EDITORIALE
Rompere l’automatismo
16 piazze, tanti settori coinvolti, tra picchetti, cortei, presidi, flash mob. Appunti e un primo bilancio dello sciopero generale e sociale del 29 novembre
Lo sciopero generale e sociale di ieri è stato una prima, importante e riuscita approssimazione di ciò che serve in Italia e in Europa. Importante e riuscita, con 16 piazze del sindacalismo di base e un protagonismo rilevante di settori del lavoro faticosi da sindacalizzare: spettacolo e cultura, operatori sociali, ricerca, terziario low cost. Al loro fianco, settori nei quali gli insediamenti sindacali hanno una storia più lunga: scuola, pubblico impiego e società in house, logistica, sanità, trasporto aereo. Un’approssimazione, perché le 16 piazze sono state in alcuni casi assai gremite, ma non ancora eccedenti o – si diceva un tempo – “moltitudinarie”.
La giornata di ieri però, che ha visto in piazza la CGIL (e poca UIL) in 50 città, ci consegna elementi per una riflessione importante. Riflessione sobria, senza trionfalismi; mettendo altrettanto da parte la smania di soluzioni facili che pervade la militanza politica del nostro tempo – decretandone troppo spesso l’irrilevanza.
Primo punto. Con lo sciopero generale e sociale di ieri, il sindacalismo di base e conflittuale ha cominciato a rompere l’automatismo. Quello per il quale l’autunno del conflitto sociale si presenta, in Italia, frammentato, inefficace, identitario, inutilmente litigioso. Uno sciopero a disposizione delle lavoratrici e dei lavoratori, alternativo cioè allo sciopero generale che serve alle organizzazioni sindacali semplicemente per confermare sé stesse, contarsi, esibire la propria presunta “purezza”. Facile essere puri una volta l’anno, se poi nella concretezza dei luoghi di lavoro – anche giustamente, aggiungo – si negozia e si fanno compromessi, con alleanze ovviamente spurie. La realtà della lotta sindacale è sempre spuria; ma non lo è anche la politica tutta, d’altronde?
È stato rotto anche un altro automatismo, quello secondo il quale il sindacalismo di base, in qualunque congiuntura storica e indipendentemente dai rapporti di forza, non debba mai scioperare nello stesso giorno della CGIL. Automatismo che da anni spinge ai margini il conflitto sociale in Italia. Mentre in Francia, la stessa Francia osannata per i Gilet jaunes e Mélenchon, lo sciopero generale è proclamato da tutte le organizzazioni per lo stesso giorno e lo sciopero diventa così un momento di insorgenza metropolitana, in Italia occorre “dire messa”, nascondendo le difficoltà di ciascuno e riducendo a mera competizione il multiverso sindacale. Badate bene, non si tratta di fare sconti a nessuno: il monopolio confederale della rappresentanza sindacale è insopportabile e va combattuto. Ma occorre saper afferrare la singolarità delle congiunture politiche: il monopolio in questione non opera sempre alla stessa maniera; può essere duramente incrinato dall’offensiva padronale e governativa; la Terza guerra mondiale incombente non è un fattarello tra gli altri; la crisi della manifattura tedesca che si sta abbattendo sull’Italia del Nord prepara un disastro di proporzioni colossali.
Secondo punto. Se non vogliono semplicemente sopravvivere, seguendo il ritmo di una prolungata agonia, i sindacati di base devono saper diventare un polo. Non un unico soggetto, storie troppo diverse e non sempre omogenee, ma un unico polo sì, capace di funzionare compattamente su alcune scadenze, di sviluppare, come si è fatto per lo sciopero generale e sociale di ieri, un’unica campagna di comunicazione. Campagna comunicativa – fatta di grafica, video, uso antagonista dei social, attivazione in prima persona del mondo dello spettacolo e della cultura – che ha fronteggiato in modo per nulla fragile la “guerra di classe” che TV e stampa (con l’eccezione di manifesto e Fatto Quotidiano) conducono quotidianamente contro tutto ciò che non rientra nel perimetro dei partiti e della loro chiacchiera – che è sempre più distante dai problemi reali del Paese.
Costruire una nuova sfera pubblica, radicata nel conflitto ma anche capace di diventare senso comune, è oggi un compito sindacale, di classe appunto.
I sindacati di base, poi, devono aprirsi alle nuove generazioni. Esplosi con gli scampoli della Prima Repubblica, capaci di navigare – spesso pure con smalto – tra i flutti della Seconda, senza un ricambio generazionale non possono sperare di superare indenni i travagli della Terza. Ciò non vuol dire togliere peso e protagonismo ai tanti insediamenti storici, ma vuol dire mettere da parte orgoglio e avvinghiamento a gerghi inevitabilmente affaticati. Mettersi in ascolto, mettersi a disposizione: così, hanno fatto bene ieri, come giustamente sottolinea Piero Bernocchi. E possono fare – aggiungo – di più e meglio, scommettendo sull’affermazione di una rinnovata fase di sindacalizzazione di massa.
Terzo punto. La sfida che riguarda i movimenti sociali, i collettivi e i gruppi, le reti e gli spazi autogestiti, invece, è la seguente: superare la ormai lunga, nonché dannosissima, rimozione del lavoro. Era giusto, negli anni Novanta, combattere la cultura del lavoro che, se per un verso continuava a celebrare la classe operaia, per l’altro – al Governo e dal Pacchetto Treu – distruggeva il potere negoziale accumulato negli anni Sessanta e Settanta, precarizzando la forza-lavoro giovane, imponendo il dualismo del mercato del lavoro e del welfare.
Almeno dalla crisi finanziaria del 2007-2008, con l’uso violentissimo che il capitale ha fatto della stessa, accrescendo a dismisura sfruttamento, profitti, rendite e disuguaglianze, la rimozione del lavoro dall’agenda politica non è più tollerabile.
Ancora: lo sarebbe se i sindacati fossero già oggi sufficienti a organizzare conflitti efficaci, capaci cioè di incidere nello scontro con l’iniziativa padronale. Non è così.
Movimenti, centri sociali e reti associative, possono dare un contributo decisivo a quel processo di rinnovata sindacalizzazione, ovvero di politicizzazione polemica del sociale, cui prima si faceva riferimento. Il solo processo che, come indica egregiamente Sergio Fontegher Bologna sul manifesto di oggi, può tentare di «frenare la discesa all’inferno». Non si battono le destre – di Trump, Orban e Meloni – delegando le faccende “sporche” e faticose ai sindacati, magari quelli tradizionali, per poi pensare di indovinare una piazza l’anno contro questo o quel provvedimento che più sembra indignare l’opinione pubblica. Il fascismo vecchio e nuovo si radica socialmente, si combina con paure e senso comune, disaggrega le pretese fomentando soluzioni corporative, non si limita a reprimere. Meglio: lo fa, e combattere le norme che criminalizzano il conflitto è e sarà fondamentale, ma fa pure, e per la maggior parte del tempo, tutto il resto. Verità scomoda, perché è scomodo occuparsi di lavoro e delle sue sofferenze. Ma ci vuole “una lunga marcia attraverso le macerie” di quarant’anni di controrivoluzione capitalistica (neoliberalismo, se il termine vi convince di più) per contare davvero qualcosa.
Ieri è stato un inizio.
Foto di copertina di Jacopo Clemenzi