ITALIA

Un anno di “Mediterranea Saving Humans”

La missione compie il suo primo compleanno. Il racconto di questi mesi attraverso le parole di attiviste e attivisti dello spazio sociale romano Esc Atelier

Dodici mesi fa la nave “Mare Jonio”salpava dal porto di Augusta per la prima missione di Mediterranea Saving Humans. Era il 3 ottobre 2018: l’inizio di un progetto politico che in pochissimo tempo ha acquisito un ruolo centrale nel panorama politico italiano, andando oltre gli obiettivi iniziali. Mediterranea è nata come reazione ai morti in mare, ai respingimenti in Libia e più in generale alle quotidiane violazioni dei diritti più elementari che avvengono a poche miglia dalle nostre coste meridionali come conseguenza delle politiche di cooperazione con la guardia costiera libica promosse da Minniti, supportate dall’Unione Europea e inasprite ulteriormente dalla violenta retorica dei porti chiusi di Salvini.

Un progetto che ha operato sfidando il contesto politico della criminalizzazione delle Ong del mare (cominciata già nel 2017 con la propaganda dei “taxi del mare”) e di tutte le forme di solidarietà dal basso. Partendo dalla concretezza dell’azione di salvataggio, in poco tempo Mediterranea ha raccolto attorno a sé una rete diffusa di sostegno in quella parte della società civile che, riconoscendosi nel progetto, ne è divenuta l’equipaggio di terra, portandone avanti gli obiettivi politici e ampliandone le rivendicazioni sul tema delle migrazioni.

Il centro sociale Esc di Roma, situato nel quartiere di San Lorenzo a via dei Volsci 159, è stato parte della piattaforma sin dall’inizio. Diverse attiviste e attivisti hanno partecipato alle missioni in mare, come ai progetti a terra. «Abbiamo conosciuto il mare in un modo diverso da quello per noi abituale. Navigare vuol dire affidarsi totalmente ai tuoi compagni, ai mezzi che hai, al tempo meteorologico e ai tempi degli altri – spiega Fulvia, membro del Rescue Team della “Mare Jonio” e attivisita dello spazio – Abbiamo preso il largo un anno fa denunciando come quel tratto di mare fosse diventato un cimitero a cielo aperto, le cui tragedie toccano solo ogni tanto le pagine dei giornali. Fare search and rescue vuol dire restituire dignità alle leggi del mare, non solo in senso giuridico. È il principio per il quale in mare vige l’obbligo di soccorso e l’obbligo di solidarietà anche all’interno di una imbarcazione o di una flotta. Mi riferisco a quelle dinamiche di sostegno reciproco tra le persone che affrontano una traversata senza sapere se toccheranno di nuovo la costa».

Il ponte della Mare Jonio è stato anche uno straordinario laboratorio politico, che ha fatto incontrare e lavorare insieme soggetti molto diversi fra loro. «L’equipaggio è composto da marittimi, attivisti e attiviste che, con l’ aiuto prezioso di Sea Watch e Open Arms, si sono via via specializzati nei vari ruoli delle missioni Sar: personale di soccorso, mediatori culturali, marinai, medici, operatori sanitari, avvocati, ma anche skipper, meteorologi, fotografi, videomaker, giornalisti, scrittrici… Tutti contribuiscono all’andamento della missione, mettendo a disposizione di un ingranaggio collettivo le proprie capacità, competenze e convinzioni», continua Fulvia.

Lo spazio del mare è poi un campo di battaglia politica, giocata in gran parte sul terreno giuridico. L’utilizzo del diritto è uno degli aspetti più innovativi di questo progetto, come ci spiega Lucia, avvocata, attivista di Esc e membro del team legale di Mediterranea. «A fronte di una situazione di illegalità determinata dalle politiche di alcuni paesi, che si traduce in violazioni dei diritti dei singoli, c’è il tentativo di rovesciamento della realtà con la criminalizzazione delle organizzazioni che fanno soccorso. In sostanza si afferma: “tu non sei una nave che fa soccorso, stai aiutando i trafficanti e fai un uso strumentale del diritto del mare”. Noi rispondiamo invece che il diritto del mare è molto chiaro, esiste l’obbligo di soccorrere e il diritto a essere soccorsi. Esiste un dovere per gli stati di garantire che il soccorso avvenga a prescindere dallo status giuridico del singolo (che sia un migrante irregolare, un rifugiato o un cittadino europeo, è la stessa cosa) e il diritto a sbarcare in un porto sicuro nel più breve tempo possibile. Nel corso di quest’anno abbiamo attivato diverse azioni legali, per tutelare da un lato le persone che venivano soccorse dalle organizzazioni civili e dall’altro le organizzazioni stesse. Nonostante si tratti di azioni ancora pendenti, il cui risultato si vedrà più in là, la cosa importante è stata proprio l’utilizzo del diritto a fronte di un’attività palesemente illegale delle autorità italiane. Ad esempio, lo strumento dell’esposto, utilizzato in diverse occasioni, ha fatto emergere la responsabilità anche penale che deriva dalla mancata indicazione di un porto sicuro nel più breve tempo possibile. Analogamente, la contestazione dei decreti che hanno impedito l’ingresso nelle acque territoriali di molte navi (da “Sea Watch 3” a “Open Arms”, alle imbarcazioni di Mediterranea “Mare Jonio” e “Alex”) potrebbe aprire la strada alla dichiarazione di incostituzionalità del decreto sicurezza bis sulla base del quale sono stati emessi quei provvedimenti. O ancora, le azioni avviate di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono volte a far dichiarare l’illegittimo il comportamento delle autorità italiane per violazione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in particolare il divieto di trattamenti inumani e degradanti e il divieto di privazione arbitraria della libertà personale.I nsomma, è evidente che è cambiata è la postura delle organizzazioni della società civile, che piuttosto che subire le scelte spesse illegittime delle autorità, reagiscono all’interno della cornice legale esistente».

Se i risultati giuridici di questa strategia sono ancora da verificare, quelli politici sono stati immediatamente evidenti. Innanzitutto, si sono create le condizioni affinché si permettesse effettivamente alle persone di sbarcare, cogliendo di sprovvista l’apparato salviniano, come nel caso del primo salvataggio effettuato da Mediterranea, o sfidando apertamente il divieto di ingresso nelle acque territoriali, come hanno fatto la capitana della “Sea Watch 3” Carola Rackete e il capitano dell’imbarcazione a vela Alex Tommaso Stella, con la conseguenza di mettere in evidente difficoltà il governo giallo-verde. In secondo luogo, una posizione offensiva nei confronti delle continue violazioni compiute dagli Stati costieri ha messo l’Unione Europea davanti alle proprie responsabilità, soprattutto in merito alla cooperazione con la Libia.

E poi c’è Mediterranea a terra. La ricca rete di realtà della società civile e di singoli che ne hanno fatto proprio il messaggio e il nome e li hanno usati per costruire iniziative di solidarietà a terra. «Mediterranea a terra è stata un ponte concreto con le missioni in mare. È stata l’occasione di incontri dal nord al sud l’Italia, in un moltiplicarsi di eventi di sostegno che hanno garantito l’operatività del progetto e che hanno sempre lasciato un segno – racconta Giuliana, attivista di Esc che ha curato da vicino quest’aspetto della missione – Ricordarli tutti è difficile, centri sociali e parrocchie, scuole e comunità locali e poi i singoli cittadini, donne e uomini solidali (dunque potenziali criminali secondo i decreti in vigore) che hanno messo a disposizione il proprio tempo, le proprie risorse, i propri spazi per Mediterranea. Quelli che abbiamo chiamato “equipaggi di terra” non solo sono stati determinanti nella raccolta dei finanziamenti, consentendo concretamente miglia in mare che valgono vite umane, ma sono stati e sono tuttora presenti nel territorio con azioni che incidono sui diritti “oltre lo sbarco” di chi viene soccorso in mare».

Dai racconti di chi era bordo emerge con chiarezza la portata, umana e politica, dell’incontro con le persone soccorse. «La quotidianità della convivenza a bordo e le relazioni che si stabiliscono nei giorni che precedono lo sbarco hanno un impatto molto forte – dice Daniela, attivista di Esc, a bordo di Mediterranea nell’ultima missione – Quello che ci restituiscono non è solo il racconto delle loro storie, storie che ridanno un volto e un nome a coloro che sono altrimenti dei numeri, disumanizzati per renderne più accettabile la morte in mare, ma sono anche i loro desideri, le loro attese, in una parola la loro idea d’Europa. Una volta sbarcati a terra il loro viaggio verso l’autodeterminazione e la conquista dei diritti non è finito. Comincia il continuo scontro con quelli che definiamo i “confini interni” dello spazio europeo, che si manifestano nella violenza del sistema degli hotspot, nei respingimenti alla frontiera, nell’impossibilità di poter scegliere il proprio paese di destinazione, nel non vedersi riconosciuto un permesso di soggiorno e rischiare così di essere rinchiuso in un Cpr, rimpatriato o condannato a vivere nell’ombra. Continuare a stare al fianco di queste persone fa parte dello stesso progetto politico, è il punto di incontro delle nostre lotte. Questo legame paradossalmente l’ha reso esplicito proprio la politica di questi ultimi anni: i decreti di Minniti prima e di Salvini poi hanno accomunato nelle misure repressive i migranti con i poveri, con gli ultimi, gli improduttivi, gli occupanti di case, gli attivisti dei centri sociali. Insomma tutti coloro che devono battersi per veder riconosciuti i propri diritti, dalla casa all’assistenza sanitaria e legale, dalla parità di genere alle condizioni di lavoro».

Dopo un un anno quale sono presente e prossimo futuro di Mediterranea? Come si riconfigura ora l’azione di questa piattaforma, alla luce del recente cambio di governo?

«Il fatto che Salvini non sia più ministro dell’Interno, non modifica le cose. Già dopo le prime settimane di vita del nuovo governo, si è vista una sostanziale continuità nell’approccio alle migrazioni, un approccio che assegna un ruolo determinante all’Europa nello stabilire il modello di gestione dei flussi migratori – afferma Marta che ha partecipato ad azioni di soccorso ed è impegnata presso lo sportello legale di Esc – ’accordo di Malta dello scorso 23 settembre è emblematico: prevede un sistema (comunque discutibile) di ricollocazione in alcuni paesi europei per le persone soccorse dalle navi, senza tuttavia mettere in discussione la gestione complessiva delle frontiere esterne, là dove le autorità libiche continueranno a svolgere un ruolo centrale. Finché non verrà abolita qualsiasi forma di cooperazione con la Libia, il Mediterraneo centrale continuerà a essere uno spazio non sicuro e per questo Mediterranea non smetterà di fare battaglia. Inoltre le dichiarazioni della ministra Lamorgese riguardo un ritorno a un codice delle Ong su modello di quello di Minniti confermano ulteriormente la continuità fra governi di diverso colore nell’intento di minare la capacità di agire delle organizzazioni non governative che operano in mare. Soprattutto, il decreto sicurezza bis è ancora in vigore. Diverse navi, compresa la “Mare Jonio”, sono ancora sotto sequestro amministrativo per averlo violato e non è ancora chiaro se e quando verranno dissequestrate. Nel frattempo quel tratto di mare continua a rimanere scoperto e chissà quante persone rischiano la vita nel tentativo di attraversarlo. Anche per quanto riguarda la realtà a terra, il primo e il secondo decreto sicurezza sono un attacco pesantissimo tanto ai diritti dei migranti quanto al diritto di tutti di manifestare liberamente il proprio dissenso. Come abbiamo detto più volte, l’azione di Mediterranea non si ferma al mare. Costruire ponti fra mare e terra significa soprattutto riconoscere ciò che accomuna queste battaglie giocate in campi diversi: la lotta per l’affermazione della libertà di movimento e di ciò che noi chiamiamo “libertà dei movimenti”. Una lotta per il diritto a essere liberi di muoversi, ma anche per il raggiungimento della piena libertà nel luogo in cui si sceglie di restare».

Foto di copertina di Mich Seixas