POTERI

Un avventuriero a palazzo Chigi

Ha ragione Fabrizio Barca a dire che nel programma di Renzi ci sono slogan e niente idee e che il tutto è pericolosamente avventurista, al punto da scatenare sentimenti di angoscia in un onesto riformista, di tradizione Pd(s) e liberista moderato.

Il modo in cui Renzi si sta installando al potere (vedremo a breve gli esiti) non è irrilevante ed entra in singolare contraddizione non solo con le sue promesse precedenti (vizio “normale”) ma –e più grave– con le aspettative di cui si era nutrita la sua resistibile ascesa. Egli infatti aveva puntato tutto sulla propria estraneità al linguaggio e ai riti correnti della politica (governativa e di partito), su un taglio decisionista e sulla velocità delle mosse. Questi connotati avrebbero dovuto giustificare la spregiudicatezza del comportamento e far chiudere un occhio sulla vaghezza dei contenuti. Snodo fondamentale era la scelta di non vivacchiare ma di esporsi a breve scadenza a una verifica elettorale e lì sfondare, con un rapporto diretto con gli elettori, a prescindere da destra e sinistra. Giusto questo programma mediatico-populista gli si è sfarinato fra le mani nel momento in cui ha fatto fuori proditoriamente lo sciapo Letta (rendendolo peraltro una vittima simpatica, errore madornale), non solo senza un passaggio parlamentare, nel più puro stile delle congiure democristiane e delle crisi extra-parlamentari da Prima Repubblica, ma aggirando sine die le stesse sbandierate elezioni e promettendo addirittura di durare sino a fine legislatura, 2018!

Questa condotta ha sconcertato chi aveva ingoiato l’accordo con Berlusconi finalizzato a una nuova legge elettorale per consentire un rapido ritorno al voto. Che senso ha avuto allora sdoganare il pregiudicato, per poi dilazionare la verifica elettorale e continuare il tran-tran delle Piccole Intese con Alfano e i centristi? E giù a cascata è venuto il resto: l’impantanamento nelle consultazioni presidenziali e parlamentari, la trattativa a oltranza su programma e ancor più sulla composizione del governo, il rallentamento dei processi, la doppia maggioranza, addirittura la riesumazione dell’arco costituzionale estinto già negli anni Ottanta dello scorso secolo. Agli occhi dei suoi potenziali seguaci Renzi ha perso ogni potenziale di fascino, appiattendosi sulla figura del solito maneggione, più brillante ma altrettanto paralizzato dei suoi predecessori. Tutto chiacchiere e distintivo, altro che rock e cambiar verso all’Italia.

La vera sorpresa, dopo il finto scoop del libro di Alan Friedman e il misterioso impeachment mediatico di Napolitano costretto a togliere la protezione a Letta, è stato il flop dell’avvento di Renzi, sconfessato dal comune sentire malgrado gli appoggi della grande stampa, subito invischiato nei ricatti dei partiti minori e nell’ambiguità di una destra tatticamente spartita fra elogi sperticati e minacce sottintese. Per chi contava sull’appoggio immediato dell’opinione contro le resistenze dei partiti –una logica tipica della “democrazia del pubblico” (B. Manin)– avere il primo giorno sondaggi avversi e indifferenza pesa e come! Pure il defilarsi dei nomi a effetto, su cui contava per farsi un’immagine esterna e gestire la politica con un gabinetto ombra, ha fatto una pessima impressione, lasciando Renzi a misurarsi con i peggio riti di coalizione sui ministri di partito e a subire le pressioni europee e presidenziali sulla scelta della figura chiave, il ministro dell’economia. Insomma, un inizio davvero sfigato, di quelli che azzoppano la corsa –e la corsa era tutto, visto che il programma è incoerente e oscuro, una somma eterogenea di cattive intenzioni neoliberiste e di promesse non mantenibili entro il quadro delle compatibilità europee che di certo Renzie non può e non vuole aggredire.

Il fatto, per dirla con Barca, che abbia slogan e non idee, non dipende soltanto dal carattere avventurista e fragile di Renzi (che rischia di portare alla rovina l’Italia con il suo fallimento piuttosto che con la presa del potere), quanto dall’impossibilità radicale di una politica riformista nell’ambito del neoliberismo. Per non parlare di una governamentalità rispettosa della democrazia rappresentativa –di quella reale manco a sognarla.

A differenza di situazioni analoghe –Blair che passava trionfalmente per la breccia aperta dalla Thatcher, Schröder che smantellava il modello renano– Renzi non ha le forze per un progetto neoliberista d’assalto: il Pd gli si sbriciola fra le mani più che convertirsi in efficiente gestore del principio di concorrenza integrale, il compare Berlusconi tutto è tranne che un incursore ordoliberale, la crisi non offre prospettive di fuoriuscita mediante choc. Non si vede come Renzi possa usare il Parlamento come clava né esautorarlo con una strategia autoritaria efficace. Rischia di impantanarsi come Berlusconi, lasciando procedere gli effetti della crisi e del pilota automatico finanziario, che distruggono le classi subalterne ma non rilanciano l’economia e dunque la posizione relativa del capitalismo italiano ed europeo nel sistema.

Sarà un caso, ma l’ultimo slogan renziano (intervista a Friedman) –ammazziamo il gattopardo o il gattopardo divorerà l’Italia– ricorda in modo imbarazzante le vanterie bersaniane sul giaguaro da smacchiare. Sappiamo come andò a finire. Non è impossibile che Renzi fondi le sue speranze su un accordo segreto con Berlusconi e Verdini: voi vi fidereste?

Le preoccupazioni di Barca sono così giustificate proprio per l’avventurismo insito nella situazione, non per gli sproloqui del bischero di Rignano, “il Bomba”. Quanto può reggere una situazione del genere? Verrà un commissario dall’Europa a portarci lacrime e sangue oppure sorgerà un “redentore” dall’interno del populismo nostrano, con tratti ben più spaventosi della maschera carnevalesca e rugosa del Cav di buona memoria?