ITALIA

Un Cavaliere nella Guerra dei Trent’anni

Silvio Berlusconi è stato il baricentro politico della politica italiana negli ultimi trent’anni. Tre decenni di successi e sconfitte di un interprete del riassetto economico-sociale dell’Italia postfordista

Interrogarsi sul ruolo di Silvio Berlusconi nella nostra storia nazionale non è sicuramente un qualcosa di semplice, non solo per la molteplicità di aspetti da trattare, ma anche per l’indubbio peso della sua persona e della sua compagine.
Tantissime le cose da dire, troppe forse.

Il Cavaliere è stato infatti negli ultimi trent’anni il centro visibile del sistema politico italiano: imponendo quasi sempre la sua agenda tematica (dal governo o dall’opposizione), facendo scendere gli avversari comunque “sui suoi terreni” e impostando il volume e (soprattutto) la qualità del discorso pubblico, con il risultato di costringere inevitabilmente tutti a posizionarsi “o con lui o contro di lui”. Una prassi bonapartista in cui: ogni scheda elettorale, ogni sondaggio, ogni audience televisiva o di piazza, ogni supposto apprezzamento femminile, ogni risata machista o razzista e finanche ogni vittoria calcistica era spacciata come un referendum sulla sua persona e, soprattutto, sulla giustezza e ragionevolezza dei suoi draconiani provvedimenti socio-economici.

Volente o nolente, c’è infatti un prima e un dopo la “discesa in campo” del Cavaliere, culturalmente ma anche psicologicamente. 

La stessa denominazione, ormai storiograficamente accettata, di “Seconda Repubblica” è infatti, non dimentichiamo, tarata e intitolata alla sua ingombrante figura, vissuta spesso da molti commentatori erroneamente come un perenne fenomeno episodico, ma in realtà un dato strutturale e costante degli ultimi tre decenni. Una azione che ha segnato in modo duraturo anche il posizionamento geopolitico italiano: nella UE, nella NATO, in Medio Oriente e in ogni dinamica internazionale tanto energetica che estrattiva. Probabilmente non avremmo avuto gli Aznar, i Sarkozy, i Trump o l’attuale Partito Popolare Europeo senza il Cavaliere e il suo esempio di centro-destra.

Molto più figlio di quel che si creda della ristrutturazione degli anni Ottanta e del capitalismo straccione italiano (anche più opaco) Berlusconi ha incarnato caparbiamente e scientemente in Italia quella velocizzazione dei più radicali processi di sfruttamento e aumento delle disuguaglianze, sulla scorta di una voluta depoliticizzazione delle questioni socio-economiche a vantaggio di quelle socioculturali, come osservato dal politologo olandese Cas Mudde.

L’asse stesso del suo populismo mediatico-governativo si è incentrato infatti sull’essere l’esempio europeo mediterraneo di sacralizzazione indiscutibile dei più radicali dogmi neoliberisti, narrando per esempio il welfare state, la progressività della tassazione, politiche di sostegno al reddito e di inclusione sociale, non come semplicemente da lui (e dal padronato) rifiutate, ma cancellate dalla storia. Questioni insomma oggetto di chiacchiera “comunista” e “astratta”, davanti, invece, a una “vera Italia” (la sua): giustamente egoista, sfacciatamente e rapacemente maschile, post-ideologica, attaccata al lavoro e alla roba e, soprattutto, capace di sognare il suo personale “posto al sole”, nell’epoca triste e impaurita della solitudine dell’italiano globale.

Berlusconi e il (suo) centro destra hanno così dato la loro impronta fanaticamente sciovinista all’Italia che si immergeva nella globalizzazione: tanto nella sua fase brevemente entusiastica (della seconda metà degli anni Novanta) che in quella paranoica e armata della Guerra Globale Permanente (post-11 Settembre) o in quella reazionaria della lunga Grande Crisi Finanziaria (negli ultimi quindici anni).

Per molto tempo ci si è chiesto, in modo riduttivo, se il Cavaliere avesse solo rappresentato un “comune sentire” degli italiani oppure se, in modo eccessivo, abbia ipnotizzato una nazione, tramite il suo impero comunicativo, snaturandola: entrambe ipotesi troppo semplicistiche su cui pure ci si è arrovellati a lungo.

Foto di Daniele Napolitano

Una possibile migliore chiave interpretativa è, forse, che Berlusconi abbia perfettamente compreso il portato complesso, anche psicologico, del riassetto economico-sociale dell’Italia postfordista e ne abbia forzato a destra le tendenze e le direttrici. È insomma stato un attore radicale ma consapevolmente e perfettamente inserito nel contesto delle sue tre epoche.

Un conservatore spaccone che ha attraversato le varie fasi politiche all’attacco, puntando arrogantemente a imporre il proprio gioco (politico) in casa come in trasferta, sterilizzando (comunicativamente) il modulo dei suoi avversari nella zona di campo che preferiva, come il suo rivoluzionario grande Milan di Arrigo Sacchi.

E anche quando negli anni Novanta fu la socialdemocrazia della Terza Via all’italiana a dare traduzione in legge di alcune fondamentali strutture neoliberali (dal Bologna Process alla precarizzazione biopolitica del mercato del lavoro) fu comunque Berlusconi a servirsene e incamerarle come tasselli nella costruzione della sua idea-Paese. In un mondo turbocapitalista che comprendeva, viveva e leggeva molto meglio di altri e in cui si è sempre trovato culturalmente e strategicamente a proprio agio, perché a esso apparteneva.

Ma soprattutto il Cavaliere ha dato forma e tenuto insieme uno schieramento politico plurale in cui un partito leggero thatcheriano-reaganiano (“Forza Italia”) firmava un patto di sangue con l’individualismo proprietario xenofobo della nuova destra postindustriale (la “Lega Nord”) e con la tradizione ideologica del più importante partito neofascista della storia dell’Europa Occidentale (il “Movimento Sociale Italiano” diventato, solo dopo nove mesi dalla prima vittoria del centrodestra del 1994, “Alleanza Nazionale”).

Foto di Daniele Napolitano

Una pluridecennale coalizione politica radicale diventata una realtà e una cultura di governo del territorio (dal più piccolo municipio a Palazzo Chigi) e che ha creato un precedente politico e un unicum nel mondo (anche nella storia della politologia). In tutte le democrazie liberali troviamo infatti a destra formazioni conservatrici, xenofobe, populiste, neo o post fasciste che siano, al massimo capaci di momentanei (e spesso effimeri) accordi elettorali. Soltanto in Italia e per decenni abbiamo visto invece una coalizione di destre radicali riuscire a stare sinergicamente insieme (senza neanche troppi trambusti) e a costituire una opzione di governo politicamente, socialmente e culturalmente competitiva, in grado di rappresentare bene o male la metà del corpo elettorale.

Corollario e conseguente di questo è stato imporre una sintassi politica ritenuta falsamente verace e vicina alle persone (o quantomeno alla loro pancia), ma in realtà grammaticamente classista, discriminatoria, egoista e sessista. Nella consapevolezza, tutta berlusconiana, che la capacità di narrazione della realtà sia un pezzo fondamentale dell’agire politico e dell’affermazione della più selvaggia governance neoliberista.

Sbaglieremmo però a pensare che il mondo berlusconiano non abbia subito sconfitte, perso partite o non sia stato mai messo politicamente in difficoltà: come tutte le esperienze così lunghe ed estreme sarebbe sciocco e fazioso dirlo; e tanti sono stati i processi bloccati o rallentati, quasi sempre dal basso.

E altrettanto vero, poi, che la scomparsa di Berlusconi inasprirà i nuovi protagonismi nell’ambito delle destre italiane, andando a velocizzare quel processo, già in atto, di passaggio da una sempiterna coalizione a una alleanza di governo; ma questo sarà storia del domani. Berlusconi insomma, malgrado la sua mitopoiesi, non è stato un avversario politicamente invincibile, ma costantemente temibile proprio perché consapevole del suo tempo e dotato, prima che di armi, di una cassetta degli attrezzi aggiornata e flessibile.

Difficile dire infatti che il messaggio berlusconiano non abbia spesso caparbiamente raggiunto e mantenuto in Italia quel “dominio culturale” che, gramscianamente inteso, rappresenta un suo lascito profondo e, esattamente come il suo protagonista, duro a morire.

Certo, se l’Italia della Crisi aveva scelto l’opzione nazionalista e sovranista salviniana e quella post-Covid il patriottismo di Fratelli d’Italia lo dobbiamo anche a Berlusconi che ha saputo fornire: basi, finanziamenti, copertura e appoggi a ulteriori opzioni radicali; questo è il suo vero lascito. Non come si dice una nuova classe politica (ora in cerca di padrone), né solo un imbarbarimento del discorso pubblico, ma l’affermazione di un immaginario e di una comune grammatica che ha intriso e ulteriormente atomizzato il corpo sociale, combattendo ipotesi ricompositive rispetto a un populismo funzionale al più violento e sfacciato sfruttamento.

Immagine di copertina e foto nell’articolo di Daniele Napolitano, che ringraziamo.