ITALIA

«Dal centro sociale alle acque davanti alla Libia», il racconto di due attivisti di Mediterranea

«È come se, al di là delle convenzioni internazionali, ci fosse un principio etico molto più profondo che dice che nessuno può cavarsela da solo, che il singolo è fragile e che questa fragilità è la forza della dimensione collettiva»

Marta ha 26 anni ed è laureata in scienze politiche. Daniele ne ha 32 e ha terminato gli studi di filosofia. Sono originari del nord-est e del sud-est, di Trieste e Lecce. Entrambi vivono a Roma, saltano da un’occupazione precaria all’altra e sono attivisti dell’atelier autogestito Esc, uno spazio sociale situato nel quartiere San Lorenzo.

Come siete finiti nelle acque del Mediterraneo centrale, su una nave di fronte alle coste libiche?

Daniele: Negli ultimi anni ho iniziato a occuparmi di barche, provando a crearmi delle possibilità di lavoro. Quando è nata l’idea di Mediterranea ho pensato che persone come me dovessero essere sensibili al progetto, affrontare il silenzio che hanno imposto al Mediterraneo con il blocco delle navi delle Ong e rispondere alla guerra contro la solidarietà. Chi va in mare sente molto questa situazione. Pensiamo ai pescatori, a chi vive su un’isola, a chi lavora sulle navi. L’aiuto a chi si trova in difficoltà è un principio fondamentale. Non salvare chi è in pericolo mette in questione lo stesso principio da cui scaturisce la vita intorno al mare.

Marta: La questione delle migrazioni mi è sempre interessata e mi ha anche toccato da vicino. Faccio parte del collettivo Esc Infomigrante, dove seguo lo sportello di orientamento legale. La spinta è nata dal bisogno di fare qualcosa che in tanti nella nostra generazione sentiamo. Cosa si fa di fronte a questa barbarie? Le possibilità di reagire sono tante. La questione delle morti in mare è forse una delle parti più evidenti, più violente del problema, anche se non è l’unica. Davanti alla normalizzazione di questa strage, comunque, c’è stata una spinta collettiva a dire basta, a rispondere in prima persona attraverso la nostra presenza fisica. Per dire che noi non ci stiamo.

Come avete saputo di Mediterranea?

D: Nella nostra vita di tutti i giorni siamo anche attivisti di un centro sociale, l’atelier Esc. Quando è nata quest’idea si è diffusa subito nel circuito degli spazi sociali. Quando abbiamo saputo che stava per partire la nave abbiamo colto al volo la possibilità di partecipare. Pensiamo che in questo momento storico sia una cosa fondamentale, sia concretamente che simbolicamente. Per ottenere dei risultati immediati, ma anche per lanciare un messaggio non solo alla politica istituzionale ma alla società. Tutti ci possiamo attivare, ci dobbiamo attivare insieme per rifondare i principi di un mondo migliore.

M: Volevamo portare sostegno alle persone in difficoltà, ma anche mostrare la nostra opposizione alle politiche violente messe in campo in questi anni dai governi. Siamo vicini a tutti coloro che hanno intrapreso un viaggio, una migrazione. Queste persone in qualche modo affermano il principio della possibilità di spostarsi per migliorare la propria vita. Questo riguarda tutti. Le migrazioni sono uno dei principi base che regolano l’umanità intera. Chi non se ne accorge è miope. Pensiamo a noi. Tutti conosciamo amici, colleghi di lavoro, parenti che durante la loro vita hanno cambiato città, paese. Il raggio geografico di questa migrazione non importa. Le nostre storie sono storie di movimento, di migrazioni.

@Mich Seixas

Come è stato navigare sulla mare Jonio?

D: Abbiamo dovuto imparare tanto. Tutti hanno dovuto fare un salto in più. Da una parte, i marinai di bordo hanno iniziato un percorso di soggettivazione politica. Sono siciliani, sono sempre stati per mare, hanno visto nel corso degli anni tante persone arrivare, molte barche in difficoltà. Ma stavolta è diverso. Loro stanno facendo questo percorso di coscienza. Dall’altra, per noi è stato un po’ il contrario. Abbiamo dovuto metterci a imparare come si sta in mare. Anche per me che comunque sono abituato questa è una cosa differente, non è una vacanza estiva. Stare in mare anche in inverno, prepararsi ad affrontare situazioni che possono essere difficoltose, è qualcosa di molto delicato.

M: Come attivista ho trovato molto interessante la modalità con cui si costruiscono i rapporti umani a bordo. Tutta una serie di dinamiche legate all’identificazione con delle strutture collettive in mare cadono. Nella quotidianità di vivere insieme in uno spazio molto ristretto come quello della barca si instaurano rapporti su basi diverse. Relazioni basate principalmente sulla cura reciproca, anche nel quotidiano. Perché i rapporti funzionino tutti devono fare tutto e stare attenti agli altri. Tutti cucinano, tutti fanno i turni per riordinare la barca, tutti soffrono il mal di mare quando le onde sono alte, tutti hanno bisogno degli altri per andare avanti. Questo fa in modo che cadano molte maschere. E questa è la natura del progetto, quella di unire realtà molto diverse, che hanno percorsi politici diversi per qualcosa che è stato individuato come importante e urgente. Questa cosa viene percepita in maniera molto netta da chi sta in mare attraverso la condivisione dell’esperienza a bordo.

Cosa si prova a non vedere la terra per tanti giorni, a vedere solo mare?

M: Sicuramente un forte senso di smarrimento e di grande vulnerabilità. Di fragilità. Scatta subito la consapevolezza di dover fare fruttare al meglio i rapporti e le relazioni che si hanno. Con persone che non abbiamo scelto, che non fanno parte del nostro quotidiano. È come se, al di là delle convenzioni internazionali, ci fosse un principio etico molto più profondo che è anche alla base del funzionamento dell’umanità e che dice che nessuno può cavarsela da solo, che il singolo è fragile e che questa fragilità è la forza della dimensione collettiva. Per cui anche il marinaio più esperto ha bisogno degli altri ed è consapevole di questo. È una dimensione particolare, molto forte, del mare, che viene sentita nella qualità dei rapporti che si instaurano a bordo. Forse si riesce a percepire una maggiore immedesimazione con le persone che si trovano ad affrontare questi viaggi. Sebbene, ovviamente, in condizioni molto diverse. Stare nel Mediterraneo su un’imbarcazione solida non può essere minimamente paragonato ad attraversarlo su gommoni o barche malandate.

@Valerio Nicolosi

Cosa ha fatto concretamente Mediterranea nelle prime tre missioni?

D: Per prima cosa ha svolto una funzione di monitoraggio. Era l’unica nave nella zona al confine tra le Sar (zona di search and rescue, ndr) italiana, libica e maltese. Da quando è iniziata la guerra alle Ong non c’erano più navi in quel tratto di mare. Quindi solo stando lì abbiamo svolto una funzione di monitoraggio. Ad esempio raccogliendo segnali di soccorso di diverse imbarcazioni che poi sono state raggiunte da altri mezzi. Nella prima missione un gommone a largo di Lampedusa ha lanciato una richiesta di aiuto e noi abbiamo fatto pressione sulla guardia costiera italiana affinché intervenisse. Alla fine le persone sono state portate a Lampedusa. Questo è successo anche nella seconda missione, ma purtroppo questa volta la barca in difficoltà è stata catturata dai libici. In generale ci sono tutta una serie di storie che senza un’attività di monitoraggio e testimonianza non arriverebbero mai. Come quella della nave Nivin riportata a Misurata contro la volontà delle persone a bordo o come il caso del peschereccio spagnolo che ha soccorso 12 migranti che i libici avevano abbandonato su un gommone bucato. Senza nessuno che fa attività di monitoraggio non se ne sarebbe saputo niente. Viene da chiedersi quante altre storie sono rimaste sommerse per sempre, quante vite sono finite in fondo al mare nel silenzio. Un secondo effetto della nostra operazione è stato il fatto che alcune Ong, come Sea Watch e Open Arms, sono tornate in mare in una missione congiunta. Mediterranea è riuscita a creare un piccolo fronte intorno a sé e questo è molto positivo.

Il vostro è un aiuto umanitario?

M: Noi interveniamo nel campo dell’umanitario, ma nella fase che stiamo vivendo questa parola va riconcettualizzata. L’umanitario non può più essere diviso dal politico. C’è un attacco politico ai soggetti che operano nel campo umanitario che è molto evidente e serve a spostare il senso comune verso posizioni sempre più razziste e xenofobe. Per questo attraverso un gesto umanitario si può riaffermare un principio che va oltre l’umanitario in sé. Queste vite noi vogliamo salvarle non solo perché è giusto e perché sarebbe vergognoso lasciarle morire. L’obiettivo di Mediterranea non è mettere una pezza a politiche escludenti che si ricollegano al processo di esternalizzazione delle frontiere che mira a bloccare il passaggio dei migranti nei paesi di transito. Ma ha l’obiettivo di affermare che queste persone dovrebbero avere la possibilità di arrivare in Europa in maniera sicura. E dovrebbero avere il diritto di andare e tornare senza intraprendere viaggi rischiosi e senza dover trovare delle giustificazioni per i loro spostamenti. Poi è chiaro che la maggior parte di quelli che arrivano hanno anche un passato di violenze e persecuzioni alle spalle. Il passaggio in Libia è un’esperienza traumatica e violenta per l’80/90% di queste persone. Il nostro obiettivo è affermare il diritto di tutti di potersi muovere, al di là del paese di provenienza. In questo senso un intervento nel campo dell’umanitario mira ad ampliare un discorso politico.

D: Mediterranea si differenzia da una Ong sia per come è strutturata, perché è una piattaforma molto plurale che tiene insieme realtà diverse, sia per la sua azione pratica e politica. Ad esempio quando eravamo a Lampedusa abbiamo fatto visita all’hotspot. Quindi nel progetto rientra una pratica politica più diffusa. Non siamo un’organizzazione che si limita al recupero di barche in difficoltà o al salvataggio. Vogliamo parlare a 360 gradi delle migrazioni, di che effetto hanno sulle nostre società, di che ruolo giocano nella costruzione di un cambiamento sociale in generale.

@Mich Seixas

Mentre eravate in mare che cosa è successo a terra?

D: C’è stata un’attivazione incredibile. Considerando anche la velocità con cui è nato il progetto. In tantissime città d’Italia si sono svolte iniziative, auto-organizzate da reti cittadine. Si sono attivate anche delle figure che hanno voluto sostenere il progetto. Da avvocati che prestano la loro competenza legale ad attori, musicisti, scenografi, artisti. Abbiamo registrato una voglia incredibile di partecipare e sostenere il progetto nelle forme più diverse. Anche molte scuole hanno voluto sensibilizzare i bambini intorno a queste tematiche. E speriamo che questa dinamica possa crescere ancora di più e diffondersi nella società.

M: L’avvio del progetto di Mediterranea ha fatto emergere tutta una serie di reti resistenti a questa deriva razzista, che partono da individualità o associazioni. Forse il gesto di Mediterranea ha aiutato queste realtà a prendere parola. A Palermo, poi, dove siamo sbarcati al termine della prima missione, c’è stato un momento commovente. Ho partecipato a un’assemblea in uno spazio autogestito che si chiama MoltiVolti in cui si è sentito il completo appoggio e sostegno della città. Molte delle realtà attive a Palermo su questi temi sono parte del progetto Mediterranea, ma c’è stata anche una risposta diffusa del tessuto sociale di una città che da secoli fa dell’integrazione dal basso e dello scambio tra comunità locali e di migranti la sua forza, alimentando anche la sua economia. C’è stata una risposta bella e calorosa e si è visto come il vero motore di Mediterranea sono anche le energie a terra.

Prossimi passi?

D: Sicuramente tornare in mare nei prossimi mesi per continuare a monitorare la situazione nel Mediterraneo centrale. L’operazione congiunta svolta con Proactiva Open Arms, Sea Watch e gli aerei dei piloti volontari ha segnato un passo in avanti ed è il primo segno che in poche settimane intorno a quest’operazione si sono convogliate delle energie forse sopite o sotto attacco. Poi vogliamo continuare a migliorare nell’operatività, ma anche allargare le capacità di fare pressione a terra. Rispetto agli anni passati c’è una difficoltà a trovare le imbarcazioni in difficoltà che dipende dalla strutturazione della zona marittima, che è una scelta politica. Il sistema di organizzazione del soccorso è completamente inadeguato. La formazione di queste zone Sar, l’addestramento della cosiddetta costiera libica sono questioni molto problematiche. Si è passati a una situazione in cui l’unica cosa che conta è il controllo dei confini. Per cui anche queste zone che dovrebbero essere di search and rescue non sono tali, perché non sono organizzate per cercare e salvare persone ma per scoraggiare i flussi e riportare le persone sulle coste libiche. Tutti sanno che lì c’è un disastro umanitario. Le posizioni di destra accettano o addirittura esultano per la situazione di centinaia di migliaia di persone trattenute, stuprate, violentate, torturate. Sono posizioni che vogliamo cancellare dalla nostra coscienza collettiva. Lo scontro politico contro queste forze razziste è tutto da giocare.

Mediterranea sarà a Roma, all’atelier autogestito Esc (via dei Volsci, 159), venerdì 14 dicembre dalle ore 18