sono fortemente a rischio contagio». Spiega Fabretti: «Rientriamo a pieno titolo nell’elenco dei lavori con un alto rischio di esposizione a malattie e infezioni». E poi continua: «I rischi per la salute nello svolgimento di questo lavoro sono tanti. Secondo un recente studio pubblicato sulla rivista “Environmental Health”, sono in costante aumento, infatti, negli Stati Uniti, tra il personale di volo donna, i casi di tumori della pelle, al cervello, uterini, della tiroide, e del seno». Ancora: «Sono la conseguenza della notevole mole di radiazioni a cui siamo sottoposti ogni anno. C’è da dire, però, che in Alitalia siamo comunque sottoposti a frequenti controlli».

È un fiume in piena, Romina Fabretti, e dopo gli allarmi sulla salute dei dipendenti di volo, è sul passato e il presente della compagnia area nazionale italiana a cui si fa riferimento nel decreto “Rilancio” presentato a metà maggio, è lì che scivola abbondantemente la nostra conversazione. Così: «Con le poche righe contenute nel decreto si autorizza il Ministero dell’Economia alla costituzione di una compagnia aerea interamente controllata da esso. In sostanza, si creano in questo modo le premesse per la nazionalizzazione di Alitalia. Bene. Una soluzione a cui, come sindacato, siamo favorevoli, in generale, nelle situazioni di crisi industriali complesse».

 

Dice Fabretti: «sulla parola il piano del Governo italiano è ambizioso. Si parte dalla promessa di ingenti aiuti finanziari».

 

E poi continua: «A spaventarci, però, sono le condizioni di partenza, perché questa è una azienda che è in crisi di liquidità da 20 anni, nonostante i forti ricavi fattivi e potenziali. Alitalia è un giocattolo industriale che è stato spesso ostaggio degli interessi dei politici, alcuni dei quali, negli anni, hanno provato addirittura a condizionarne le rotte di volo, per interessi legati ai loro collegi elettivi, mentre ovviamente hanno sempre interferito nelle nomine del management».

Nella mente – ad ascoltare la sindacalista – ritornano quelle pagine della storia politica recente che raccontano di una privatizzazione maledetta. Cominciata nel 1996 quando il governo guidato da Romano Prodi affida il 37% delle azioni collocandole sul mercato ai piccoli risparmiatori, molti dei quali sono dipendenti stessi della compagnia, configurando una sorta di azionariato diffuso, che, all’inizio, sembrava funzionare. Ma poi comincia la crisi: viene salvata dallo Stato una prima volta nel 2008 e quindi affidata in nome dell’italianità dall’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi ai sedici capitani coraggiosi: una pletora di boiardi, banchieri e industriali delle cui storie imprenditoriali di fallimenti e di «profitti privati e perdite pubbliche» se ne sono occupati spesso i tribunali. Salvatore Ligresti di Fondiaria, Emilio Riva di Ilva, Francesco Bellavista Caltagirone della holding Acqua Pia Marcia, sono alcuni dei nomi del capitalismo italiano a cui fu affidata allora la neonata Cai (compagnia aeromobili italiana) con il compito di “salvarla”, dopo gli sprechi di gestione dell’era Cimoli in particolare e con il risultato, invece, di affossarla ulteriormente, dopo averla spremuta, e salvo poi restituire ancora, Alitalia, di nuovo allo Stato.

 

L’areoporto di Milano Malpensa (commons.wikimedia.org)

 

È il cane che si morde continuamente la coda. Il privato fallisce nonostante la mole di profitti, accumulando debiti nell’azienda che è strategica per il Paese e così il governo è costretto ad intervenire aprendo i cordoni della borsa, nominando i suoi commissari straordinari. Imponendo il “suo” management. È la storia della più grande compagnia aerea nazionale, ma potrebbe essere quella della più grande fabbrica siderurgica, ovvero l’Ilva. Similitudini.

«C’è un passato che sempre ritorna nella vicenda di Alitalia». Racconta Romina Fabretti: «Sono entrata nell’azienda nel 1999 e fino al 2007 ho collezionato 19 contratti diversi tutti a tempo determinato. Assunta finalmente nel 2007 a tempo indeterminato, nel 2008 sono stata licenziata e infine riassunta in una nuova compagnia, stabilizzata attraverso una sentenza del giudice del lavoro di Roma. Nel frattempo, ho visto qui dentro dei meccanismi di gestione folli. Ho visto centinaia di piloti e personale di volo costretti a spostarsi da Roma a Milano quasi ogni giorno per prendere servizio. Perché per una pura scelta di calcolo politico il management aveva deciso che Malpensa sarebbe stato il nostro hub di riferimento, cosa che avrebbe danneggiato l’aeroporto di Fiumicino dal momento che non c’era la flotta necessaria».

 

E ancora, dice la sindacalista: «Ho visto in questi venti anni decine di dirigenti come Cimoli che hanno accumulato soltanto debiti, andare via da Alitalia con buonuscite milionarie.

 

Consulenze altrettanto milionarie affidate senza senso se non quello di favorire gli amici degli amici. L’acquisto di piccole compagnie decotte come Air Europe a prezzi maggiorati, per fare un esempio degli sprechi di gestione. Ma soprattutto, col fallimento del “piano Cempella” e il passaggio sotto Air France, le condizioni sono diventate disastrose». E poi conclude: «Nel frattempo sempre nello stesso lasso di tempo ho anche visto decine di migliaia di dipendenti licenziati da un giorno all’altro con una mail. Se accadrà anche stavolta con il nuovo piano di nazionalizzazione, quest’autunno sarà l’autunno caldo del settore».

 

Via Veneto. Ministero del Lavoro

Sono questi i giorni in cui si deciderà del destino della compagnia area dopo che negli anni scorsi il Governo Renzi aveva fallito nel tentativo di “affidarla” a Etihad. E così il governo si era trovato di nuovo con i debiti da ripianare (prestito ponte da un miliardo), e le nomine degli ultimi commissari, i quali da qualche tempo, però, sono finiti pure loro in disgrazie giudiziarie, accusati dai giudici della Procura di Civitavecchia di aver portato Alitalia alla bancarotta, e tra gli indagati l’ex commissario di Alitalia (e di Ilva) il commercialista romano Enrico Laghi. Analogie. È il passato che sempre ritorna. E gli ingredienti ci sono tutti perché ritorni anche stavolta.

 

Dove va Alitalia e il settore del trasporto aereo italiano, dunque? A partire dai soldi necessari per sostenere una azienda che attualmente perde 2 milioni di euro al giorno e che vede continuamente a rischio il posto di circa 11.600 lavoratori.

 

Ci si chiede: i tre miliardi di euro promessi dal governo Conte basteranno per cambiare il metodo di gestione della compagnia area nazionale? A giudicare dai rumor che arrivano dalle agenzie la situazione sembrerebbe in discesa. Davanti alla sede del Ministero del Lavoro, lo scorso 4 agosto, era palpabile la preoccupazione dei sindacati autonomi per una altra vertenza del settore. «I lavoratori Air Italy, così come quelli di Alitalia, che sono gli unici a rischiare di pagare ancora una volta l’annosa imperizia dei dirigenti e l’assenza dei Governi, chiedono risposte concrete adesso», chiedevano riuniti in un presidio. Intanto, proprio quel giorno dal Ministero di Via Veneto sono arrivate le prime risposte: «stanziati 32 milioni per 10 mesi di cassa integrazione per i lavoratori Air Italy e accelerazione della NewCo Alitalia – con predisposizione immediata del piano industriale da sottoporre alla Commissione europea», si legge in una nota ministeriale, con la titolare delle Infrastrutture, Paola De Micheli, che proprio ieri ha confermato in una intervista al Corriere della Sera: «Abbiamo completato la fase 1. Nel decreto approvato venerdì c’è una norma che accelera molto la costituzione della newco».

Si attende la presentazione del piano industriale, dunque, «che indicherà la rotta sulla quale viaggerà la newco, per la quale si attende il decreto per la sua costituzione e che, nella sua architettura societaria, vedrà una holding alla quale faranno capo tre asset operativi, volo, manutenzione e handling», confermano le voci ufficiali affidate alle agenzie, che però tacciono, almeno per ora, sul futuro dei dipendenti di una delle più grandi aziende italiane per volumi di fatturato annuo, e anche per debiti accumulati.